Fragolalidia
20-06-2010, 21.18.59
Autore: FragolaLidia
Genere: Introspettivo, Triste
Avvertimenti: Het
Rating: Verde
Parring: Ginevra/Mordred
Lunghezza: 6982 parole (sembra lunga, lo so)
----
Artù Pendragon sospirò, alzandosi a fatica dal suo trono. Barcollò leggermente, costringendolo ad appoggiarsi alla Tavola Rotonda. La testa, lasciata barcollare verso il basso, lo costrinse a vedere il suo nome inciso sul legno sotto di lui. Era decorato con leganti fili dorati, a testimonianza del grande uomo che, un tempo, era stato.
Ancora una volta, Artù dovette nascondere il volto tra le mani nel tentativo di non piangere. Inspirò forte col naso e gemette. Non era vero: non era mia stato un grand’uomo. Era sempre stato solo un inetto.
Com’era arrivato fino a quel punto?
Perché non era stato abbastanza pronto.
Perché non era stato abbastanza attento.
Perché era un debole vecchio troppo attaccato alla vita e perché aveva amato troppo.
O troppo poco?
Lentamente, Artù cominciò a camminare lungo il perimetro ben levigato del simbolo del suo regno. Nonostante la Tavola Rotonda avesse più di sessant’anni e fosse nota per tutte le terre conosciute rasentando quasi la leggenda, gli sembrava ancora come il primo giorno in cui la vide. Forse un giorno sarebbe andata distrutta, ma quel momento sembrava molto lontano anche se…
anche se ormai tutto si era concluso e quello non era che un emblema svuotato di tutti i suoi significati.
Artù lesse meccanicamente i nomi incisi con cura nei vari posti.
Ser Gawain.
Il suo nipote più caro e fedele, il suo braccio destro. E ora lontano da lui per suo stesso volere. Un cavaliere formidabile e temerario, una perdita terribile per il suo esercito, ma non poteva certo costringerlo a scegliere chi tradire della sua famiglia: in qualunque schieramento finisse, si sarebbe ritrovato a combattere contro un suo fratello. Artù si chiese come stesse, esiliato nelle Orcadi senza poter intervenire in quella faida famigliare che sapeva di tragedia. A quell’idea Artù non poté non sorridere tristemente: sì, Gawain alla fine si sarebbe mosso anche solo per l’ultimo tentativo di fermarli, immolandosi in quella causa persa. Ma ormai l’ultima battaglia era giunta.
Ser Parsifal.
Il cavaliere boscaiolo, come lo canzonavano con affetto alcuni cavalieri. Un giovane uomo dal cuore puro e dall’animo saldo, timido con le donne quanto temerario in duello. Era morto da anni, per sua fortuna: la ricerca del Graal lo aveva risparmiato a quell’inferno.
Ser Owein, figlio di Urien.
Le sue vicissitudini amorose erano divenute il divertimento per tutta Camelot, ma lui affrontò tutte le avversità con onore: la sua amata Thaney valeva ogni derisione. Dopo le pene passate con Penarwen, non avrebbe mai rinunciato al balsamo amorevole del vero amore. Era un uomo da ammirare. Decisamente.
Ser Tor.
La cui origine riempì di pettegolezzi l’intera corte, tanto quanto le sue prodezze amorose e militari. Era fiero e dispiaciuto di saperlo al suo fianco in battaglia: un uomo del genere sarebbe servito al popolo per aiutarlo quando tutto si sarebbe concluso.
Ser Safir.
Saraceno di nascita, cristiano per vocazione. Il cavaliere tanto leale quanto passionale. Forse era per questo che ora era al fianco di Mordred assieme al fratello, ser Palamede.
Ser Bedivere.
Uno dei pochi cavalieri della Tavola Rotonda ancora in vita a essere persino più vecchio di lui. Probabilmente sarebbe vissuto altri mille anni: la sua fiamma interiore era inesauribile. Artù lo sapeva: Bedivere, in quel momento, era a piangere nelle sue stanze per la tragedia che si stava compiendo davanti agli occhi. Era sempre stato al suo fianco: dalla prima battaglia fino ad oggi, l’aveva sentito spasimare per Morgana, penare per la sua lontananza, gioirne della presenza. Conosceva Mordred, lo aveva tenuto tra le braccia quando era appena nato, gli aveva insegnato a cacciare, a usare arco e frecce. Artù non avrebbe mai saputo dire quanto gli fosse grato per essere al suo fianco anche in quel momento.
Ser Cador.
Suo cugino, che teneva al sicuro Llacheu, lontano dalla battaglia e da chiunque volesse sostituirsi a lui nel ruolo di erede al regno di Camelot.
Ser Dinadan, semplice e senza paura.
A suo tempo, Artù lo ricordava bene, fu un grande amico di Ser Tristano. Che fosse per questo motivo che aveva abbracciato la causa di Mordred? Tutta quella triste storia ricordava troppo quella del cavaliere che un tempo dava lustro a Camelot ma il cui nome, ora, era per i più simbolo di disonore. Dinadan non era mai riuscito a perdonare nessuno dei promotori di quelle malignità.
Ser Tristano, tanto bello quanto valente.
Il suo animo languido aveva fatto palpitare il cuore di innumerevoli dame, la sua voce aveva calmato i più irrequieti dei cavalli. Anche lui era morto giovane e innamorato. Ginevra, che si era affezionata al cavaliere e al suo amore per la regina Isotta, aveva sofferto molto per la dipartita dei due amanti. A quel ricordo Artù si sentì stringere il cuore: era davvero stato così distratto?
Ser Melehan.
Il primogenito di Mordred. Il suo primo nipote. Ora nelle schiere nemiche, fedele fino all’ultimo a suo padre, come Mordred prima di lui. Per fortuna, si ritrovò a pensare Artù, Melou non era ancora stato nominato cavaliere e le sue spie gli avevano assicurato che Mordred era riuscito a tenere almeno lui lontano dalla battaglia. Ma Ser Melehan era un giovane e prode guerriero che di diritto avrebbe combattuto. E Mordred non poteva impedirglielo. Artù poteva comprendere i moti che, in quel momento, scuotevano l’animo di suo figlio: lui stesso aveva tentato di tenere Mordred lontano dalla battaglia, nonostante fosse uno dei più valorosi guerrieri che avesse mai visto combattere e quando era stato al suo fianco nella battaglia l’aveva riempito d’orgoglio.
Re Leodegrance.
