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Vecchio 03-03-2020, 10.33.42   #2057
Destresya
Cittadino di Camelot
 
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Destresya è sulla buona strada
Quella mattina era particolarmente uggiosa e cupa, con le nuvole che si addensavano all’orizzonte quasi a voler presagire un temporale che avrebbe gettato altro grigiume in questa pare del mondo.
Un altro giorno in paradiso, dopotutto.
La finestra del mio studio dava sul cortile interno dell’Imperium Nolhiae, ma essendo nel piano piano più alto riuscivo ad intravedere uno squarcio di città oltre quelle mura altissime che contenevano i peggiori criminali contro la religione che la terra avesse mai visto.
Io lavoravo nel braccio dei criminali peggiori, quelli considerati irrecuperabili.
Ma era davvero così?
Come criminologa teologica mi venivano affidati quei criminali senza speranza, quelli per cui l’Imperium Nolhiae poteva fare ben poco.
La loro mente mi aveva sempre affascinato e fin da ragazzina mi ero applicata a studiare quelle anime inquiete, nate senza l’illuminazione del divino, o che l’avevano rifiutato volutamente.
Io che avevo sentito una chiamata antica e appartenevo a una minoranza tollerata dal governo, non mi davo pace nell’indagare a fondo le problematiche di questi disadattati.
Non è che ci fosse la fila per il mio posto, naturalmente.
Ci voleva stomaco per vivere praticamente nella prigione peggiore dello Stato, ma la mia era una missione, un’indagine che non mi dava pace.
I pazienti erano tutti fattori dei miei esperimenti, delle mie ricerche, pedine da muovere sullo scacchiere che mi avrebbe permesso di scoprire che cosa si celava dietro le loro vite patetiche e oscure.
Il tè si era quasi raffreddato, mi accorsi con rammarico, mentre portavo la tazza alle labbra per scaldarmi.
Prima di iniziare il mio giro di ispezione e le visite giornaliere passavo sempre del tempo nel mio studio, in solitudine, a rimuginare sui miei pensieri, riordinare le idee e discutere con me stessa della migliore strategia da adottare con quello o quell’altro paziente.
Era il momento migliore della giornata, sarà perché amavo la solitudine e il silenzio, mentre dovevo passare l’intera giornata tra le urla, le farneticazioni e i lamenti dei prigionieri.
A volte mi chiedevo se non fossi prigioniera anche io, di mia volontà.
Certo, io la sera, molto tardi a dire il vero, prendevo la macchina e me ne tornavo nel mio appartamento in centro, ma dopo poche ore ero di nuovo in quell’inferno di mattoni e lamenti.
Ma era la mia vita, l’avevo scelta, avevo lottato per averla vincendo tutta la reticenza che, anche se non apertamente, girava attorno a quelli come me, che vivevano ai bordi del convenzionale, che seguivano una via al divino diversa dalla maggioranza della gente.
Eppure, ero arrivata lì, nel più importante penitenziario criminale che esistesse, a dirigere tutta l’equipe del braccio più terribile che esistesse.
Finii il mio tè ormai tiepido, aprii il fascicolo davanti a me e lo studiai prima di alzarmi.
“Vediamo un po’ da dove posso cominciare oggi…” mormorai tra me e me mentre leggevo i miei appunti sul primo paziente della giornata.


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Lei si innamorò, sopra ad un cespuglio di rose, e poi rispose... Sì!
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