IL CAVALIERE DI SEMIFONTE
VIII
Le colline riempivano ed animavano quello scenario.
Avvolgevano e correvano in ogni direzione.
Per chilometri e chilometri non si vedeva altro, arrivando a disperdersi nella foschia che segnava l’infinito limite dello sterminato orizzonte.
I cipressi erano vigorosi e si lasciavano cullare dolcemente dal mite vento che soffiava sulla campagna.
Le stradine salivano e scendevano, come a voler disegnare le forme e le sagome di quell’incantato paesaggio.
E solo nel guardare tutto questo, Icaro sentiva dentro di sé una pace ed una tranquillità senza fine.
Quello era il suo mondo.
Era tutto ciò che chiedeva alla vita.
Vinto allora dalla felicità, per essere ritornato in quel suo mondo, si lanciò in una corsa per i campi.
Corse tanto, fino a che ebbe forza.
Ed alla fine, stremato, si lasciò cadere all’ombra di un grosso albero.
Restò così per diverso tempo, con il fiato rotto ma il cuore sereno.
Ad un tratto udì dei passi di cavalli.
Alzò il capo e scorse 5 cavalieri, dal fiero portamento e dal superbo passo.
Erano bardati con pesanti corazze e rivestiti di lucenti e preziose tuniche.
L’ultimo dei 5 portava con se un grosso stendardo.
Icaro fissò con attenzione quel simbolo, fino a quando ne riconobbe l’immagine.
Era il simbolo dei Ghibellini.
Guardò di nuovo i 5 cavalieri e si accorse che erano seguiti da un carro trainato da sei cavalli neri come la notte.
Il carro ricordava quelli utilizzati durante le epidemie di peste per raccogliere i cadaveri dalle case e dalle strade.
Il contenuto però era coperto da un grosso telo.
Guardando meglio quel telo, Icaro si accorse che attorno vi ronzavano mosche ed altri tipi di insetti.
In quel momento il vento soffiò con più vigore, sollevando una parte del telo.
Agli occhi di Icaro allora si mostrò il macabro contenuto di quel carro.
Una quantità spropositata di cadaveri, molti dei quali già imputriditi, si ammassavano su quel carro.
“Icaro!” Lo chiamò una voce alle sue spalle.
Il giovane si voltò e riconobbe la sua amata Gaia.
Era dall’altra parte della strada e lo salutava.
Icaro allora tentò di raggiungerla, ma più correva più lei sembrava irraggiungibile.
Alla fine, vinto dalla fatica si accasciò a terra.
Alzò il capo ma Gaia non c’era più.
“Presto, tutti sulla nave!” Gridò una voce in lontananza. “A Bisanzio non c’è più la lotta attorno alle sante icone!”
“Come stai, amore mio?”
Icaro si voltò e vide di nuovo Gaia.
Stavolta era accanto a lui, ma volgeva il volto dall’altra parte.
“Andiamo a casa, Gaia.” Le disse Icaro.
“Cosa ti è successo?” Chiese lei.
“Sono stanco, gioia mia.” Rispose lui. “Ti prego, andiamo a casa.”
Lei non rispose.
“Cosa c’è, Gaia?” Chiese Icaro. “Perché non mi rispondi? Gaia! Rispondimi! Ti prego, rispondimi!” Continuava ad urlare lui.
“Gaia!” E saltò su.
Ansimava e tutto gli girava intorno.
Alzò lo sguardo e riconobbe una sagoma accanto a sé.
“Come state?” Chiese
Era una donna.
“Avete avuto un incubo, immagino.” Aggiunse lei. “Ma ora siete al sicuro.”
Icaro la fissò per qualche istante, ma non riuscì a coglierne lo sguardo, né a riconoscerne il volto.
E l’unica cosa che riusciva ad intravedere erano i lunghi capelli che le scendevano sulle spalle e sul petto.
(Continua...)