Artù sospirò mortificato. Lui e Leodegrance erano i soli colpevoli di quello scempio. Ironicamente, fu lui a donargli la Tavola Rotonda, quando salì al trono e fu per colpa delle sue scelte che tutto quello che quell’enorme tavolo rappresentava erano ormai distrutte. Niente più fratellanza, niente più cavalleria, niente più pace. Per sua fortuna era morto da anni, ormai. O no? Non lo sapeva con sicurezza. Che si fosse accorto prima di lui del guaio commesso e avesse deciso di punirsi allontanandosi dalla mondanità che tanto amava? Artù non avrebbe mia saputo dirlo.
Ser Lucano. Fratello minore di Bedivere e, come lui, aspettava il suo ultimo ordine di partire. In un certo senso era rassicurante sapere che quei due fratelli fossero ancora al suo fianco e lo sostenevano, nonostante tutto.
Ser Galahad.
Il buono. Il puro. Il prode. Il perfetto Galahad. L’unico che, secondo Bors, era effettivamente riuscito a impugnare la sacra coppa. Cos’avrebbe detto di quello scempio?
Artù ebbe un sussurro.
Ser Mordred.
Il suo piccolo Mordred. A quel nome, Artù sentì le gambe cedergli. Si sedette, proprio su quel seggio. Quello di suo figlio. Quello del suo bambino. Il posto di Mordred non era male, in fondo. Tutti i cavalieri erano equidistanti dal centro, perché tutti fossero uguali, quindi perché dovrebbe essere un brutto posto quello? Ma ad Artù era sempre sembrato il posto peggiore di tutti: troppo lontano da lui. Come tutti i posti che non erano al suo quelli a lui più vicini, E allora perché non aveva fatto nulla per cambiare le cose? All’inizio aveva pensato fosse ragionevole soddisfare le rimostranze dei cortigiani che si lamentavano della possibilità di una troppa influenza di Mordred, che per loro era solo il suo bastardo, sulle decisioni del re. Ma i cavalieri della tavola rotonda non erano tutti uguali? Lui non era solo uno dei tanti cavalieri? Come Gawein, come Tristano, come Lancillotto e come Mordred? A quanto pareva no. E questo primo errore non se lo sarebbe mai perdonato: l’ingenuità di pensare che quella posizione non fosse importante. Forse, se l’avesse avuto vicino, si sarebbe accorto dell’agonia che faceva provare a suo figlio. E poi Mordred non era un bastardo. Lui aveva sposato Morgana. Il rito era quello del vecchio culto, ormai in disuso se non in alcune regioni del regno, ma i voti erano stati pronunciati con serietà: Morgana era l’unica donna che avesse mai voluto. L’unica donna che ancora voleva al suo fianco. Come donna e come regina. Aveva sposato Ginevra solo per convenienza.
A quel pensiero Artù si sentì montare di rabbia.
Se Morgana l’avesse sposato secondo le leggi di Camelot, Mordred sarebbe l’erede legittimo anche agli occhi del regno. Avrebbe sposato lui Ginevra e tutto sarebbe andato come doveva, tutti sarebbero stati felici.
Amava i figli avuti da Ginevra, ma li avrebbe amati altrettanto se fossero stati i suoi nipoti.
Non avrebbe mai perdonato Morgana per questo.
Non si sarebbe mai perdonato per questo.
Non si sarebbe mai perdonato per non essersene accorto.
Ancora ricordava la nascita di Mordred: era un giorno di primavera. Le doglie avevano reso Morgana delicata e fragile come non l’aveva mai vista. E il primo vagito di Mordred l’aveva fatta sorridere nel modo più bello ed emozionante del mondo. E Mordred aveva pianto. Oh…! Se aveva pianto! Come se non avesse paura di mostrarsi al mondo.
Artù alzò il capo, sentendo le lacrime salirgli agli occhi. Non aveva intenzione di fermarle, questa volta. Lo sguardo appannato si posò istintivamente verso l’entrata laterale della sala. Proprio lì, in una nicchia vuota della sala, Mordred era solito trovare posto: quando era piccolo, per giocare a nascondersi o spaventare sua madre. Artù sospirò dolorosamente nel ricordare che, quando Morgana si era allontanata da corte portando von sé i loro figli (lontano dalla corruzione della corte, come diceva lei) si era spesso ritrovato a guardare verso quell’angolo della sala, come se il figlio fosse ancora lì. Poi Mordred era tornato. Non più bambino ma fanciullo attento e intelligente nei suoi quattordici anni. E nonostante il decennio passato lontano da palazzo, aveva ritrovato nella stessa nicchia il suo luogo preferito. Lì, proprio lì in quel punto, ora così vuoto e inutile, Mordred ascoltava in silenzio tutto quello che c’era di bello e importante nella tavola rotonda. In quei giorni, Artù lo ricordava bene, fece del suo meglio per perché suo figlio non si vergognasse di lui, che potesse dire con orgoglio:
“Quello è mio padre, il più grande re di tutte le terre conosciute”.
A quel ricordo, Artù si maledì. Avrebbe dovuto tenerlo più vicino a sé. Avrebbe dovuto farlo sedere a suo fianco, in quel tavolo: si era prodigato tanto per affascinare Mordred con la sua opera, per poi trattarlo alla stregua del più mediocre dei suoi cavalieri. Poco importava se Mordred lo aveva sempre rassicurato di essere più che onorato di avere il posto in parte a seggio vuoto: era un onore, diceva, poter sedere al fianco del seggio destinato al più onorevole cavaliere del regno. Anche Mordred, però, era sempre stato un uomo degno, quanto Galahad e tutti gli altri i suoi uomini. Ancora ricordava il giorno della venuta del giovane figlio di Lancillotto. Il primo cavaliere lo guardava con fierezza, ma fu Mordred a farlo sentire a suo agio a Camelot. C’era chi malignava di un’ affinità dei bastardi.
Ma Mordred non era un bastardo.
Era il suo primogenito.
Il primo figlio che Morgana gli aveva dato l’onore di dargli.
Artù fece vagare lo sguardo. Senza accorgersene si ritrovò a issare il piccolo seggio dove la regina soleva stare ad ascoltare i cavalieri della tavola rotonda. Artù la conobbe che era solo una bambina. L’aveva presa dalla casa del padre e condotta a palazzo per poi abbandonarla in compagnia di Mordred e dell’ormai vecchia corte di Camelot, per poi tornare sui campi di battaglia, sereno di aver lasciato al sicuro i due giovani che si sarebbero tenuti compagnia, riuscendo così a sviare la richiesta di Mordred di divenire cavaliere e seguirlo in guerra. Artù aveva sempre pensato che quella soluzione, fosse stata una delle sue trovate migliori: come poteva, Mordred, esimersi dal proteggere la futura regina di Camelot?
