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Taliesin
09-05-2016, 13.27.11
09 MAGGIO 1336: PETRARCA E L'ALLEGORIA DEL MONTE VENTOSO.
La raccolta di lettere di Francesco Petrarca, detta “Familiari”, comprende 350 lettere, suddivise in 24 libri, composte tra il 1350 e il 1366. Una delle più note è la prima lettera del quarto libro, indirizzata a Dionigi da Borgo San Sepolcro, monaco agostiano e teologo, che aveva regalato al poeta le Confessioni di Sant’Agostino.
In quest’epistola, l’autore ricorda (ricostruendola a posteriori e arricchendola di particolari e dettagli pensati ad arte) un’ascesa al Monte Ventoso(1), compiuta nel 1336 con il fratello Gherardo. La scalata diventa occasione per un esame intimo della propria morale e, al tempo stesso, un modo per tratteggiare una propria autobiografia ideale.
In apertura della lettera, Petrarca confessa all’amico Dionigi di aver intrapreso la scalata del Ventoso sia per soddisfare una curiosità personale sia su suggestione di un precedente letterario, ovvero la salita di Filippo V di Macedonia (238 - 179 a.C.) sul monte Emo in Tessaglia, descritta da Tito Livio nella sua monumentale Ab urbe condita (Xl, XXI, 2).
La scalata diventa in realtà un’allegoria della crisi spirituale del poeta, e quindi il raggiungimento della cima può divenire esplicito simbolo della salvezza eterna. La descrizione geografica si unisce a quella psicologica, per rendere più chiara la comprensione del senso metaforico testo: Petrarca, che si accinge all’ascesa in compagnia del fratello Gherardo, parte nonostante gli avvertimenti di un anziano pastore sulla difficoltà del cammino, assai impervio e difficile. Subito si palesa una chiara differenza tra i due personaggi: se Gherardo sale rapidamente per la via più erta e veloce, Petrarca, per scansare la fatica, preferisce il sentiero più basso, attardandosi nella ricerca del sentiero più comodo e facile.
La lettura simbolica è immediata: Gherardo Petrarca, che prende i voti monacali nel 1343, sale senza difficoltà perché è libero dalla schiavitù dei beni materiali, mentre Francesco si riconosce ancora legato ai peccaminosi piaceri della Terra(2).
L’esame di coscienza del poeta parte proprio dal riconoscimento delle proprie mancanze; quando vede salire agilmente il fratello, Petrarca ammette di essere “mollior” (ovvero, “assai debole e voluttuoso”) e che la via più facile lo affatica inutilmente, senza portargli reali vantaggi. È l’autore stesso a stabilire il parallelismo tra questa condizione concreta e la propria condizione morale; la difficoltà e il tormento interiore nel seguire la retta via verso la salvezza eterna è esplicitata grazie ad una citazione da Ovidio (43 a.C. - 18 d.C.):
“Sic est enim; amo, sed quod non amare amem, quod odisse cupiam; amo tamen, sed invitus, sed coactus, sed mestus et lugens. Et in me ipso versiculi illius famosissimi sententiam miser experior: “Odero, si potero; si non, invitus amabo” (3).
La crisi spirituale viene risolta una volta raggiunta la cima, quando di fronte alla bellezza naturale del paesaggio, Petrarca legge un passo delle Confessioni di Sant’Agostino, ch’egli ha con sé in una copia “tascabile” regalatagli proprio da Dionigi da Borgo San Sepolcro. Qui, con grande sorpresa, Petrarca trova la seguente “massima”:
Et eunt homines admirari alta montium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus flumininum et oceani ambitum et giros siderum, et reliquunt se ipsos (4).
Il brano, che invita gli uomini alla riflessione intima e a dare poco peso alle cose terrene, sembra adattarsi alla situazione in cui si trova Petrarca, che allora può affermare:
[...] librum clausi, iratus mihimet quod nunc etiam terrestria mirarer, qui iampridem ab ipsis gentium philosophis discere debuissem nihil preter animum esse mirabile, cui magno nihil est magnum (5).
La narrazione si conclude con la discesa a valle e la presa di coscienza da parte del poeta dell’importanza del cambiamento interiore e del grande impegno necessario non tanto per scalare il monte quanto per vincere “terrenis impulsibus appetitus”, ovvero i “desideri suscitati dalle passioni terrene”.
L’epistola del monte Ventoso è assai emblematica delle caratteristiche delle Familiares di Petrarca, sia per lo stile - colto, elaborato e ricchissimo di citazioni, com’è tipico delle Familiari - sia per il processo di rielaborazione cui l’autore sottopone i suoi testi. Se Petrarca afferma di aver scritto la lettera nel 1336 “raptim et ex tempore” (“in fretta e di getto”), in realtà è stato chiaramente dimostrato che si tratta di una costruzione letteraria, che mette volutamente insieme elementi interpretabili simbolicamente (la monacazione di Gherardo, le citazioni dai classici, l’ambientazione nel giorno di Venerdì Santo) per dare un’immagine ideale del percorso di maturazione interiore del poeta.
In particolare il filologo e critico letterario Giuseppe Billanovich ha proposto di datare l’epistola al 1352-1353 (successiva anche alla morte del destinatario Dionigi, avvenuta nel 1342), considerandola come una delle molte lettere fittizie con cui Petrarca costruisce la propria raccolta.
Ciò che emerge dalla lettura della “ascesa al monte Ventoso” è la serie di auctoritates classiche e volgari con cui Petrarca intesse il suo cammino fisico e spirituale. Nel testo della lettera si susseguono rimandi intertestuali e citazioni esplicite di Livio, Virgilio (in particolare, le Bucoliche e le Georgiche), Ovidio (gli Amores e le Epistulae ex Ponto), dal Vangelo di Matteo e dai Salmi.
Tuttavia, le due fonti privilegiate sono San Paolo e Sant’Agostino; l’autore, anzi, si pone su una linea di continuità con i due autorevoli precursori con l’episodio della lettura delle Confessiones sulla cima del monte Ventoso. Infatti, anche Agostino confida (Confessioni, VIII, XII, 29) d’aver cambiato vita avendo letto un passo della Lettera ai Romani 6. In tal senso, l’ascesa alla montagna diventa un modo per tratteggiare un biografia ideale di sé come uomo e come intellettuale umanista, dimostrando come l’insegnamento dei classici sia vivo e presente e ricollegandosi al tema della spiritualizzazione delle passioni terrene che attraversa tutto il Canzoniere.
1 Il Mont Ventoux è un rilievo di 1.912 metri sul livello del mare, che si trova nella regione francese della Provenza, a circa una trentina di chilometri da Carpentras.
2 Si tenga poi presenta un altro dato significativo: l’ascesa è collocata al 26 aprile 1336, giorno di Venerdì Santo; si crea così un evidente parallelismo tra l’autore e Gesù Cristo durante la sua salita al Golgota.
3 Traduzione: “Del resto è così: amo ciò che non vorrei amare, anzi proprio ciò che vorrei odiare; l’amo, ma contro voglia, forzato, mesto e in lacrime. Io, misero, provo su me stesso i versi di quel gran poeta: «Desidero odiarti, potendo farlo; oppure, ti amerò a malincuore»”; il passo è tratto dagli Amores di Ovidio (III, II, 35).
4 Traduzione: E gli uomini vanno ad ammirare le alte cime dei monti, gli ingenti flutti del mare, gli estesissimi corsi dei fiumi, la distesa dell’oceano e i moti delle stelle, e trascurano se stessi”; il passo è tratto da Sant’Agostino, Confessioni, X, 8.
5 Traduzione: “[...] chiusi il libro, adirato con me stesso, poiché ancora ammiravo le cose terrestri, proprio io che già in precedenza avrei dovuto imparare dai filosofi pagani stessi che nulla è ammirabile ad eccezione dell’animo, alla cui grandezza non c’è niente di paragonabile”.
6 S. Paolo, Lettera ai Romani, 13, 13-14: “Non vivete nei festeggiamenti e nelle crapule, non nei postriboli impuri, non nelle gare e nelle contese, ma vivete nel Signore Gesù Cristo, né preoccupatevi del corpo per i vostri desideri”.
