Taliesin
15-09-2011, 09.53.58
Buongiorno Giovani Viandanti,
sappiamo bene che la Storia, rispettabilissima maestra di vita, spesso tralascia i sentieri impervi e ombrosi per adagiarsi in comode lettighe scritte da coloro che ne escono vincitori. Un giorno, tanti anni fa, passeggiando nella rinascimentale città di Lorenzo detto il Magnifico, ho avuta la fortuna di imbattermi in un signore piccolo, chino sulle spalle, che, conoscendo la mia sete di conoscenza sull'argomento "arturiano", mi condusse nella sua vetusta libreria in via ghibellina e mi donò un testo di rimatori del duecento. Quì conobbi Gatto Lupesco ed oggi, giovani viandanti, foglio farvene un piccolo dono....
Buon Viaggio....
Anonimo del Duecento, presumibilmente toscano. Se fu un laico lo immaginiamo come un giullare itinerante, sempre in giro a cantare o declamare le proprie storie inverosimili nelle fiere o durante le feste popolari; se fu un religioso (ma ci sembra improbabile) non possiamo immaginarlo che come un frate Cipolla, narratore di sonore balle a maggior gloria di Dio e delle proprie tasche. Ci piace pensare che nel comporre questo sgangherato poemetto si sia fatto le stesse sane sghignazzate che ci siamo fatti noi nel leggerlo.
Diversamente dai sonetti di Folgore da San Gimignano, per questo poemetto abbiamo tralasciato qualsiasi nota esplicativa perché la sua forza poetica sta anche nella difficile comprensibilità di tante sue parole. Immaginiamo le espressioni di meraviglia di quei poveracci che ascoltando la recita di questo viaggio sentivano parlare di animali come il tinasso, la baldivana, il gatto padule o la gran bestia baradinera! Spesso le parole si rincorrono per il semplice piacere di produrre immagini e di renderle più efficaci con la dissonante musicalità dei distici. In fondo è la tecnica che ritroviamo anche nelle filastrocche infantili e in molti di quei testi poetici che, in tempi più vicini a noi, sono stati scritti per i bambini.
Nella sua ruvida musicalità questo Detto del gatto lupesco appare, a noi lettori moderni, una parodia delle narrazioni di viaggio e di pellegrinaggio, un percorso iniziatico strampalato in cui l'eroe (esso stesso un essere fantastico ibridamente zoomorfo) si trova ad affrontare antagonisti improbabili e minacciosi, dai quali alla fine, non si sa come, si salva tornandosene a casa felice e contento. Un testo umoristico, che diviene satirico nel momento in cui disvela le menzogne, le iperboli, le fantasticherie delle vere narrazioni di viaggi ed invita, indirettamente, a riderci sopra. [PP]
*****
Sì com'altr'uomini vanno,
ki per prode e chi per danno,
per lo mondo tuttavia,
così m'andava l'altra dia
per un cammino trastullando
e d'un mio amor gia pensando
e andava a capo chino.
Allora uscìo fuor del cammino
ed intrai in uno sentieri
ed incontrai duo cavalieri
de la corte de lo re Artù,
ke mi dissero: "Ki sse' tu?"
E io rispuosi in salutare:
"Quello k'io sono, ben mi si pare.
Io sono uno gatto lupesco,
ke a catuno vo dando un esco,
ki non mi dice veritate.
Però saper voglio ove andate,
e voglio sapere onde sete
e di qual parte venite".
Quelli mi dissero: "Or intendete,
e vi diremo ciò che volete,
ove gimo e donde siamo;
e vi diremo onde vegnamo.
Cavalieri siamo di Bretagna,
ke vegnamo de la montagna
ke ll'omo apella Mongibello.
Assai vi semo stati ad ostello
per apparare ed invenire
la veritade di nostro sire
lo re Artù, k'avemo perduto
e non sapemo ke ssia venuto.
Or ne torniamo in nostra terra,
ne lo reame d'Inghilterra.
A Dio siate voi, ser gatto,
voi con tutto 'l vostro fatto".