Ora però, Artù non si sarebbe mai perdonato per questo.
Cos’era successo a Camelot in quell’anno? Che quei due giovani si fossero già innamorati allora?
Quand’era tornato a Camelot, vittorioso e fiero, si era sposato immediatamente per evitare grane col vecchio amico Leodegrance desideroso di vedere sua figlia regina. Non aveva nascosto, però, di essere più interessato alla nascita di un altro dei loro figli: Morgana, per quanto rimanesse giovane, era troppo matura per diventare madre e, Artù l’aveva visto, quella gravidanza l’aveva affaticata molto. Quel giorno Artù era stato così preso da se stesso da non accorgersi che lo sguardo cupo del figlio, nascosto nella sua solita nicchia, non era dato dalla situazione materna (Mordred conosceva troppo bene sua madre per temere per la sua salute), ma dalla vista di Ginevra che andava in sposa a un altro uomo.
Un uomo che non l’amava e non l’avrebbe mai amata come meritava.
A suo padre, che poteva amare solo sua madre.
E Mordred l’aveva perdonato.
Aveva provato a fargli cambiare idea, parlandogli per il bene di Ginevra, spaventata per il destino che incombeva sulla sua giovane testa, ma la noncuranza di Artù nei confronti della futura regina di Camelot.
E Mordred lo aveva perdonato.
L’aveva perdonato perché quello era il suo dovere di re.
L’aveva perdonato perché quello era il suo dovere di figlio.
L’aveva perdonato perché quello era il suo dovere di suddito e cavaliere.
E Artù non si sarebbe mai perdonato per questo.
Perché questo era il suo diritto di padre.
Gli anni poi erano passati e la sua cecità di uomo egoista gli aveva impedito di vedere.
Di vedere il motivo della sofferenza di Ginevra, cara al suo cuore come una figlia, che – solo ora capiva – aspettava sempre il ritorno di Mordred a Camelot, pur di poterlo vedere e scambiare con lui qualche parola di convenienza. Ginevra aveva nascosto tutto in una velata malinconia che la rendeva agli occhi dei più incredibilmente languida. Era capitato, all’inizio del loro matrimonio, che Artù la scoprisse piangere in segreto; scioccamente aveva pensato fosse per l’incombenza dei suoi doveri di regina, troppo grandi per lei, ma non era così. Ora lo sapeva: Ginevra era nata per essere regina.
Solo, non la sua.
Poi il tempo passava e aveva temuto che quella velata tristezza dei suoi occhi l’avrebbe uccisa. L’arrivo di Lancillotto fu un bel cambiamento: aveva fatto ridere la regina e, probabilmente, la mondanità del cavaliere, l’aveva aiutata a distrarsi dai suoi segreti. Poi erano giunte le dicerie che si espansero a macchia d’olio per tutto il regno.
E alla fine era tornato Mordred.
Artù ricordava ancora nitidamente la notte in ciò suo figlio era giunto al castello e la loro conversazione. Senza troppi giri di parole, come solo Morgana avrebbe fatto oltre a lui, Mordred gli aveva chiesto ed era ero che la regina si era legata al suo campione. Artù gli aveva assicurato che Ginevra era fedele ai suoi voti e Mordred, allora, aveva cominciato a piangere in silenzio, quasi colpevole. Artù non lo vedeva piangere da quando era nato, ma invece di essere pervaso dalla gioia, Artù si era sentito colmo di tristezza. Forse nel fondo del suo cuore aveva già intuito il sentimento di Mordred per la regina, o forse, come credeva in quel momento, mente lo consolava, era sinceramene convinto che il suo comportamento fosse dovuto al suo timore di figlio e cavaliere per l’onore del re suo padre.
Poco importava: era ora che la verità gli si era mostrata davanti agli occhi in tutta la sua crudeltà.
E Artù non si sarebbe mai perdonata per questo.
Qualche tempo dopo era arrivato il matrimonio di Mordred con Gwenhwyvach e il loro primogenito. E con questi le lacrime di Ginevra. La regina non era ancora riuscita a dare alla luce un erede per Camelot e sua sorella invece, in meno di un anno di matrimonio, aveva dato a Mordred un maschio. Uno splendido maschio sano e forte. Una volta, guardando il nipote nella culla, Ginevra aveva sospirato, sussurrando al bambino ancora in fasce quanto avrebbe voluto essere sua madre. Artù, che per caso aveva assistito alla scena, si era mostrato a lei e l’aveva abbracciata, consolandola. Aveva scioccamente pensato che la sua tristezza fosse data dal fatto che non fosse ancora divenuta madre, ma solo ora Artù capiva il vero significato di quelle parole.
Ginevra l’aveva mia perdonato per tanto egocentrismo?
Poi ci fu lo scandaloso amore tra Lancillotto ed Elena di Corbenic. Lancillotto aveva ostentato la sua innocenza accusando la donna di averlo incantato e partendo per un pellegrinaggio per redimersi dai peccati commessi. Come risposta, Elena di Corbenic, umiliata dall’uomo amato e dalla corte, scappò trovando rifugio in un convento. Mordred, fedele alla cultura materna più che alle usanze di Camelot, nel vederlo partire aveva ironizzato sulla purezza d’animo di Lancillotto. Ginevra da parte sua, per quanto malignasse la corte, soffrì molto la partenza di Elena; la donna era stata una cara amica e, forse?, una confidente per la solitudine della regina. Perché, ora Artù comprendeva, il suo rancore di donna andava contro Gwenhwyvach, e nessun’altra dama. Un rancore dettato dall’invidia della posizione della sorella al fianco di Mordred. Un rancore di cui Ginevra si vergognava, ma che non riusciva a non provare. E delle lacrime, cariche di sensi di colpa, che Ginevra aveva versato sulla salma della sorella. L’astio che Ginevra aveva provato per la sorella non era per il tradimento di Gwenhwyvach nei confronti della casata di Camelot come molti credevano, ma per pura e semplice rivalità nel cuore di Mordred.
E Ginevra non si sarebbe mai perdonata di aver provato tutto quell’odio.
Poi era arrivato Gwydre. Durante tutta la gravidanza, Artù aveva passato ogni sera a giocare con Melehan e Gwydre mentre Mordred e Ginevra parlavano del futuro bambino.
Artù si chiese se non stessero immaginando che quel figlio non fosse loro.