Taliesin, il Bardo
tratto da: www.oilproject.org (http://www.oilproject.org/)
Taliesin
19-05-2016, 13.11.49
Oggi, 19 Maggio 1536
“Riflettendo sul contenuto delle vostre lettere, mi sono procurato una grande agonia; non sapendo come interpretarle, se a mio svantaggio, come si può vedere in alcune righe, o a mio vantaggio in altre. Vi scongiuro con tutto il mio cuore di Lasciarmi conoscere appieno le vostre intenzioni sul nostro amore; la necessità mi costringe a pietire da voi una risposta, essendo stato colpito da più di un anno dal dardo dell’amore, e non sapendo se ho fallito oppure ho trovato un posto nel vostro cuore e nei vostri affetti, il che mi ha certamente trattenuto per un periodo dal chiamarvi mia amante, dal momento che se voi mi amate solo di un amore comune questo termine non vi si addice, visto che rappresenta una posizione eccezionale; ma se vi piace assolvere al dovere di una vera, leale amante e amica, e darvi (anima e corpo) a me, che sono stato, e sempre sarò, il vostro servitore leale (se il vostro rigore non me lo impedirà), vi prometto che non solo il nome vi sarà dovuto, ma anche che vi prenderò come mia unica amante, allontanando tutte le altre salvo voi stessa dal mio cuore e dalla mia mente, che servirà voi sola; vi prego di dare una risposta completa a questa goffa lettera, di dirmi fino a che punto e in che cosa posso sperare; e se non vi piacesse rispondermi per iscritto, di indicarmi qualche luogo dove io possa avere una risposta a voce, luogo che io cercherò con tutto il mio cuore. Non vado oltre per paura di annoiarvi. Scritto dalla mano di colui che vorrebbe rimanere vostro.”
Lettera di Enrico VIII alla moglie Anna Bolena
Enrico VIII, Re di Inghilterra, scrisse questa missiva alla sua seconda moglie Anna Bolena che poi finì per essere condannata a morte da re stesso. Nel mezzo di un finto parlare forbito, tra svariate e confuse accuse nei confronti della donna ed esosi accrescimenti del cuore ,il monarca stabilì un processo costruito sul nulla per fare sì che potesse concedere le giuste attenzioni a un’altra donna di corte, Jane Seymour, che diventerà poi la sua terza moglie.
Femminicidio…moderno termine bistrattato, abusato, scellerato, appagato per certe benpensanti coscienze.
Taliesin, il Bardo
Taliesin
20-05-2016, 09.40.26
Oggi, 20 Maggio 1444
AD IMMAGINE E SOMIGLIANZA DI FRANCESCO: SAN BERNARDINO DA SIENA.
Per ascoltare le sue prediche, si radunavano folle di fedeli nelle piazze delle città, non potendoli contenere le chiese e, mancando a quel tempo attrezzature e mezzi tecnici di amplificazione della voce, venivano issati i palchi da cui parlava, studiando con banderuole la direzione del vento, per poterli così posizionare in modo favorevole all’ascolto dalle folle attente e silenziose…
Taliesin, il Bardo
Origini e formazione
San Bernardino nacque l’8 settembre 1380 a Massa Marittima (Grosseto) da Albertollo degli Albizzeschi e da Raniera degli Avveduti; il padre nobile senese era governatore della città fortificata posta sulle colline della Maremma.
A sei anni divenne orfano dei genitori, per cui crebbe allevato da parenti, prima dalla zia materna che lo tenne con sé fino agli undici anni, poi a Siena a casa dello zio paterno, ma fino all’età adulta furono soprattutto le donne della famiglia ad educarlo, come la cugina Tobia terziaria francescana e la zia Bartolomea terziaria domenicana.
Ricevette un’ottima educazione cristiana ma senza bigottismo, crebbe sano, con un carattere schietto e deciso, amante della libertà ma altrettanto conscio della propria responsabilità.
Studiò grammatica, retorica e lettura di Dante, dal 1396 al 1399 si applicò allo studio della Giurisprudenza nella Università di Siena, dove conseguì il dottorato in filosofia e diritto; non era propenso alla vita religiosa, tanto che alle letture bibliche preferiva la poesia profana.
Verso i 18 anni, pur seguitando a vivere come i coetanei, entrò nella Confraternita dei Disciplinati di Santa Maria della Scala, una compagnia di giovani flagellanti, che teneva riunioni a mezzanotte nei sotterranei del grande ospedale posto di fronte al celebre Duomo di Siena.
Aveva 20 anni quando Siena nel 1400 fu colpita dalla peste; e anche molti medici e infermieri dell’Ospedale di Santa Maria della Scala, morirono contagiati, per cui il priore chiese pubblicamente aiuto.
Bernardino insieme ai compagni della Confraternita si offrì volontario, la sua opera nell’assistenza agli appestati durò per quattro mesi, fino all’inizio dell’inverno, quando la pestilenza cominciò a scemare.
Trascorsero poi altri quattro mesi, tra la vita e la morte, essendosi anch’egli contagiato; guarito assisté poi per un anno la zia Bartolomea diventata cieca e sorda.
La scelta Francescana
In quel periodo cominciò a pensare seriamente di scegliere per la sua vita un Ordine religioso, colpito anche dall’ispirata parola di s. Vincenzo Ferrer, domenicano, incontrato ad Alessandria.
Alla fine scelse di entrare nell’Ordine Francescano e liberatosi di quanto possedeva, l’8 settembre 1402 entrò come novizio nel Convento di San Francesco a Siena; per completare il noviziato, fu mandato sulle pendici meridionali del Monte Amiata, al convento sopra Seggiano, un villaggio di poche capanne intorno ad una chiesetta, detto il Colombaio.
Il convento apparteneva alla Regola dell’Osservanza, sorta in seno al francescanesimo 33 anni prima, osservando appunto assoluta povertà e austerità, prescritte dal fondatore san Francesco; e con la loro moderazione, che li distingueva dagli Spirituali più combattivi nei decenni precedenti, gli Osservanti si opponevano al rilassamento dei Conventuali, con discrezione e senza eccessi.
Frate Bernardino visse al Colombaio per tre anni, facendo la professione religiosa nel 1403 e diventando sacerdote nel 1404, celebrò la prima Messa e tenne la prima predica nella vicina Seggiano e come gli altri frati del piccolo convento, prese a girare scalzo per la questua nei dintorni. Nel 1405 fu nominato predicatore dal Vicario dell’Ordine e tornò a Siena.
La sua formazione, studi, prime predicazioni
Dopo un po’, da Siena andò con qualche compagno nel piccolo romitorio di Sant’Onofrio sul colle della Capriola di fronte alla città; da tempo questo conventino era abitato da frati dell’Osservanza, qui fra’ Bernardino volle costruire un nuovo convento più grande, esso apparteneva all’Ospedale della Scala ed egli riuscì ad ottenerlo in dono, ma giacché i Frati Minori non potevano accettare donazioni, si impegnò a versare in cambio una libbra di cera all’anno.
Aveva circa 25 anni e restò alla Capriola per 12 anni, dedicandosi allo studio dei grandi dottori e teologi specie francescani; raccogliendo e studiando materiale ascetico, mistico e teologico.
In quel periodo, fu a contatto col mondo contadino ed artigiano delle cittadine dei dintorni, imparando a predicare per farsi comprendere da loro, con espressioni, immagini vivaci e aneddoti che colpissero l’attenzione di quella gente semplice, a cui affibbiava soprannomi nelle loro attività e stile popolano di vivere, per farli divertire; così la massaia disordinata era “madama Arrufola” e la giovane che ‘balestrava’ con occhiate languide i giovani dalla sua finestra, era “monna Finestraiola”.
Per una malattia alle corde vocali che per qualche anno lo colpì, rendendo la sua voce molto fioca, Bernardino da Siena, stava per chiedere di essere esonerato dalla predicazione. Ma inaspettatamente un giorno la voce ritornò non soltanto limpida, ma anche musicale e penetrante, ricca di modulazioni.
Sul colle della Capriola tornava spesso dopo i suoi lunghi viaggi di predicatore, per ritrovare li spirito di meditazione e per scrivere i “Sermoni latini”; formò molti discepoli fra i quali san Giacomo della Marca, san Giovanni da Capestrano, i beati Matteo da Agrigento, Michele Cercano, Bernardino da Feltre e Bernardino da l’Aquila.
Il grande predicatore popolare
Nel 1417 padre Bernardino da Siena fu nominato Vicario della provincia di Toscana e si trasferì a Fiesole, dando un forte impulso alla riforma in atto nell’Ordine Francescano.
Contemporaneamente iniziò la sua straordinaria predicazione per le città italiane, dove si verificava un grande afflusso di fedeli che faceva riempire le piazze; tutta la cittadinanza partecipava con le autorità in testa, e i fedeli affluivano anche dai paesi vicini per ascoltarlo.