E io rispuosi allora insuno:
"A Dio vi comando ciascheduno".
Così da me si dipartiro
li cavalieri quando ne giro.
E io andai pur oltre addesso
per lo sentiero ond'iera messo,
e tutto 'l giorno non finai
infin a la sera, k'io albergai
con un romito nel gran diserto,
lungi ben trenta miglia certo;
ed al mattino mi ne partìo,
sì acomandai lo romito a Dio.
Ed anzi k'io mi ne partisse,
lo romito sì mi disse
verso qual parte io andasse:
veritade non li celasse.
E io li dissi: "Ben mi piace;
non te ne sarò fallace
k'io non ti dica tutto 'l dritto.
Io me ne vo in terra d'Egitto,
e voi' cercare Saracinia
e tutta terra pagania,
e Arabici e 'Braici e Tedeschi
[............................]
e l soldano e 'l Saladino
e 'l Veglio e tutto suo dimino
e terra Vinenzium e Belleem
e Montuliveto e Gersalem
e l'amiraglio e 'l Massamuto,
e l'uomo per kui Cristo è atenduto
dall'ora in qua ke fue pigliato
e ne la croce inchiavellato
da li Giudei ke 'l giano frustando,
com' a ladrone battendo e dando.
Allor quell'uomo li puose mente
e sì li disse pietosamente:
"Va' tosto, ke non ti dean sì spesso";
e Cristo si rivolse adesso,
sì li disse: "Io anderòe,
e tu m'aspetta, k'io torneròe";
e poi fue messo in su la croce
a grido di popolo ed a boce.
Allora tremò tutta la terra:
così cci guardi Dio di guerra".
A questa mi dipartìo andando
e da lo romito acomiatando,
a cui dicea lo mio viaggio.
Ed uscìo fuor dello rumitaggio
per un sportello k'avea la porta,
pensando trovare la via scorta
ond'io andasse sicuramente.
Allor guardai e puosi mente
e non vidi via neuna.
L'aria era molto scura,
e 'l tempo nero e tenebroso;
e io com'uomo pauroso
ritornai ver' lo romito,
da cui m'iera già partito,
e d'una boce l'appellai,
sì li diss'io: "Per Dio se ttu sai
lo cammino, or lo m'insegna,
k'io non soe dond'io mi tegna".
Quelli allora mi guardòe,
co la mano mi mostròe
una croce nel diserto,
lungi ben diece miglia certo,
e disse: "Colà è lo cammino
onde va catuno pelegrino
ke vada o vegna d'oltremare".
A questa mi mossi ad andare
verso la croce bellamente,
e quasi non vedea neente
per lo tempo k'iera oscuro,
e 'l diserto aspro e duro.
E l'andare k'io facea
verso la croce tuttavia
sì vidi bestie ragunate,
ke tutte stavano aparechiate
per pigliare ke divorassero,
se alcuna pastura trovassero.
Ed io ristetti per vedere,
per conoscere e per sapere
ke bestie fosser tutte queste
ke mi pareano molte alpestre;
sì vi vidi un grande leofante
ed un verre molto grande
ed un orso molto superbio
ed un leone ed un gran cerbio;
e vidivi quattro leopardi
e due dragoni cun rei sguardi;
e sì vi vidi lo tigro e 'l tasso
e una lonza e un tinasso;
e sì vi vidi una bestia strana,
ch'uomo appella baldivana;
e sì vi vidi la pantera
e la giraffa e la paupera
e 'l gatto padule e la lea
e la gran bestia baradinera;
ed altre bestie vi vidi assai,
le quali ora non vi dirai,
ké nonn è tempo né stagione.
Ma ssì vi dico, per san Simone,
ke mi partii per maestria
da le bestie ed anda' via,
e cercai tutti li paesi
ke voi da me avete intesi,
e tornai a lo mi' ostello.
Però finisco ke ffa bello.