E se lo fosse stato davvero?
Bhe, non sarebbe mai stato importante: né allora, né in quel momento.
Due primavere dopo fu la volta della nascita di Llacheu, la gioia degli occhi del regno. Mordred era via da un anno, ma una volta saputo della nascita di un altro principe di Camelot, aveva mandato doni incredibili per festeggiare il fratello appena nato e la regina. Alcuni cortigiani malignarono sulle intenzioni di Mordred, lasciando a intendere che quella era una scusa per ostentare poteri e ricchezze, ricordando al re e a tutto il regno che non si sarebbe fatto mettere da parte.
Ma Mordred era davvero felice per il re e la regina.
Per quanto amasse Ginevra.
Per quanto soffrisse per lei.
E poi, Artù lo capiva solo ora, quei regali non erano stati fatti solo per festeggiare la venuta al mondo di Llacheu, ma piuttosto era l’unica occasione in cui poteva fare un dono alla Regina di Camelot senza arrecargli disonore.
Per non arrecare disonore al re suo padre.
E Artù non si sarebbe mai perdonato per questo.
E Gwydre morì. Stupidamente e tragicamente come solo un bamino poteva. Ginevra non si era mossa dal letto neanche per assistere ai funerali. Mordred, dal canto suo, era rientrato a Camelot appena saputo della sciagura ed era stato al suo fianco per tutto il servizio funebre, piangendo lacrime che nessuno sospettava che avesse.
Quella fu l’unica occasione in cui nessun cortigiano malignò su Mordred.
Nei mesi successivi, Mordred, Llacheu, Melehan e Melou (http://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Melehan_e_Melou&action=edit&redlink=1) andavano ogni giorno nelle stanze di Ginevra, giovando sulla salute della regina. Artù era stato grato a Mordred per queste attenzioni, ma solo ora sapeva che non erano dettate solamente dal dovere.
E Artù non si sarebbe mai perdonato per questo.
Il tempo poi era passato, Morgana e i loro figli si mostravano al mondo mostrando la loro solita, grandiosa, bellezza.
Melehan era stato nominato cavaliere, con grande orgoglio di Morgana, giunta a Camelot per l’occasione, di Mordred, Ginevra e Artù stesso. Artù ancora ricordava quell’incontro tra Ginevra e Morgana. Le aveva viste parlare, senza poterle sentire. Ginevra manteneva lo sguardo basso, colpevole, e Morgana la guardava amorevole come una madre, nonostante l’aspetto delle due facesse supporre che fosse Ginevra la più anziana. Poi Morgana abbracciò l’altra donna, che cominciò a piangere.
Che Morgana sapesse? Ma se sapeva come poteva non avergliene parlato?
No, Artù non voleva pensarci, altrimenti non gli avrebbe mai saputo come perdonare Morgana.
Artù sospirò, tornando a guardare il seggio di Galahad. Il cavaliere era giunto pochi mesi dopo, e dopo altrettanto tempo era stato nominato cavaliere con grande orgoglio di Lancillotto. A guardare il giovane cavaliere, Artù non poteva che ricordare lo sguardo lievemente spaesato di Mordred al suo ritorno a Camelot, quando ancora non aveva che quattordici anni. Forse era per quello che Mordred gli era stato vicino, aiutandolo a imparare tutte le regole che un degno cavaliere di Camelot doveva conoscere.
Regole che Mordred conosceva da sempre.
Regole che Mordred aveva sempre rispettato.
Regole che lo avevano fatto soffrire…
Partire per la cerca era stato poi inevitabile. Erano partiti tutti, Artù compreso; erano passati troppi anni lontani dalla guerra e nel tedio di una corte ormai logora e piena di corruzione. Una corruzione che esisteva da sempre che Artù non era riuscito a estirpare.
Aveva ragione Morgana, ma per questo non l’avrebbe mai perdonata.
Per questo non si sarebbe mai perdonato.
Come non le avrebbe mai perdonato la fine di ogni rapporto con Camelot, facendolo sprofondare nella disperazione, come non si era perdonato l’aver scientemente usato la scusa della Cerca per correre ad Avalon cullarsi tra le braccia ancora giovani e fresche dell’amata.
Incurante di tutto, se non di loro due.
Lasciando che il suo regno andasse in pezzi.
Lasciando che tutto andasse in pezzi.
No, Artù non se lo sarebbe perdonato.
Quand’era tornato con riluttanza a Camelot, l’aveva vista cambiata e identica allo stesso tempo. Mordred era tornato da mesi a corte e si era preoccupato di risolvere i problemi creati dall’assenza ingiustificata del re. Pian piano erano tornati anche gli altri cavalieri.
Lancillotto, così fervente nel voler servire la sua regina.
Agravaine così annoiato dal continuo pellegrinare per qualcosa che, in fondo, aveva sempre reputato sciocco.
Ser Costantino, che Artù sospettava fosse solo tornato nelle sue terre per amministrarle come lui stesso desiderava.
Ser Gereth e Ser Gawain, così uniti da quel viaggio, come solo due fratelli possono essere.
Ser Dinadan, ferito ma pieno di vita…
Tutti i cavalieri rimasti in vita in quei lunghi e difficili mesi erano tornati, con storie diverse, con ferite diverse, con animi diversi…
E alla fine era tornato Ser Bors con la vera conclusione della cerca, conclusa col sacrificio di Parcifal e Galahad.
E nessuno si sarebbe mia perdonato le loro perdite.
Poi era tornata la guerra. E Artù era partito con i cavalieri in perfetta salute e le truppe di fanti pronti a immolarsi per Camelot. Lui e Mordred erano riusciti a convincere Melehan a non partire subito come cavaliere, ma rimanere ad aiutare Ser Kay ad addestrare le nuove truppe.
A Mordred le chiavi del regno. Suo figlio, gliel’aveva dimostrato nei mesi della sua assenza per la Cerca, era la nuova linfa che serviva a Camelot. E Artù non l’avrebbe mai allontanato da lì.
Forse aveva sbagliato. Ma quella era la sua volontà di re e di padre. Era la cosa giusta da fare.
E non si sarebbe mai vergognato per questo.
Al fronte poi, era stato colpito gravemente a un fianco. Aveva passato le notti a invocare il nome di Morgana, pur sapendo che non sarebbe arrivata. Al suo posto, però, era giunta un’altra capigliatura scura e riccioluta: Melehan era giunto in prima linea per sapere del nonno e lì s’era preso cura di lui.
E gli sarebbe sempre stato grato della sua presenza, pur non perdonandogli di essere arrivato al fronte contro la sua volontà.