Dal 1417 iniziò a Genova la sua prodigiosa predicazione apostolica, allargandola dopo i primi strepitosi successi, a tutta l’Italia del Nord e del Centro.
A Milano espose per la prima volta alla venerazione dei fedeli, la tavoletta con il trigramma; da Venezia a Belluno, a Ferrara, girando sempre a piedi, e per tutta la sua Toscana, dove ritornava spesso, predicò incessantemente; nel 1427 tenne nella sua Siena un ciclo di sermoni che ci sono pervenuti grazie alla fedele trascrizione di un ascoltatore, che li annotava a modo suo con velocità, senza perdere nemmeno una parola.
Da queste trascrizioni, si conosce il motivo dello straordinario successo che otteneva Bernardino; sceglieva argomenti che potevano interessare i fedeli di una città ed evitava le formulazioni astruse o troppo elaborate, tipiche dei predicatori scolastici dell’epoca. Per lui il “dire chiaro e breve” non andava disgiunto dal “dire bello”, e per farsi comprendere usava racconti, parabole, aneddoti; canzonando superstizioni, mode, vizi.
Sapeva comprendere le debolezze umane, ma era intransigente con gli usurai, considerati da lui le creature più abbiette della terra. Le conversioni spesso clamorose, le riconciliazioni ai Sacramenti di peccatori incalliti, erano così numerosi, che spesso i sacerdoti erano insufficienti per le confessioni e per distribuire l’Eucaristia.
Quando le leggi che reggevano un Comune, una Signoria, una Repubblica, erano ingiuste e osservarle significava continuare l’ingiustizia, Bernardino da Siena, in questi casi dichiarava sciolti dal giuramento i pubblici ufficiali e invitava la città a darsi nuove leggi ispirate al vangelo; e le città facevano a gara per ascoltarlo e ne accettavano le direttive.
Il trigramma del Nome di Gesù
Affinché la sua predicazione non fosse dimenticata facilmente, Bernardino con profondo intuito psicologico, la riassumeva nella devozione al Nome di Gesù e per questo inventò un simbolo dai colori vivaci che veniva posto in tutti i locali pubblici e privati, sostituendo blasoni e stemmi delle famiglie e delle varie corporazioni spesso in lotta tra loro.
Il trigramma del nome di Gesù, divenne un emblema celebre e diffuso in ogni luogo, sulla facciata del Palazzo Pubblico di Siena campeggia enorme e solenne, opera dell’orafo senese Tuccio di Sano e di suo figlio Pietro, ma lo si ritrova in ogni posto dove Bernardino e i suoi discepoli abbiano predicato o soggiornato.
Qualche volta il trigramma figurava sugli stendardi che precedevano Bernardino, quando arrivava in una nuova città per predicare e sulle tavolette di legno che il santo francescano poggiava sull’altare, dove celebrava la Messa prima dell’attesa omelia, e con la tavoletta al termine benediceva i fedeli.
Il trigramma fu disegnato da Bernardino stesso, per questo è considerato patrono dei pubblicitari; il simbolo consiste in un sole raggiante in campo azzurro, sopra vi sono le lettere IHS che sono le prime tre del nome Gesù in greco (ma si sono date anche altre spiegazioni, come l’abbreviazione di “In Hoc Signo (vinces)”, il motto costantiniano, oppure di “Iesus Hominum Salvator”.
Ad ogni elemento del simbolo, Bernardino applicò un significato; il sole centrale è chiara allusione a Cristo che dà la vita come fa il sole, e suggerisce l’idea dell’irradiarsi della Carità.
Il calore del sole è diffuso dai raggi, ed ecco allora i dodici raggi serpeggianti cioè i dodici Apostoli e poi da otto raggi diretti che rappresentano le beatitudini; la fascia che circonda il sole rappresenta la felicità dei beati che non ha termine, il celeste dello sfondo è simbolo della fede; l’oro dell’amore.
Bernardino allungò anche l’asta sinistra dell’H, tagliandola in alto per farne una croce, in alcuni casi la croce è poggiata sulla linea mediana dell’H.
Il significato mistico dei raggi serpeggianti era espresso in una litania: 1° rifugio dei penitenti; 2° vessillo dei combattenti; 3° rimedio degli infermi; 4° conforto dei sofferenti; 5° onore dei credenti; 6° gioia dei predicanti; 7° merito degli operanti; 8° aiuto dei deficienti; 9° sospiro dei meditanti; 10° suffragio degli oranti; 11° gusto dei contemplanti; 12° gloria dei trionfanti.
Tutto il simbolo è circondato da una cerchia esterna con le parole in latino tratte dalla Lettera ai Filippesi di San Paolo: “Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, sia degli esseri celesti, che dei terrestri e degli inferi”.
Il trigramma bernardiniano ebbe un gran successo, diffondendosi in tutta Europa, anche s. Giovanna d’Arco volle ricamarlo sul suo stendardo e più tardi fu adottato anche dai Gesuiti.
Diceva s. Bernardino: “Questa è mia intenzione, di rinnovare e chiarificare il nome di Gesù, come fu nella primitiva Chiesa”, spiegando che, mentre la croce evocava la Passione di Cristo, il suo nome rammentava ogni aspetto della sua vita, la povertà del presepio, la modesta bottega di falegname, la penitenza nel deserto, i miracoli della carità divina, la sofferenza sul Calvario, il trionfo della Resurrezione e dell’Ascensione.
In effetti ribadiva la devozione già presente in san Paolo e durante il Medioevo in alcuni Dottori della Chiesa e in s. Francesco d’Assisi, inoltre tale devozione era praticata in tutto il Senese, pochi decenni prima dai Gesuati, congregazione religiosa fondata nel 1360 dal senese beato Giovanni Colombini, dedita all’assistenza degli infermi e così detti per il loro ripetere frequente del nome di Gesù.
Quindi la novità di s. Bernardino fu di offrire come oggetto di devozione le iniziali del nome di Gesù, attorniato da efficaci simbolismi, secondo il gusto dell’epoca, amante di stemmi, armi, simboli.
L’uso del trigramma, comunque gli procurò accuse di eresie e idolatria, specie dagli Agostiniani e Domenicani, e Bernardino da Siena subì ben tre processi, nel 1426, 1431, e 1438, dove il francescano poté dimostrare la sua limpida ortodossia, venendo ogni volta assolto con il favore speciale di papa Eugenio IV, che lo definì “il più illustre predicatore e il più irreprensibile maestro, fra tutti quelli che al presente evangelizzano i popoli in Italia e fuori”.
Riformatore dell’Ordine Francescano
Bernardino, che fin dal 1421 era Vicario dei Frati Osservanti di Toscana e Umbria, nel 1438 venne nominato dal Ministro Generale dell’Ordine Francescano, Vicario Generale di tutti i conventi dell’Osservanza in Italia.
Nella sua opera di riforma, portò il numero dei conventi da 20 a 200; proibì ai frati analfabeti o poco istruiti, di confessare e assolvere i penitenti; istituì nel convento di Monteripido presso Perugia, corsi di teologia scolastica e di diritto canonico; s’impegnò a fare rinascere lo spirito della Regola di s. Francesco, adattandola alle esigenze dei nuovi tempi.
Rifiutò per tre volte di essere vescovo di diocesi, che gli furono offerte.
Gli ultimi anni, la morte
Nel 1442, sentendosi oltremodo stanco, soffriva di renella, infiammazione ai reni, emorroidi e dissenteria, rassegnò le sue dimissioni dalla carica, che aveva accettato per spirito di servizio verso l’Ordine.
Nel fisico sembrava più vecchio dei suoi 62 anni, aveva perso tutti i denti, tranne uno e quindi le gote gli si erano incavate, ma quell’aspetto emaciato l’aveva già a 46 anni, quando posò per un quadro dal vivo, oggi conservato alla Pinacoteca di Siena.
Libero da responsabilità riprese a predicare, nonostante il cattivo stato di salute; i senesi gli chiesero di recarsi a Milano per rinsaldare l’alleanza con il duca Filippo Maria Visconti contro i fiorentini; da lì proseguì poi per il Veneto, predicando a Vicenza, Verona, Padova, Venezia, scendendo poi a Bologna e Firenze, nella natia Massa Marittima predicò nel 1444 per 40 giorni.