(Da Classici Ricciardi, Poeti del duecento,
poesia didattica dell’Italia Centrale,
a cura di Gianfranco Contini, Einaudi, Torino 1979)
sappiamo bene che la Storia, rispettabilissima maestra di vita, spesso tralascia i sentieri impervi e ombrosi per adagiarsi in comode lettighe scritte da coloro che ne escono vincitori. Un giorno, tanti anni fa, passeggiando nella rinascimentale città di Lorenzo detto il Magnifico, ho avuta la fortuna di imbattermi in un signore piccolo, chino sulle spalle, che, conoscendo la mia sete di conoscenza sull'argomento "arturiano", mi condusse nella sua vetusta libreria in via ghibellina e mi donò un testo di rimatori del duecento. Quì conobbi Gatto Lupesco ed oggi, giovani viandanti, foglio farvene un piccolo dono....
Buon Viaggio....
Anonimo del Duecento, presumibilmente toscano. Se fu un laico lo immaginiamo come un giullare itinerante, sempre in giro a cantare o declamare le proprie storie inverosimili nelle fiere o durante le feste popolari; se fu un religioso (ma ci sembra improbabile) non possiamo immaginarlo che come un frate Cipolla, narratore di sonore balle a maggior gloria di Dio e delle proprie tasche. Ci piace pensare che nel comporre questo sgangherato poemetto si sia fatto le stesse sane sghignazzate che ci siamo fatti noi nel leggerlo.
Diversamente dai sonetti di Folgore da San Gimignano, per questo poemetto abbiamo tralasciato qualsiasi nota esplicativa perché la sua forza poetica sta anche nella difficile comprensibilità di tante sue parole. Immaginiamo le espressioni di meraviglia di quei poveracci che ascoltando la recita di questo viaggio sentivano parlare di animali come il tinasso, la baldivana, il gatto padule o la gran bestia baradinera! Spesso le parole si rincorrono per il semplice piacere di produrre immagini e di renderle più efficaci con la dissonante musicalità dei distici. In fondo è la tecnica che ritroviamo anche nelle filastrocche infantili e in molti di quei testi poetici che, in tempi più vicini a noi, sono stati scritti per i bambini.
Nella sua ruvida musicalità questo Detto del gatto lupesco appare, a noi lettori moderni, una parodia delle narrazioni di viaggio e di pellegrinaggio, un percorso iniziatico strampalato in cui l'eroe (esso stesso un essere fantastico ibridamente zoomorfo) si trova ad affrontare antagonisti improbabili e minacciosi, dai quali alla fine, non si sa come, si salva tornandosene a casa felice e contento. Un testo umoristico, che diviene satirico nel momento in cui disvela le menzogne, le iperboli, le fantasticherie delle vere narrazioni di viaggi ed invita, indirettamente, a riderci sopra. [PP]
*****
Sì com'altr'uomini vanno,
ki per prode e chi per danno,
per lo mondo tuttavia,
così m'andava l'altra dia
per un cammino trastullando
e d'un mio amor gia pensando
e andava a capo chino.
Allora uscìo fuor del cammino
ed intrai in uno sentieri
ed incontrai duo cavalieri
de la corte de lo re Artù,
ke mi dissero: "Ki sse' tu?"
E io rispuosi in salutare:
"Quello k'io sono, ben mi si pare.
Io sono uno gatto lupesco,
ke a catuno vo dando un esco,
ki non mi dice veritate.
Però saper voglio ove andate,
e voglio sapere onde sete
e di qual parte venite".
Quelli mi dissero: "Or intendete,
e vi diremo ciò che volete,
ove gimo e donde siamo;
e vi diremo onde vegnamo.
Cavalieri siamo di Bretagna,
ke vegnamo de la montagna
ke ll'omo apella Mongibello.
Assai vi semo stati ad ostello
per apparare ed invenire
la veritade di nostro sire
lo re Artù, k'avemo perduto
e non sapemo ke ssia venuto.
Or ne torniamo in nostra terra,
ne lo reame d'Inghilterra.
A Dio siate voi, ser gatto,
voi con tutto 'l vostro fatto".