Genere: Introspettivo, Triste
Avvertimenti: Het
Rating: Verde
Parring: Ginevra/Mordred
Lunghezza: 6982 parole (sembra lunga, lo so)
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Artù Pendragon sospirò, alzandosi a fatica dal suo trono. Barcollò leggermente, costringendolo ad appoggiarsi alla Tavola Rotonda. La testa, lasciata barcollare verso il basso, lo costrinse a vedere il suo nome inciso sul legno sotto di lui. Era decorato con leganti fili dorati, a testimonianza del grande uomo che, un tempo, era stato.
Ancora una volta, Artù dovette nascondere il volto tra le mani nel tentativo di non piangere. Inspirò forte col naso e gemette. Non era vero: non era mia stato un grand’uomo. Era sempre stato solo un inetto.
Com’era arrivato fino a quel punto?
Perché non era stato abbastanza pronto.
Perché non era stato abbastanza attento.
Perché era un debole vecchio troppo attaccato alla vita e perché aveva amato troppo.
O troppo poco?
Lentamente, Artù cominciò a camminare lungo il perimetro ben levigato del simbolo del suo regno. Nonostante la Tavola Rotonda avesse più di sessant’anni e fosse nota per tutte le terre conosciute rasentando quasi la leggenda, gli sembrava ancora come il primo giorno in cui la vide. Forse un giorno sarebbe andata distrutta, ma quel momento sembrava molto lontano anche se…
anche se ormai tutto si era concluso e quello non era che un emblema svuotato di tutti i suoi significati.
Artù lesse meccanicamente i nomi incisi con cura nei vari posti.
Ser Gawain.
Il suo nipote più caro e fedele, il suo braccio destro. E ora lontano da lui per suo stesso volere. Un cavaliere formidabile e temerario, una perdita terribile per il suo esercito, ma non poteva certo costringerlo a scegliere chi tradire della sua famiglia: in qualunque schieramento finisse, si sarebbe ritrovato a combattere contro un suo fratello. Artù si chiese come stesse, esiliato nelle Orcadi senza poter intervenire in quella faida famigliare che sapeva di tragedia. A quell’idea Artù non poté non sorridere tristemente: sì, Gawain alla fine si sarebbe mosso anche solo per l’ultimo tentativo di fermarli, immolandosi in quella causa persa. Ma ormai l’ultima battaglia era giunta.
Ser Parsifal.
Il cavaliere boscaiolo, come lo canzonavano con affetto alcuni cavalieri. Un giovane uomo dal cuore puro e dall’animo saldo, timido con le donne quanto temerario in duello. Era morto da anni, per sua fortuna: la ricerca del Graal lo aveva risparmiato a quell’inferno.
Ser Owein, figlio di Urien.
Le sue vicissitudini amorose erano divenute il divertimento per tutta Camelot, ma lui affrontò tutte le avversità con onore: la sua amata Thaney valeva ogni derisione. Dopo le pene passate con Penarwen, non avrebbe mai rinunciato al balsamo amorevole del vero amore. Era un uomo da ammirare. Decisamente.
Ser Tor.
La cui origine riempì di pettegolezzi l’intera corte, tanto quanto le sue prodezze amorose e militari. Era fiero e dispiaciuto di saperlo al suo fianco in battaglia: un uomo del genere sarebbe servito al popolo per aiutarlo quando tutto si sarebbe concluso.
Ser Safir.
Saraceno di nascita, cristiano per vocazione. Il cavaliere tanto leale quanto passionale. Forse era per questo che ora era al fianco di Mordred assieme al fratello, ser Palamede.
Ser Bedivere.
Uno dei pochi cavalieri della Tavola Rotonda ancora in vita a essere persino più vecchio di lui. Probabilmente sarebbe vissuto altri mille anni: la sua fiamma interiore era inesauribile. Artù lo sapeva: Bedivere, in quel momento, era a piangere nelle sue stanze per la tragedia che si stava compiendo davanti agli occhi. Era sempre stato al suo fianco: dalla prima battaglia fino ad oggi, l’aveva sentito spasimare per Morgana, penare per la sua lontananza, gioirne della presenza. Conosceva Mordred, lo aveva tenuto tra le braccia quando era appena nato, gli aveva insegnato a cacciare, a usare arco e frecce. Artù non avrebbe mai saputo dire quanto gli fosse grato per essere al suo fianco anche in quel momento.
Ser Cador.
Suo cugino, che teneva al sicuro Llacheu, lontano dalla battaglia e da chiunque volesse sostituirsi a lui nel ruolo di erede al regno di Camelot.
Ser Dinadan, semplice e senza paura.
A suo tempo, Artù lo ricordava bene, fu un grande amico di Ser Tristano. Che fosse per questo motivo che aveva abbracciato la causa di Mordred? Tutta quella triste storia ricordava troppo quella del cavaliere che un tempo dava lustro a Camelot ma il cui nome, ora, era per i più simbolo di disonore. Dinadan non era mai riuscito a perdonare nessuno dei promotori di quelle malignità.
Ser Tristano, tanto bello quanto valente.
Il suo animo languido aveva fatto palpitare il cuore di innumerevoli dame, la sua voce aveva calmato i più irrequieti dei cavalli. Anche lui era morto giovane e innamorato. Ginevra, che si era affezionata al cavaliere e al suo amore per la regina Isotta, aveva sofferto molto per la dipartita dei due amanti. A quel ricordo Artù si sentì stringere il cuore: era davvero stato così distratto?
Ser Melehan.
Il primogenito di Mordred. Il suo primo nipote. Ora nelle schiere nemiche, fedele fino all’ultimo a suo padre, come Mordred prima di lui. Per fortuna, si ritrovò a pensare Artù, Melou non era ancora stato nominato cavaliere e le sue spie gli avevano assicurato che Mordred era riuscito a tenere almeno lui lontano dalla battaglia. Ma Ser Melehan era un giovane e prode guerriero che di diritto avrebbe combattuto. E Mordred non poteva impedirglielo. Artù poteva comprendere i moti che, in quel momento, scuotevano l’animo di suo figlio: lui stesso aveva tentato di tenere Mordred lontano dalla battaglia, nonostante fosse uno dei più valorosi guerrieri che avesse mai visto combattere e quando era stato al suo fianco nella battaglia l’aveva riempito d’orgoglio.
Re Leodegrance.