Ritornato a Siena si trattenne per poco tempo, perché voleva ancora compiere una missione di predicazione nel Regno di Napoli, dove non si era mai recato, con l’intenzione di predicare anche lungo il percorso; accompagnato da alcuni frati senesi, toccò il Trasimeno, Perugia, Assisi, Foligno, Spoleto, Rieti, ma già in prossimità de L’Aquila, il suo fisico cedette allo sforzo e il 20 maggio 1444 fu portato in lettiga al convento di San Francesco, dentro la città, dove morì quel giorno stesso a 64 anni, posto sulla nuda terra come s. Francesco, dietro sua richiesta.
Dopo morto, il suo corpo esposto alla venerazione degli aquilani, grondò di sangue prodigiosamente e a tale fenomeno i rissosi abitanti in lotta fra loro, ritrovarono la via della pace.
I frati che l’accompagnavano, volevano riportare la salma a Siena, ma gli aquilani, accorsi in massa lo impedirono, concedendo solo gli indumenti indossati dal frate.
Nelle città dov’era vissuto, furono costruiti celebri oratori, chiese, mausolei, come quello di S. Bernardino nella omonima chiesa dell’Aquila, dove riposa.
Sei anni dopo la morte, il 24 maggio 1450, festa di Pentecoste, papa Niccolò V lo proclamò santo nella Basilica di S. Pietro a Roma. San Bernardino è compatrono di Siena, della nativa Massa Marittima, di Perugia e dell’Aquila.
Una città in California porta il suo nome. È invocato contro le emorragie, la raucedine, le malattie polmonari. La sua festa si celebra il 20 maggio.
Taliesin, il Bardo
Tratto da www.santiebeati.it (http://www.santiebeati.it/) Autore: Antonio Borrelli
Spunti bibliografici su San Bernardino da Siena a cura di LibreriadelSanto.it
Bargellini Piero, San Bernardino, Cantagalli Edizioni, 2013 - 272 pagine
San Bernardino da Siena, Antologia delle prediche volgari, Cantagalli Edizioni, 2010 - 160 pagine
Polidoro Gianmaria, San Bernardino da Siena, Elledici, 2008 - 48 pagine
Stanzial Vittorio, Una voce da seguire. S. Bernardino da Siena..., Tau Editrice, 2006 - 384 pagine
Bernardino da Siena (san), Prediche della Settimana santa (Firenze..., Paoline Edizioni, 1995 - 262 pagine
Taliesin
23-05-2016, 13.09.00
FIRENZE, 23 maggio A.D. 1498: GIROLAMO SAVONAROLA.
La mattina del 23 maggio 1498 Piazza della Signoria ed il centro storico tutto di Firenze era come invasi da una fitta coltre di fuliggine, dove il crepitio degli arbusti secchi stroncava le grida di un Uomo che doveva già essere morto, ma la cui voce tuonante sembrava ancora predicare mentre le fiamme impietose decomponevano il suo corpo. Quell’uomo era Girolamo Savonarola.
Il frate domenicano, originario di Ferrara, fu impiccato e poi arso sul rogo a Firenze insieme ai confratelli Domenico e Silvestro, con l’accusa di eresia. Fu l’ultimo atto di un’esistenza passata a perseguire la corruzione dei costumi.
Nato da una famiglia di origini nobili il 21 settembre 1452, Savonarola da piccolo fu orientato agli studi di Medicina che ben presto lasciò per diventare frate domenicano.
Predicatore e fustigatore
Nel 1482 conquistò i fiorentini con le sue prediche appassionate. I suoi seguaci si organizzarono nella setta penitenziale dei “piagnoni” (così chiamati per le lacrime versate durante i sermoni di Savonarola). Fustigatore di corruzione e decadenza della Chiesa, predicava la penitenza come sola via di salvezza. Contrario a ogni lusso, che riteneva fonte di depravazione, faceva processare chi giudicava dissoluto, organizzando “roghi delle vanità”, cioè di opere d’arte, libri e strumenti musicali. nella Chiesa e nella società.
Personaggio complesso e discusso, si oppose ai Medici, signori di Firenze, sostenendo la breve esperienza della repubblica di Pier Antonio Soderini.
Contro la Chiesa dei Borgia
Al tempo la Chiesa Cattolica attraversava un momento di estrema decadenza. Sotto la guida di Alessandro VI, pontefice dal 1492 al 1503, aveva toccato il fondo. Lo spagnolo Alessandro VI, al secolo Rodrigo de Borja (italianizzato in Borgia), dopo essersi comprato il conclave aveva trasformato Roma in una città-bordello che poi Lutero paragonò a Sodoma.
Il critico più aspro di tale degenerazione fu proprio Savonarola, che verso la Chiesa di allora non usava perifrasi: “Nella lussuria ti sei fatta meretrice sfacciata, tu sei peggio che bestia, tu sei mostro abominevole”.
La vendetta di Borgia
Alessandro VI prima lasciò dire, poi definì le tesi di Girolamo una “perniciosa dottrina, con scandalo e iattura delle anime semplici”. E poiché le anime vanno tutelate, finì che il frate ribelle fu scomunicato. Va precisato che Alessandro VI non si sporcava mai personalmente le mani di sangue: lasciava che lo facessero altri. In primis suo figlio Cesare, detto il Valentino, nominato cardinale nel 1493 e spretato nel 1497. Nel caso di Savonarola, lasciò carta bianca ai fiorentini.
Al rogo
Nel 1498 fu catturato dai fiorentini che chiedevano il ritorno dei Medici e processato, impiccato e arso sul rogo proprio il 23 maggio. Quella giornata è rievocata in un celebre dipinto, intitolato Supplizio del Savonarola in piazza della Signoria, di poco successivo, che per alcuni aspetti è una "foto" di un'esecuzione capitale del Rinascimento.
Prima dell’esecuzione Savonarola fu sconsacrato sulla ringhiera dei Signori (davanti a Palazzo dei Priori, oggi Palazzo Vecchio) davanti a dove erano riuniti i commissari apostolici nominati da papa Alessandro VI.
La condanna a morte fu eseguita mediante impiccagione. Il rogo fu acceso in un secondo tempo per distruggere le spoglie del frate ed evitare che fossero venerate. La forca innalzata per impiccare Savonarola e i suoi aveva l’aspetto di una croce e una serie di catene di ferro reggevano i corpi per evitare che cadessero durante il rogo.
Le ceneri furono poi disperse in Arno da Ponte Vecchio.
Taliesin, il Bardo
Taliesin
25-05-2016, 17.19.57
Oggi, 25 maggio A.D. 735
IL MISTERIOSO CRONISTA DI ARTU': BEDA, IL VENERABILE.
il Venerabile San Beda (Inghilterra, 672; † 25 maggio 735) è stato un presbitero e monaco inglese.
È famoso come studioso e autore di numerose opere, tra le quali la più conosciuta è la Historia ecclesiastica gentis Anglorum ("Storia ecclesiastica del popolo inglese"), che gli è valsa il titolo di Padre della storia inglese.
Scrisse su molti altri argomenti, dalla musica alla poesia, ai commentari biblici.
Quasi tutto ciò che conosciamo della vita di Beda è quanto è stato raccontato da lui stesso nella sua Historia.
Entrato nel monastero di Wearmouth all'età di 7 anni, divenne Diacono a 19 anni e presbitero a 30. Non è chiaro se fosse di famiglia nobile. Fu educato dagli Abati Benedetto Biscop e Ceolfrid, e probabilmente fu quest'ultimo ad accompagnarlo a Jarrow nel 682. Qui trascorse il resto della sua vita dividendo il suo tempo tra lo studio, l'insegnamento, lo scrivere e lo zelo nell'assolvimento della vita monastica.
Beda divenne il Venerabile Beda subito dopo la sua morte, ma non fu dichiarato Santo dalla Chiesa di Roma.
La sua importanza per la Religione Cattolica fu pienamente riconosciuta solo nel 1899, quando Papa Leone XIII lo dichiarò Dottore della Chiesa, con il nome di San Beda il Venerabile.
Gli scritti di Beda mostrano chiaramente la sua profonda conoscenza del suo tempo e del passato, conoscenza ottenuta dalla lettura dei volumi della biblioteca di Wearmouth-Jarrow, che conteneva dai 300 ai 500 volumi e che era tra le più grandi d'Inghilterra.
Durante i suoi lunghi viaggi come Vescovo si impegnò nella ricerca ed acquisizione di nuovi libri.
Fu un grande esperto in Letteratura Patristica, e nei suoi scritti si ritrovano citazioni di Plinio il Giovane, Virgilio, Lucrezio, Ovidio, Orazio e di altri autori classici.