E io rispuosi allora insuno:
"A Dio vi comando ciascheduno".
Così da me si dipartiro
li cavalieri quando ne giro.
E io andai pur oltre addesso
per lo sentiero ond'iera messo,
e tutto 'l giorno non finai
infin a la sera, k'io albergai
con un romito nel gran diserto,
lungi ben trenta miglia certo;
ed al mattino mi ne partìo,
sì acomandai lo romito a Dio.
Ed anzi k'io mi ne partisse,
lo romito sì mi disse
verso qual parte io andasse:
veritade non li celasse.
E io li dissi: "Ben mi piace;
non te ne sarò fallace
k'io non ti dica tutto 'l dritto.
Io me ne vo in terra d'Egitto,
e voi' cercare Saracinia
e tutta terra pagania,
e Arabici e 'Braici e Tedeschi
[............................]
e l soldano e 'l Saladino
e 'l Veglio e tutto suo dimino
e terra Vinenzium e Belleem
e Montuliveto e Gersalem
e l'amiraglio e 'l Massamuto,
e l'uomo per kui Cristo è atenduto
dall'ora in qua ke fue pigliato
e ne la croce inchiavellato
da li Giudei ke 'l giano frustando,
com' a ladrone battendo e dando.
Allor quell'uomo li puose mente
e sì li disse pietosamente:
"Va' tosto, ke non ti dean sì spesso";
e Cristo si rivolse adesso,
sì li disse: "Io anderòe,
e tu m'aspetta, k'io torneròe";
e poi fue messo in su la croce
a grido di popolo ed a boce.
Allora tremò tutta la terra:
così cci guardi Dio di guerra".
A questa mi dipartìo andando
e da lo romito acomiatando,
a cui dicea lo mio viaggio.
Ed uscìo fuor dello rumitaggio
per un sportello k'avea la porta,
pensando trovare la via scorta
ond'io andasse sicuramente.
Allor guardai e puosi mente
e non vidi via neuna.
L'aria era molto scura,
e 'l tempo nero e tenebroso;
e io com'uomo pauroso
ritornai ver' lo romito,
da cui m'iera già partito,
e d'una boce l'appellai,
sì li diss'io: "Per Dio se ttu sai
lo cammino, or lo m'insegna,
k'io non soe dond'io mi tegna".
Quelli allora mi guardòe,
co la mano mi mostròe
una croce nel diserto,
lungi ben diece miglia certo,
e disse: "Colà è lo cammino
onde va catuno pelegrino
ke vada o vegna d'oltremare".
A questa mi mossi ad andare
verso la croce bellamente,
e quasi non vedea neente
per lo tempo k'iera oscuro,
e 'l diserto aspro e duro.
E l'andare k'io facea
verso la croce tuttavia
sì vidi bestie ragunate,
ke tutte stavano aparechiate
per pigliare ke divorassero,
se alcuna pastura trovassero.
Ed io ristetti per vedere,
per conoscere e per sapere
ke bestie fosser tutte queste
ke mi pareano molte alpestre;
sì vi vidi un grande leofante
ed un verre molto grande
ed un orso molto superbio
ed un leone ed un gran cerbio;
e vidivi quattro leopardi
e due dragoni cun rei sguardi;
e sì vi vidi lo tigro e 'l tasso
e una lonza e un tinasso;
e sì vi vidi una bestia strana,
ch'uomo appella baldivana;
e sì vi vidi la pantera
e la giraffa e la paupera
e 'l gatto padule e la lea
e la gran bestia baradinera;
ed altre bestie vi vidi assai,
le quali ora non vi dirai,
ké nonn è tempo né stagione.
Ma ssì vi dico, per san Simone,
ke mi partii per maestria
da le bestie ed anda' via,
e cercai tutti li paesi
ke voi da me avete intesi,
e tornai a lo mi' ostello.
Però finisco ke ffa bello.
(Da Classici Ricciardi, Poeti del duecento,
poesia didattica dell’Italia Centrale,
a cura di Gianfranco Contini, Einaudi, Torino 1979)