Artù sospirò mortificato. Lui e Leodegrance erano i soli colpevoli di quello scempio. Ironicamente, fu lui a donargli la Tavola Rotonda, quando salì al trono e fu per colpa delle sue scelte che tutto quello che quell’enorme tavolo rappresentava erano ormai distrutte. Niente più fratellanza, niente più cavalleria, niente più pace. Per sua fortuna era morto da anni, ormai. O no? Non lo sapeva con sicurezza. Che si fosse accorto prima di lui del guaio commesso e avesse deciso di punirsi allontanandosi dalla mondanità che tanto amava? Artù non avrebbe mia saputo dirlo.
Ser Lucano. Fratello minore di Bedivere e, come lui, aspettava il suo ultimo ordine di partire. In un certo senso era rassicurante sapere che quei due fratelli fossero ancora al suo fianco e lo sostenevano, nonostante tutto.
Ser Galahad.
Il buono. Il puro. Il prode. Il perfetto Galahad. L’unico che, secondo Bors, era effettivamente riuscito a impugnare la sacra coppa. Cos’avrebbe detto di quello scempio?
Artù ebbe un sussurro.
Ser Mordred.
Il suo piccolo Mordred. A quel nome, Artù sentì le gambe cedergli. Si sedette, proprio su quel seggio. Quello di suo figlio. Quello del suo bambino. Il posto di Mordred non era male, in fondo. Tutti i cavalieri erano equidistanti dal centro, perché tutti fossero uguali, quindi perché dovrebbe essere un brutto posto quello? Ma ad Artù era sempre sembrato il posto peggiore di tutti: troppo lontano da lui. Come tutti i posti che non erano al suo quelli a lui più vicini, E allora perché non aveva fatto nulla per cambiare le cose? All’inizio aveva pensato fosse ragionevole soddisfare le rimostranze dei cortigiani che si lamentavano della possibilità di una troppa influenza di Mordred, che per loro era solo il suo bastardo, sulle decisioni del re. Ma i cavalieri della tavola rotonda non erano tutti uguali? Lui non era solo uno dei tanti cavalieri? Come Gawein, come Tristano, come Lancillotto e come Mordred? A quanto pareva no. E questo primo errore non se lo sarebbe mai perdonato: l’ingenuità di pensare che quella posizione non fosse importante. Forse, se l’avesse avuto vicino, si sarebbe accorto dell’agonia che faceva provare a suo figlio. E poi Mordred non era un bastardo. Lui aveva sposato Morgana. Il rito era quello del vecchio culto, ormai in disuso se non in alcune regioni del regno, ma i voti erano stati pronunciati con serietà: Morgana era l’unica donna che avesse mai voluto. L’unica donna che ancora voleva al suo fianco. Come donna e come regina. Aveva sposato Ginevra solo per convenienza.
A quel pensiero Artù si sentì montare di rabbia.
Se Morgana l’avesse sposato secondo le leggi di Camelot, Mordred sarebbe l’erede legittimo anche agli occhi del regno. Avrebbe sposato lui Ginevra e tutto sarebbe andato come doveva, tutti sarebbero stati felici.
Amava i figli avuti da Ginevra, ma li avrebbe amati altrettanto se fossero stati i suoi nipoti.
Non avrebbe mai perdonato Morgana per questo.
Non si sarebbe mai perdonato per questo.
Non si sarebbe mai perdonato per non essersene accorto.
Ancora ricordava la nascita di Mordred: era un giorno di primavera. Le doglie avevano reso Morgana delicata e fragile come non l’aveva mai vista. E il primo vagito di Mordred l’aveva fatta sorridere nel modo più bello ed emozionante del mondo. E Mordred aveva pianto. Oh…! Se aveva pianto! Come se non avesse paura di mostrarsi al mondo.
Artù alzò il capo, sentendo le lacrime salirgli agli occhi. Non aveva intenzione di fermarle, questa volta. Lo sguardo appannato si posò istintivamente verso l’entrata laterale della sala. Proprio lì, in una nicchia vuota della sala, Mordred era solito trovare posto: quando era piccolo, per giocare a nascondersi o spaventare sua madre. Artù sospirò dolorosamente nel ricordare che, quando Morgana si era allontanata da corte portando von sé i loro figli (lontano dalla corruzione della corte, come diceva lei) si era spesso ritrovato a guardare verso quell’angolo della sala, come se il figlio fosse ancora lì. Poi Mordred era tornato. Non più bambino ma fanciullo attento e intelligente nei suoi quattordici anni. E nonostante il decennio passato lontano da palazzo, aveva ritrovato nella stessa nicchia il suo luogo preferito. Lì, proprio lì in quel punto, ora così vuoto e inutile, Mordred ascoltava in silenzio tutto quello che c’era di bello e importante nella tavola rotonda. In quei giorni, Artù lo ricordava bene, fece del suo meglio per perché suo figlio non si vergognasse di lui, che potesse dire con orgoglio:
“Quello è mio padre, il più grande re di tutte le terre conosciute”.
A quel ricordo, Artù si maledì. Avrebbe dovuto tenerlo più vicino a sé. Avrebbe dovuto farlo sedere a suo fianco, in quel tavolo: si era prodigato tanto per affascinare Mordred con la sua opera, per poi trattarlo alla stregua del più mediocre dei suoi cavalieri. Poco importava se Mordred lo aveva sempre rassicurato di essere più che onorato di avere il posto in parte a seggio vuoto: era un onore, diceva, poter sedere al fianco del seggio destinato al più onorevole cavaliere del regno. Anche Mordred, però, era sempre stato un uomo degno, quanto Galahad e tutti gli altri i suoi uomini. Ancora ricordava il giorno della venuta del giovane figlio di Lancillotto. Il primo cavaliere lo guardava con fierezza, ma fu Mordred a farlo sentire a suo agio a Camelot. C’era chi malignava di un’ affinità dei bastardi.
Ma Mordred non era un bastardo.
Era il suo primogenito.
Il primo figlio che Morgana gli aveva dato l’onore di dargli.
Artù fece vagare lo sguardo. Senza accorgersene si ritrovò a issare il piccolo seggio dove la regina soleva stare ad ascoltare i cavalieri della tavola rotonda. Artù la conobbe che era solo una bambina. L’aveva presa dalla casa del padre e condotta a palazzo per poi abbandonarla in compagnia di Mordred e dell’ormai vecchia corte di Camelot, per poi tornare sui campi di battaglia, sereno di aver lasciato al sicuro i due giovani che si sarebbero tenuti compagnia, riuscendo così a sviare la richiesta di Mordred di divenire cavaliere e seguirlo in guerra. Artù aveva sempre pensato che quella soluzione, fosse stata una delle sue trovate migliori: come poteva, Mordred, esimersi dal proteggere la futura regina di Camelot?