Conosceva il greco e un po' di ebraico. Il suo latino è semplice e privo di affettazione, ed era utilizzato con l'abilità di un narratore.
Beda utilizzava il metodo di interpretazione allegorica della Bibbia, ed aveva un atteggiamento abbastanza moderno di fronte all'interpretazione dei miracoli. Appariva dotato nella maggior parte delle cose di molto buon senso, era simpatico, aveva amore della verità e dell'imparzialità, sincera pietà e devozione al servizio degli altri.
Gli scritti di Beda possono essere classificati in scientifici, storici e teologici.
Tra gli scritti scientifici troviamo trattati di grammatica, scritti per i suoi allievi, un lavoro sui fenomeni naturali (De Rerum Natura, "Sulla natura delle cose") e due sulla cronologia (De temporibus, "Sui Tempi", e De temporum ratione, "Sul significato dei tempi").
Beda fece anche un calcolo approssimato dell'età della Terra, ed iniziò a dividere gli anni in prima di Cristo e dopo Cristo.
Scrisse che la Terra è rotonda "come una palla da gioco", in contrasto con l'opinione corrente di una terra rotonda ma piatta.
Il più importante e meglio conosciuto dei suoi lavori è la Historia ecclesiastica gentis Anglorum, in cinque libri, per un totale di circa 400 pagine, sulla storia dell'Inghilterra, sia dal punto di vista politico che ecclesiastico, dal tempo di Cesare alla data di composizione (731).
I primi 21 capitoli trattano del periodo precedente alla missione di Sant'Agostino di Canterbury, e furono scritti a partire dalle opere di altri autori, quali Paolo Orosio, Gildas, Prospero di Aquitania. Beda tenne presenti anche le lettere di Gregorio Magno e altri scritti, includendo anche leggende e tradizioni.
Per il periodo dopo il 596 Beda usò documenti verificati con grande fatica e testimonianze orali, queste ultime utilizzate con approfondite considerazioni sul loro valore.
Beda documentava i suoi riferimenti e soprattutto citava le fonti delle sue fonti, creando un'importante catena storica.
A Beda si deve l'invenzione dell'annotazione a piè di pagina.
Proprio a causa dell'annotazione a piè di pagina fu accusato di eresia dal Vescovo Wilfred. L'accusa era di aver calcolato male l'età della Terra: la sua cronologia non rispettava il calcolo del tempo, ed era collegata all'annotazione, in quanto Beda aveva citato un'altra fonte in una nota, piuttosto che una propria opinione, mostrando di aver interpretato in maniera differente dagli altri la fonte citata in nota.
La sua edizione della Bibbia fu molto importante, e fu utilizzata dalla Chiesa fino al 1966. Quest'opera non è la copia di una precedente versione ma è il risultato di molte ricerche per ciascuno dei libri della Bibbia.
Suoi altri lavori importanti sono le vite degli Abati di Wermouth e Jarrow, e le vite in versi e in prosa di San Cutberto di Lindisfarne.
La maggior parte dei suoi scritti è di tipo teologico, e consiste in commentari di libri dell'Antico e del Nuovo Testamento, omelie e trattati su brani della Sacra Scrittura.
Il suo ultimo lavoro, completato sul letto di morte, fu la traduzione in lingua anglosassone del Vangelo secondo Giovanni.
Nel Martirologio Romano, 25 maggio, n. 1:
« San Beda il Venerabile, sacerdote e dottore della Chiesa, che, servo di Cristo dall'età di otto anni, trascorse tutta la sua vita nel monastero di Jarrow nella Northumbria in Inghilterra, dedito alla meditazione e alla spiegazione delle Scritture; tra l'osservanza della disciplina monastica e l'esercizio quotidiano del canto in chiesa, sempre gli fu dolce imparare, insegnare e scrivere. »
Taliesin, il Bardo
"Scrivesti ed assaporasti ogni passaggio della tua temporalità,
narrasti del Re Orso e della sua fede precristiana,
consigliere e scriba di generazioni di potenti e di umili penitenti,
oggi venarabile esempio per gli esempi di sempre..."
Taliesin
26-05-2016, 16.28.27
Oggi, 26 Maggio 1595
"Cullato dalle note senza tempo del Menestrello Spiriglione,
sospeso nell'attesa di battaglie continue contro il Diavolo,
osannato come Santo e Venerabile dalle folle di una Roma decadente,
nella conversione estrema del Bandido Cirifischio
ed il sorriso velato di tua Figlia Leonetta,
che tu possa ogni giorno incontrare quell'Oratorio
che ancora tanto ti somiglia, Pippo il Buono..."
Taliesin, il Bardo
1. Se vivessi mille anni,
nella gioia e senza affanni,
alla morte che sarà?
ogni cosa è vanità.
2. Se ottenessi ogni favore,
ogni brama ed ogni onore,
alla morte che sarà?
ogni cosa è vanità.
3. Se io avessi case e ville,
campi e servi a mille a mille,
alla morte che sarà?
ogni cosa è vanità.
4. Se a me docil la fortuna
non negasse brama alcuna,
alla morte che sarà?
ogni cosa è vanità.
5. Se io fossi un gran sapiente,
ma superbo nella mente,
alla morte che sarà?
ogni cosa è vanità.
6. Ma se vivo da cristiano,
disprezzando il mondo vano,
alla morte che verrà
solo Dio mi basterà.
7. Dunque a Dio rivolgi il cuore,
dona a lui tutto il tuo amore,
Questo mai non mancherà,
tutto il resto è vanità...
San Filippo Neri
Altea
28-05-2016, 01.05.39
Sir Taliesin, grazie per queste storie di santi..ho letto con interesse la storia di San Beda.
Stanotte ho letto qualcosa di uno dei miei scrittori preferiti, Alessandro Baricco. Amo i suoi libri, mi trovo incredibilmente parte di essi, mi inoltro nella vita dei loro personaggi e vivo le loro emozioni e le loro vite..è straordinario.
"Sai cos'è bello, qui? Guarda: noi camminiamo, lasciamo tutte quelle orme sulla sabbia, e loro restano lì, precise, ordinate. Ma domani, ti alzerai, guarderai questa grande spiaggia e non ci sarà più nulla, un'orma, un segno qualsiasi, niente. Il mare cancella, di notte. La marea nasconde. È come se non fosse mai passato nessuno. È come se noi non fossimo mai esistiti. Se c'è un luogo, al mondo, in cui puoi pensare di essere nulla, quel luogo è qui. Non è più terra, non è ancora mare. Non è vita falsa, non è vita vera. È tempo. Tempo che passa. E basta."
Alessandro Baricco.
Buonanotte Camelot...
Taliesin
30-05-2016, 16.06.10
Oggi, 30 Maggio Anno del Signore 1431
Il testo della Canzone raccoglie molti degli elementi caratterizzanti la vicenda umana di Giovanna d'Arco, dalle visioni alle "voci", dalla scelta di armarsi alla consapevolezza di avere una missione da compiere. Una missione che costerà la vita alla contadina lorenese, al termine di un processo in cui i massimi teologi del tempo furono mobilitati per dichiararla eretica.
La fama di Giovanna vergine combattente, già alta durante la sua vita, fu tutt'altro che offuscata dalla fine riservatale, con la quale la supremazia inglese intendeva scoraggiare ogni dissenso: eroina popolare, appena l'influenza inglese sulla Francia iniziò a scemare fu riabilitata da un successivo processo (1456) e poi, al termine di una vicenda in cui il piano religioso si è intrecciato spesso a quello delle istanze e delle rivendicazioni nazionaliste (gli intenti anti-inglesi con cui il nazionalismo francese si impossessò della sua figura sono evidenti), prima beatificata (1909) e poi dichiarata santa (1920).
Come succede spesso per le figure storiche su cui nascono dicerie e leggende, versioni dei fatti secondo le quali Giovanna sarebbe in un modo o nell'altro sfuggita al rogo sono sopravvissute ai secoli. "...Forse è andata sposa, o a una crociata, o ha continuato con altro nome a sterminare inglesi..." (M.L. Spaziani, Giovanna d'Arco, romanzo popolare in sei canti in ottave e un epilogo, 1990).
Taliesin, il Bardo
GIOVANNA D’ARCO di Angelo Branduardi
“L'angelo Michele, primo,ti parlò
la seconda voce fu di Margherita,
quando Caterina, infine, ti chiamò
scese un'ombra d'oro sopra ia tua vita.
Non ascoltare, aspetta
non ascoltare più,
piede che sfiora l'erba
più non ritornerà,
ma la tua gola ride
solo mon Dieu, mon Roi
Cantano le voci chiuse dentro te:
"Una contadina darà il trono a un re!"
Una spada, un elmo ed un cavallo avrai,
i capelli a ciocche taglierai leggera,
poi tutta di ferro ti rivestirai
sul fianchi di giglio, sulla croce nera.
Il fumo, il sangue, il fango
l'alba li accenderà,
al fuoco, al fuoco, brucia!
Che cosa brucerà?
Il bosco sta bruciando,
brucia la verità.
Cantano feroci chiuse dentro te:
"Una contadina ha dato il trono a un re!"
Angelo Branduardi “Domenica e Lunedì” 1994
Giovanna d'Arco è, da sempre quindi, uno dei simboli delle "virtù guerriere" unite a quelle "cristiane", l'indomita vergine che combatte e che muore in nome della fede. In questo senso, è del tutto ovvio che sia stata scelta come simbolo dai movimenti più retrivi, non ultimo il Front National di Jean-Marie Le Pen (che il 1° maggio la "festeggia" in contrapposizione alla festa dei lavoratori). La canzone di Fabrizio è invece, al tempo stesso, l'umanizzazione e la smitizzazione di Giovanna d'Arco; sul rogo è per la prima volta nella sua vita una donna, e con il fuoco consuma quasi un amplesso. Perde la sua verginità di guerriera trasformandosi all'ultimo momento in carne, in essere umano.
Taliesin, il Bardo
GIOVANNA D’ARCO di Fabrizio De André
“Attraverso il buio Giovanna d'Arco
precedeva le fiamme cavalcando
nessuna luna per la corazza ed il manto
nessun uomo nella sua fumosa notte al suo fianco.
Sono stanca della guerra ormai
al lavoro di un tempo tornerei
a un vestito da sposa o a qualcosa di bianco
per nascondere questa mia vocazione al trionfo ed al pianto.
Son parole le tue che volevo ascoltare
ti ho spiato ogni giorno cavalcare
e a sentirti così ora so cosa voglio
vincere un'eroina così fredda, abbracciarne l'orgoglio.
E chi sei tu lei disse divertendosi al gioco,
chi sei tu che mi parli così senza riguardo,
veramente stai parlando col fuoco
e amo la tua solitudine, amo il tuo sguardo.
E se tu sei il fuoco raffreddati un poco,
le tue mani ora avranno da tenere qualcosa,
e tacendo gli si arrampicò dentro
ad offrirgli il suo modo migliore di essere sposa.
E nel profondo del suo cuore rovente
lui prese ad avvolgere Giovanna d'Arco
e là in alto e davanti alla gente
lui appese le ceneri inutili del suo abito bianco.
E fu dal profondo del suo cuore rovente
che lui prese Giovanna e la colpì nel segno
e lei capì chiaramente
che se lui era il fuoca lei doveva essere il legno.
Ho visto la smorfia del suo dolore,
ho visto la gloria nel suo sguardo raggiante
anche io vorrei luce ed amore
ma se arriva deve essere sempre così crudele e accecante.”
Fabrizio De André – “Canzoni” 1974
Taliesin, il Bardo
Taliesin
01-06-2016, 14.00.51
Oggi, 01 Giugno Anno del Signore 1307
VITA DI UN ERETICO: DOLCINO DA NOVARA.
Dolcino da Novara, o fra Dolcino come venne chiamato soprattutto dalla storiografia ottocentesca (Prato Sesia, 1250 circa – Vercelli, 1º giugno 1307), è stato un predicatore millenarista italiano, capo e fondatore del movimento dei dolciniani. Accusato di eresia dall'Inquisizione, fu catturato e ucciso sul rogo nel 1307.
Biografia
Le notizie storicamente accertate sulla figura e l'opera di Dolcino sono poche e incerte e le fonti sono prevalentemente di parte avversa ai dolciniani.
Secondo alcune di esse il suo vero nome era Davide Tornielli. Il suo effettivo luogo di nascita è sconosciuto, anche se viene convenzionalmente indicato in Prato Sesia; così come la data di nascita. Si suppone tuttavia che sia nato nell'alto Novarese (è stato affermato, infatti, che il cognome Tornielli sia originario di Romagnano Sesia, mentre una torre nel territorio di Trontano, in Ossola, porta quel nome). Alcune ricostruzioni posteriori, per squalificarne la nascita, sostennero che Dolcino fosse il frutto dell'unione di una donna del posto con un prete, forse il parroco di Prato Sesia.
Nel 1291 Dolcino entrò a far parte del movimento degli Apostolici, guidato da Gherardo Segalelli. È dubbio in tal senso come la definizione di "frate", con cui spesso anche Dolcino viene definito, debba essere intesa, perché non si è affatto sicuri che egli abbia mai pronunciato voti religiosi: si limitò forse ad autodefinirsi "fratello" nell'ambito del movimento ereticale. Gli Apostolici, in sospetto di eresia e già condannati da papa Onorio IV nel 1286, furono repressi dalla Chiesa cattolica e il Segalelli fu arso sul rogo il 18 luglio 1300.
La predicazione di Dolcino si svolse anzitutto nella zona del lago di Garda, con un soggiorno accertato presso Arco di Trento. Nel 1303, predicando nei dintorni di Trento, Dolcino conobbe la giovane Margherita Boninsegna nativa di Cimego, donna che i cronisti posteriori, per sottolinearne il fascino in qualche modo perverso, concordano nel definire bellissima. Margherita divenne la sua compagna e lo affiancò nella predicazione.
Dolcino si rivelò dotato di grande fascino e comunicativa e, sotto la sua guida, il numero degli Apostolici riprese a crescere. Si attirò le ire della Chiesa per i contenuti della predicazione, apertamente ostile a Roma e a papa Bonifacio VIII, di cui profetizzava la prossima scomparsa.
Durante gli spostamenti effettuati in Italia settentrionale per diffondere le proprie convinzioni e accrescere il numero dei seguaci, Dolcino e i suoi furono ospitati tra il Vercellese e la Valsesia. Qui, a causa delle severe condizioni di vita dei valligiani, le promesse di riscatto dei dolciniani furono accolte positivamente. Per questo, dopo un breve ritorno nel Bresciano, approfittando del sostegno armato offerto da Matteo Visconti, nel 1304 Dolcino decise di occupare militarmente la Valsesia e di farne una sorta di territorio franco dove realizzare concretamente il tipo di comunità teorizzato nella propria predicazione. Dolcino si stanziò per un lungo periodo nella località denominata Parete calva situata presso Rassa.
Di qui, il 10 marzo 1306, tutti i seguaci, denominati anche gazzari, abbandonati dal Visconti, si concentrarono sul Monte Rubello sopra Trivero (poco distante dal Bocchetto di Sessera, nel Biellese), nella vana attesa che le profezie millenaristiche proclamate da Dolcino si realizzassero.
Contro di loro fu bandita una vera e propria crociata, proclamata da Raniero degli Avogadro vescovo di Vercelli e che coinvolse anche milizie del Novarese. I dolciniani resistettero a lungo, ma infine, provati dall'assedio e dalla mancanza di viveri, che la popolazione locale, divenuta oggetto di vere razzie, non poteva né voleva più fornire loro, furono sconfitti e catturati nella settimana santa del 1307. Quasi tutti i prigionieri furono passati per le armi; Dolcino, processato e condannato a morte, fu giustiziato pubblicamente il 1º giugno, dopo avere assistito al rogo di Margherita e del suo luogotenente Longino da Bergamo.
Setta degli Apostolici
« Gesù e gli apostoli non avevano mai posseduto niente »
La setta degli "Apostolici", fondata da Segalelli verso il 1260, rientra nel novero dei movimenti pauperistici e millenaristici che fiorirono numerosi in quel periodo.
Essi conducevano una vita con frequenti digiuni e preghiere, lavorando o chiedendo la carità, senza praticare il celibato forzoso: la cerimonia di accettazione dei nuovi seguaci prevedeva che pubblicamente si mostrassero nudi, per rappresentare la propria nullità davanti a Dio, come avrebbe fatto san Francesco; predicavano l'obbedienza alle Scritture, affermavano il dovere di disobbedire anche al papa quando questo si fosse allontanato dai precetti evangelici, il diritto dei laici a predicare, l'imminenza del castigo celeste provocato dalla corruzione dei costumi ecclesiastici, e la necessità di vivere in assoluta povertà. Quest'ultimo punto, ovviamente, portò alle ire della Chiesa di Roma ed i dolciniani stessi furono accusati di depredazioni e rapine decisamente maggiori di quelli che furono strettamente necessari a garantire la loro semplice sopravvivenza.