Ora però, Artù non si sarebbe mai perdonato per questo.
Cos’era successo a Camelot in quell’anno? Che quei due giovani si fossero già innamorati allora?
Quand’era tornato a Camelot, vittorioso e fiero, si era sposato immediatamente per evitare grane col vecchio amico Leodegrance desideroso di vedere sua figlia regina. Non aveva nascosto, però, di essere più interessato alla nascita di un altro dei loro figli: Morgana, per quanto rimanesse giovane, era troppo matura per diventare madre e, Artù l’aveva visto, quella gravidanza l’aveva affaticata molto. Quel giorno Artù era stato così preso da se stesso da non accorgersi che lo sguardo cupo del figlio, nascosto nella sua solita nicchia, non era dato dalla situazione materna (Mordred conosceva troppo bene sua madre per temere per la sua salute), ma dalla vista di Ginevra che andava in sposa a un altro uomo.
Un uomo che non l’amava e non l’avrebbe mai amata come meritava.
A suo padre, che poteva amare solo sua madre.
E Mordred l’aveva perdonato.
Aveva provato a fargli cambiare idea, parlandogli per il bene di Ginevra, spaventata per il destino che incombeva sulla sua giovane testa, ma la noncuranza di Artù nei confronti della futura regina di Camelot.
E Mordred lo aveva perdonato.
L’aveva perdonato perché quello era il suo dovere di re.
L’aveva perdonato perché quello era il suo dovere di figlio.
L’aveva perdonato perché quello era il suo dovere di suddito e cavaliere.
E Artù non si sarebbe mai perdonato per questo.
Perché questo era il suo diritto di padre.
Gli anni poi erano passati e la sua cecità di uomo egoista gli aveva impedito di vedere.
Di vedere il motivo della sofferenza di Ginevra, cara al suo cuore come una figlia, che – solo ora capiva – aspettava sempre il ritorno di Mordred a Camelot, pur di poterlo vedere e scambiare con lui qualche parola di convenienza. Ginevra aveva nascosto tutto in una velata malinconia che la rendeva agli occhi dei più incredibilmente languida. Era capitato, all’inizio del loro matrimonio, che Artù la scoprisse piangere in segreto; scioccamente aveva pensato fosse per l’incombenza dei suoi doveri di regina, troppo grandi per lei, ma non era così. Ora lo sapeva: Ginevra era nata per essere regina.
Solo, non la sua.
Poi il tempo passava e aveva temuto che quella velata tristezza dei suoi occhi l’avrebbe uccisa. L’arrivo di Lancillotto fu un bel cambiamento: aveva fatto ridere la regina e, probabilmente, la mondanità del cavaliere, l’aveva aiutata a distrarsi dai suoi segreti. Poi erano giunte le dicerie che si espansero a macchia d’olio per tutto il regno.
E alla fine era tornato Mordred.
Artù ricordava ancora nitidamente la notte in ciò suo figlio era giunto al castello e la loro conversazione. Senza troppi giri di parole, come solo Morgana avrebbe fatto oltre a lui, Mordred gli aveva chiesto ed era ero che la regina si era legata al suo campione. Artù gli aveva assicurato che Ginevra era fedele ai suoi voti e Mordred, allora, aveva cominciato a piangere in silenzio, quasi colpevole. Artù non lo vedeva piangere da quando era nato, ma invece di essere pervaso dalla gioia, Artù si era sentito colmo di tristezza. Forse nel fondo del suo cuore aveva già intuito il sentimento di Mordred per la regina, o forse, come credeva in quel momento, mente lo consolava, era sinceramene convinto che il suo comportamento fosse dovuto al suo timore di figlio e cavaliere per l’onore del re suo padre.
Poco importava: era ora che la verità gli si era mostrata davanti agli occhi in tutta la sua crudeltà.
E Artù non si sarebbe mai perdonata per questo.
Qualche tempo dopo era arrivato il matrimonio di Mordred con Gwenhwyvach e il loro primogenito. E con questi le lacrime di Ginevra. La regina non era ancora riuscita a dare alla luce un erede per Camelot e sua sorella invece, in meno di un anno di matrimonio, aveva dato a Mordred un maschio. Uno splendido maschio sano e forte. Una volta, guardando il nipote nella culla, Ginevra aveva sospirato, sussurrando al bambino ancora in fasce quanto avrebbe voluto essere sua madre. Artù, che per caso aveva assistito alla scena, si era mostrato a lei e l’aveva abbracciata, consolandola. Aveva scioccamente pensato che la sua tristezza fosse data dal fatto che non fosse ancora divenuta madre, ma solo ora Artù capiva il vero significato di quelle parole.
Ginevra l’aveva mia perdonato per tanto egocentrismo?
Poi ci fu lo scandaloso amore tra Lancillotto ed Elena di Corbenic. Lancillotto aveva ostentato la sua innocenza accusando la donna di averlo incantato e partendo per un pellegrinaggio per redimersi dai peccati commessi. Come risposta, Elena di Corbenic, umiliata dall’uomo amato e dalla corte, scappò trovando rifugio in un convento. Mordred, fedele alla cultura materna più che alle usanze di Camelot, nel vederlo partire aveva ironizzato sulla purezza d’animo di Lancillotto. Ginevra da parte sua, per quanto malignasse la corte, soffrì molto la partenza di Elena; la donna era stata una cara amica e, forse?, una confidente per la solitudine della regina. Perché, ora Artù comprendeva, il suo rancore di donna andava contro Gwenhwyvach, e nessun’altra dama. Un rancore dettato dall’invidia della posizione della sorella al fianco di Mordred. Un rancore di cui Ginevra si vergognava, ma che non riusciva a non provare. E delle lacrime, cariche di sensi di colpa, che Ginevra aveva versato sulla salma della sorella. L’astio che Ginevra aveva provato per la sorella non era per il tradimento di Gwenhwyvach nei confronti della casata di Camelot come molti credevano, ma per pura e semplice rivalità nel cuore di Mordred.
E Ginevra non si sarebbe mai perdonata di aver provato tutto quell’odio.
Poi era arrivato Gwydre. Durante tutta la gravidanza, Artù aveva passato ogni sera a giocare con Melehan e Gwydre mentre Mordred e Ginevra parlavano del futuro bambino.
Artù si chiese se non stessero immaginando che quel figlio non fosse loro.
E se lo fosse stato davvero?