Dolcino espose la sua dottrina in una serie di lettere (tutte ricostruite sulla base di documenti di parte avversa) indirizzate agli Apostolici: ispirandosi a Gioacchino da Fiore egli riteneva che la storia della Chiesa si dividesse in quattro epoche, e che fosse imminente l'avvento dell'ultima, un tempo finale in cui si sarebbe ristabilito finalmente l'ordine e la pace dopo le degenerazioni della Chiesa del tempo, e annunciò l'approssimarsi della fine dei tempi e una nuova effusione dello Spirito sugli apostoli. Alcuni teologi della Riforma protestante videro in Dolcino un loro antesignano e nella diffusione della Parola di Dio legata alla liberazione del nord Europa dal giogo papale l'adempimento della sua profezia.
La Crociata contro i dolciniani
La Crociata contro Dolcino fu bandita, come detto, dal vescovo di Vercelli Raniero (o Rainero) degli Avogadro, con il beneplacito di papa Clemente V nel 1306. A lungo si è ritenuto che i valligiani tra il Biellese e la Valsesia l'avessero addirittura anticipata aderendo allo Statutum Ligae contra Haereticos (cosiddetto Statuto di Scopello), redatto già il 24 agosto 1305. Studi più recenti, tuttavia, hanno dimostrato che il documento è un falso, confezionato alla fine del sec. XVIII in ambienti clericali per dimostrare l'esistenza di un movimento popolare antidolciniano sin dalle origini della sua predicazione nel Biellese. Nello Statuto si pretendeva che numerosi rappresentanti delle genti delle tre principali valli valsesiane, riuniti nella chiesa di San Bartolomeo a Scopa, avessero giurato sui Vangeli di scendere in armi contro i dolciniani fino al loro totale sterminio. Chiunque indossi la veste con croce e si appresti a partire verso le valli del Novarese e Vercellese per combattere l'eresia dolciniana - questo il senso della disposizione delle autorità ecclesiastiche - avrà rimessa la totalità dei peccati. Come detto, tuttavia, lo Statutum è un falso.[1]
Il movimento guidato da Dolcino contava, al massimo della sua espansione, tra i 5000 e i 10000 aderenti, benché simili numeri possano anche essere considerati l'esagerazione di alcuni autori: per fare un confronto, infatti, la città di Novara contava al tempo circa 5000 abitanti e l'alta Valsesia meno di 500. Nell'organizzazione della loro difesa i dolciniani (detti anche gazzari) costruirono fortificazioni le cui vestigia sul Monte Rubello sarebbero state ancora rinvenute da scavi archeologici recenti. Scorribande improvvise e sortite notturne nelle campagne della Valsesia e del Biellese permisero un misero sostentamento ai fuggiaschi, verso i quali crebbe però l'ostilità dei valligiani depredati. Un rigido inverno contribuì a ridurre ulteriormente le forze e le riserve alimentari. I vescovili dal canto loro potenziarono il proprio esercito assoldando, tra gli altri, anche un contingente di balestrieri genovesi.
Le alture circostanti, tra le quali il Monte Rovella, vennero fortificate con lo scopo di isolare Dolcino e i suoi seguaci. Nella settimana Santa (23 marzo) del 1307, le truppe di Raniero riuscirono a penetrare nel fortilizio fatto costruire da Dolcino, dove ancora resistevano disperatamente gli ultimi superstiti del gruppo ormai falcidiato. Secondo le fonti di epoca successiva lo spettacolo che si presentò agli assalitori fu drammatico: gli assediati, per sopravvivere, si erano cibati dei resti dei compagni morti. Tutti i dolciniani, comunque, vennero immediatamente passati per le armi eccetto Dolcino, Longino e Margherita.
Il processo e l'esecuzione
Dolcino fu processato a Vercelli e condannato a morte. L'Anonimo Fiorentino (uno dei primi commentatori della Divina Commedia) riferisce che egli rifiutò di pentirsi e anzi proclamò che, se lo avessero ucciso, sarebbe resuscitato il terzo giorno.
Margherita e Longino furono arsi vivi sulle rive del torrente Cervo, il corso d'acqua che scorre vicino a Biella, dove la tradizione identifica ancora una sorta di isolotto detto appunto "di Margherita". Un cronista annota che Dolcino, costretto ad assistere al supplizio dell'amata, "darà continuo conforto alla sua donna in modo dolcissimo e tenero". L'Anonimo Fiorentino, all'opposto, afferma che Margherita fu giustiziata dopo di lui.
Per Dolcino si volle procedere a un'esecuzione pubblica esemplare: secondo Benvenuto da Imola (un altro antico commentatore dantesco), egli fu condotto su un carro attraverso la città di Vercelli, venne torturato a più riprese con tenaglie arroventate e gli furono strappati il naso e il pene. Dolcino sopportò tutti i tormenti con resistenza non comune, senza gridare né lamentarsi. Infine fu issato sul rogo e arso vivo.
Dolcino nella Divina Commedia
Dante ricorda Dolcino nella Divina Commedia con questi versi:
« Or di' a fra Dolcin dunque che s'armi,
tu che forse vedra' il sole in breve,
s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch'altrimenti acquistar non saria leve. »
(Inferno XXVIII, 55-60)
Dante destina Dolcino alla bolgia dei seminatori di discordie e degli scismatici; poiché però l'azione della Commedia è ambientata nel 1300, quando egli era ancora vivo, Dante non lo incontra durante la sua visita all'Inferno, ma è Maometto, che si trova in quella stessa bolgia, a preannunciargli il suo arrivo. Si tratta di una delle numerose "profezie" che Dante inserì nel poema per poter citare personaggi ancora viventi nel 1300 o eventi posteriori a tale data (ma già avvenuti, ovviamente, nel momento in cui egli scriveva).
La notorietà dell'episodio, che nell'economia del poema è assolutamente marginale, è dovuta soprattutto all'orgoglio un po' campanilistico con cui, nel XIX secolo, gli intellettuali dell'area tra il Biellese e la Valsesia sottolinearono la presenza di un accenno alle loro terre nel capolavoro dantesco: un fenomeno analogo è osservabile nell'esagerato rilievo che la cultura vercellese ha sempre dato ai versi - di poco successivi - relativi "al dolce piano / che da Vercelli a Marcabò dichina" (Inferno XXVIII, 73-74). Essi, infatti, costituiscono solo una precisazione geografica e non certo una lode del capoluogo eusebiano
tratto da: wikipedia, l'enciclopedia del sapere
Taliesin, il Bardo
Hastatus77
01-06-2016, 15.12.08
Mi sembrava giusto dare una dignità a quest'opera portata avanti da Taliesin.
Altea
01-06-2016, 15.25.31
Mi sembrava giusto dare una dignità a quest'opera portata avanti da Taliesin.
Concordo con voi Sir Hastatus, sono davvero interessanti.
Taliesin
01-06-2016, 16.02.28
Cavaliere della Carretta...
Vi ringrazio enormemente per avere saputo interpretare, attraverso le mie giallastre parole impresse nella virtuale pergamena, la mia costante esigenza ed il mio spasmodico bisogno di Ricordare...
In un certo senso, con un semplice tocco di Artista, avete ridonato Memoria a coloro che non sono più nel quotidiano da troppo tempo...
Milady Altea...
Grazie anche a Voi per esserci sempre, non solo con il pensiero ma e soprattutto con lo spirito...
Taliesin, il Bardo
Guisgard
01-06-2016, 20.47.08
Grande idea, sir Hastatus.
Anche io avevo pensato a qualcosa del genere leggendo gli ultimi scritti di messer Taliesin nel Giardino, in particolar modo riguardo le ricorrenze dei Santi quotidiani riportate dal nostro bardo.
Magari si potrebbe elencare anche quelle in una sorta di Almanacco giornaliero di Camelot, per scandire ogni giorno e festività del calendario.
Taliesin
25-08-2016, 12.12.35
POMPEI 24 Agosto Anno 79: L’APOCALISSE SCESA IN TERRA.
Sin dall'alba del 24 agosto di quell'anno 79, apparve sul Vesuvio una grande nuvola a forma di pino. Alle dieci del mattino i gas che premevano dall'interno fecero esplodere la lava solidificata che ostruiva il cratere del vulcano, riducendola in innumerevoli frammenti, i lapilli, i quali furono scagliati su Pompei, insieme con una pioggia di cenere così fitta da oscurare il sole. Fra terribili scosse telluriche ed esalazioni di gas venefici, la città cessò d'esistere quello stesso giorno, rimanendo per secoli sepolta sotto una coltre d'oltre sei metri di cenere e lapilli. Si è calcolato che sui circa diecimila abitanti che doveva avere in quel periodo Pompei, circa duemila sarebbero state le vittime, alcune avvelenate dai gas durante la fuga, altre stritolate nelle loro stesse case dai tetti crollati sotto il peso dei lapilli.
Della città quasi si perse la memoria, al punto che, quando alla fine del XVI secolo l'architetto Domenico Fontana, nel costruire un canale di derivazione del Sarno, scoprì alcune epigrafi e persino edifici con le pareti affrescate, non vi riconobbe i resti dell'antica Pompei.
I primi veri scavi nell'area di Pompei ebbero inizio nel 1748 per volontà del re Carlo di Borbone, anche se furono piuttosto irregolari e non seguirono alcun metodo scientifico. Spesso gli edifici man mano portati alla luce venivano spogliati di oggetti ed opere d'arte e quindi nuovamente ricoperti. Nella prima metà dell'Ottocento i lavori procedettero molto più speditamente, e portarono all'esplorazione di molti edifici privati e di quasi tutto il Foro. Dal 1860, con l'avvento del Regno d'Italia, i lavori affidati alla direzione di Giuseppe Fiorelli furono condotti con sistematicità e rigoroso metodo scientifico. Il Fiorelli intuì fra l'altro la possibilità di ottenere calchi dalle vittime dell'eruzione colando del gesso liquido nel vuoto lasciato dai corpi, ormai dissolti, nella cenere solidificata: questi calchi, nell'Antiquarium di Pompei, costituiscono una delle più tragiche testimonianze della catastrofe.
Oggi Pompei ci appare in quasi tutta la sua estensione e ci riporta al giorno in cui il destino fermò il corso della sua storia: la vita sembra essersi interrotta un istante fa. Le scritte elettorali sui muri, le suppellettili domestiche, le botteghe, tutto sembra ancora vivo: la tragedia di Pompei non ha distrutto la città, vi ha solo fermato il tempo per restituircela con l'aspetto che essa aveva in quel preciso giorno del 79 d.C..
Taliesin, il Bardo
Tratto da:www.inpompei.it (http://www.inpompei.it)
Altea
25-08-2016, 17.36.00
Sir Taliesin, mio amico bardo, grazie a voi per esserci sempre ed esservi unito a me in un unico canto.
Leggo con interessa di Pompei..la cosa mi fa sospirare. Sapete, durante le mie vacanze estive ho avuto modo di sostare pochi giorni in quel di Napoli e dovetti fare una scelta tra la Reggia di Caserta e Pompei e potete immaginare...scelta difficilissima e scelsi la prima..abbandonando con tristezza Pompei.
E ho sospirato leggendo il nome di "Re Carlo di Borbone" in quanto ne rimasi affascinata dal personaggio quando entrai nel Regio Teatro di San Carlo, voluto dal medesimo Re e la cui inaugurazione fu il giorno di San Carlo, il suo onomastico..un Re che ha saputo fare di Napoli una città dotta e imponente, anche se la storia ci insegna che dentro tanto sfarzo fuori poi vi sta molta miseria..ma questa è un' altra storia. Grazie per avermi fatto riaffiorire questi ricordi di poche settimane fa :smile:
Buon pomeriggio Camelot....
Taliesin
08-09-2016, 13.01.11
FIRENZE, 08 SETTEMBRE 1504: IL DIVINO SCESO IN TERRA.
Mia dolcissima Altea,
dopo i fasti di Pompei decantati da Plinio il Vecchio racchiusi nello scenario straziante di una vita immortalata dal calco della cenere e dalle nere colate laviche, nella rarefatta aria di questo Giardino dei Silenzi e dei Sospiri, voglio regalarvi un altro pezzetto di Storia, quella che accadde oggi difronte a Palazzo Vecchio...
Firenze, 08 Settembre 1504...
Nel luglio del 1501 Michelangelo Buonarroti fu incaricato dall’Opera del Duomo di realizzare una statua raffigurante Davide e Golia, con l’obbligo di utilizzare un grande blocco di marmo che giaceva abbandonato presso la Bottega della Cattedrale e che era già stato sbozzato dallo scultore Agostino di Duccio circa 40 anni prima, nel tentativo di scolpire lo stesso soggetto. Questa era una sfida per Michelangelo, che allora aveva 26 anni ed era appena tornato da Roma, dove aveva creato il suo primo capolavoro: la Pietà oggi conservata nella basilica di San Pietro al Vaticano.
La commissione, all’inizio religiosa e destinata ad essere collocata su uno degli sproni della cattedrale, venne presa in carico dal Governo della Repubblica di Firenze, dato che la figura di Davide poteva bene simboleggiare la virtù del buon governo e la difesa della patria. Sono questi gli anni in cui i Medici erano stati cacciati da Firenze e in cui Niccolò Machiavelli era segretario della seconda Cancelleria della Repubblica (odierno Ministero degli Esteri).
Dopo aver preparato il lavoro con molti disegni e piccoli modelli in cera, nel 1502 Michelangelo iniziò a scolpire il marmo, lavorando da solo, in piedi sopra un’impalcatura che circondava il grande blocco. Nel gennaio del 1504 la statua era finita ed era riuscita così magnifica e straordinaria che fu deciso di riunire una commissione, di cui faceva parte anche Leonardo da Vinci, per decidere dove collocarla.
Fu così che i fiorentini decisero di mettere il David di Michelangelo davanti al Palazzo della Signoria, dove venne inaugurato l’8 settembre 1504 e dove rimase fino al luglio del 1873.
Taliesin, il Bardo
Altea
08-09-2016, 16.00.30
Mio caro e sapiente bardo Taliesin,
Voi avete il dono di portarmi con i vostri scritti nei luoghi da me amati..che dopo la mia natia Terra è Firenze.
Oggi figura ancora la statua davanti Palazzo Signoria, non originaria, ma il vero capolavoro è presso l' Accademia delle Belle Arti a Firenze...per descrivere le opere di Michelangelo non vi sono parole..ma ho sempre pensato nelle sue mani vi fosse Dio stesso..come una sorta di Creazione delle più belle opere del mondo.
Taliesin
20-09-2016, 13.43.18
Mia Cara e Dolcissima Altea,
mia uinica speme in questa valle di lacrime, probabilmente quel Dio che tanto vi somiglia veramente esiste in ogni forma del creato ed anche noi, più o meno incosapevolmente ed immeritatamente siamo una piccola particella. Quello che avete detto, mi ha fatto ricordare una storia ambientata nella scellerata Roma seicentesca, al tempo di Papa VI...
Filippo Neri, detto Pippo il Buono, passeggiava un giorno tra i maladoranti vicoli di Trastevere alla ricerca di un suo orfanello scappato dalla sua parrocchia, cercando di rimediare alle malefatte perpetrate ai danni di un povero fornaio. Nei pressi della bottega di Mastro Titta, rinomato scultore romano di Papi e Principi Romani, Filippo si soffermò sull'uscio della porta ed ammirando la magnifica statua di marmo di una fanciulla in vesti bucoliche che si bagnava in una candida fontana, esclamò, in un falso romaneco (lui che era fiorentino) con il sorriso sornione che lo contraddistingueva:
"Mastro Ti...ma voi che sapete tanto usà lo scalpello come fosse pennello di Pittore non vedete che a questa vostra Pulzella manca qualcosa?"
"E che mancherebbe Don Fili...? visto che il Principe Ruspoli m'ha detto che nessun'altro dei suoi artigiani avrebbe poito fa' de mejo?"
"Manca l'Anima amico mio...l'anima di Dio. Soffiateci dentro e vedrete la differenza di cui io vi parlo.."
Grazie a voi dunque Lady Altea, per avere soffiato dentro al vostro Davide
Taliesin, il Bardo
Altea
20-09-2016, 17.38.09
Mio caro amico Taliesin..è un onore per me essere paragonata ad un episodio di Filippo Neri.
Grazie a voi..perché il vostro passaggio a Camelot è sempre aria fresca e rigeneratrice.