Bhe, non sarebbe mai stato importante: né allora, né in quel momento.
Due primavere dopo fu la volta della nascita di Llacheu, la gioia degli occhi del regno. Mordred era via da un anno, ma una volta saputo della nascita di un altro principe di Camelot, aveva mandato doni incredibili per festeggiare il fratello appena nato e la regina. Alcuni cortigiani malignarono sulle intenzioni di Mordred, lasciando a intendere che quella era una scusa per ostentare poteri e ricchezze, ricordando al re e a tutto il regno che non si sarebbe fatto mettere da parte.
Ma Mordred era davvero felice per il re e la regina.
Per quanto amasse Ginevra.
Per quanto soffrisse per lei.
E poi, Artù lo capiva solo ora, quei regali non erano stati fatti solo per festeggiare la venuta al mondo di Llacheu, ma piuttosto era l’unica occasione in cui poteva fare un dono alla Regina di Camelot senza arrecargli disonore.
Per non arrecare disonore al re suo padre.
E Artù non si sarebbe mai perdonato per questo.
E Gwydre morì. Stupidamente e tragicamente come solo un bamino poteva. Ginevra non si era mossa dal letto neanche per assistere ai funerali. Mordred, dal canto suo, era rientrato a Camelot appena saputo della sciagura ed era stato al suo fianco per tutto il servizio funebre, piangendo lacrime che nessuno sospettava che avesse.
Quella fu l’unica occasione in cui nessun cortigiano malignò su Mordred.
Nei mesi successivi, Mordred, Llacheu, Melehan e Melou (http://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Melehan_e_Melou&action=edit&redlink=1) andavano ogni giorno nelle stanze di Ginevra, giovando sulla salute della regina. Artù era stato grato a Mordred per queste attenzioni, ma solo ora sapeva che non erano dettate solamente dal dovere.
E Artù non si sarebbe mai perdonato per questo.
Il tempo poi era passato, Morgana e i loro figli si mostravano al mondo mostrando la loro solita, grandiosa, bellezza.
Melehan era stato nominato cavaliere, con grande orgoglio di Morgana, giunta a Camelot per l’occasione, di Mordred, Ginevra e Artù stesso. Artù ancora ricordava quell’incontro tra Ginevra e Morgana. Le aveva viste parlare, senza poterle sentire. Ginevra manteneva lo sguardo basso, colpevole, e Morgana la guardava amorevole come una madre, nonostante l’aspetto delle due facesse supporre che fosse Ginevra la più anziana. Poi Morgana abbracciò l’altra donna, che cominciò a piangere.
Che Morgana sapesse? Ma se sapeva come poteva non avergliene parlato?
No, Artù non voleva pensarci, altrimenti non gli avrebbe mai saputo come perdonare Morgana.
Artù sospirò, tornando a guardare il seggio di Galahad. Il cavaliere era giunto pochi mesi dopo, e dopo altrettanto tempo era stato nominato cavaliere con grande orgoglio di Lancillotto. A guardare il giovane cavaliere, Artù non poteva che ricordare lo sguardo lievemente spaesato di Mordred al suo ritorno a Camelot, quando ancora non aveva che quattordici anni. Forse era per quello che Mordred gli era stato vicino, aiutandolo a imparare tutte le regole che un degno cavaliere di Camelot doveva conoscere.
Regole che Mordred conosceva da sempre.
Regole che Mordred aveva sempre rispettato.
Regole che lo avevano fatto soffrire…
Partire per la cerca era stato poi inevitabile. Erano partiti tutti, Artù compreso; erano passati troppi anni lontani dalla guerra e nel tedio di una corte ormai logora e piena di corruzione. Una corruzione che esisteva da sempre che Artù non era riuscito a estirpare.
Aveva ragione Morgana, ma per questo non l’avrebbe mai perdonata.
Per questo non si sarebbe mai perdonato.
Come non le avrebbe mai perdonato la fine di ogni rapporto con Camelot, facendolo sprofondare nella disperazione, come non si era perdonato l’aver scientemente usato la scusa della Cerca per correre ad Avalon cullarsi tra le braccia ancora giovani e fresche dell’amata.
Incurante di tutto, se non di loro due.
Lasciando che il suo regno andasse in pezzi.
Lasciando che tutto andasse in pezzi.
No, Artù non se lo sarebbe perdonato.
Quand’era tornato con riluttanza a Camelot, l’aveva vista cambiata e identica allo stesso tempo. Mordred era tornato da mesi a corte e si era preoccupato di risolvere i problemi creati dall’assenza ingiustificata del re. Pian piano erano tornati anche gli altri cavalieri.
Lancillotto, così fervente nel voler servire la sua regina.
Agravaine così annoiato dal continuo pellegrinare per qualcosa che, in fondo, aveva sempre reputato sciocco.
Ser Costantino, che Artù sospettava fosse solo tornato nelle sue terre per amministrarle come lui stesso desiderava.
Ser Gereth e Ser Gawain, così uniti da quel viaggio, come solo due fratelli possono essere.
Ser Dinadan, ferito ma pieno di vita…
Tutti i cavalieri rimasti in vita in quei lunghi e difficili mesi erano tornati, con storie diverse, con ferite diverse, con animi diversi…
E alla fine era tornato Ser Bors con la vera conclusione della cerca, conclusa col sacrificio di Parcifal e Galahad.
E nessuno si sarebbe mia perdonato le loro perdite.
Poi era tornata la guerra. E Artù era partito con i cavalieri in perfetta salute e le truppe di fanti pronti a immolarsi per Camelot. Lui e Mordred erano riusciti a convincere Melehan a non partire subito come cavaliere, ma rimanere ad aiutare Ser Kay ad addestrare le nuove truppe.
A Mordred le chiavi del regno. Suo figlio, gliel’aveva dimostrato nei mesi della sua assenza per la Cerca, era la nuova linfa che serviva a Camelot. E Artù non l’avrebbe mai allontanato da lì.
Forse aveva sbagliato. Ma quella era la sua volontà di re e di padre. Era la cosa giusta da fare.
E non si sarebbe mai vergognato per questo.
Al fronte poi, era stato colpito gravemente a un fianco. Aveva passato le notti a invocare il nome di Morgana, pur sapendo che non sarebbe arrivata. Al suo posto, però, era giunta un’altra capigliatura scura e riccioluta: Melehan era giunto in prima linea per sapere del nonno e lì s’era preso cura di lui.
E gli sarebbe sempre stato grato della sua presenza, pur non perdonandogli di essere arrivato al fronte contro la sua volontà.