Cittadino di Camelot
Registrazione: 22-03-2011
Residenza: in una grotta tra le montagne (per davvero tra le montagne, ma la magione è assai più comoda)
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PARTE II
Kerygwel quella mattina aveva davvero perso la pazienza.
Gli uomini che le erano stati assegnati, quale scorta nel suo viaggio, ancora tremavano al pensiero del suo sguardo carico d'ira e delle sottintese, velate, minacce di una maledizione. Tranne Hanes, ovviamente, e quel maledetto capitano: Sir Heinrich!
Possibile — si chiese Kerygwel — che, ogni volta, doveva impiegare un'eternità per convincere questa gente. Eppure avrebbero già dovuto capire che lei non parlava senza ragione! Non li aveva forse avvisati per tempo, quando tre giorni prima stavano per essere sorpresi dalla tempesta e lei, nonostante l'urgenza di raggiungere Ynys Môn, consigliò loro di fermarsi a Caer Wrygion? E non era stata lei ad avvertirli della sensazione di pericolo che provava, quando, nei pressi di Lactodurum, stavano per cadere in una imboscata?
E ogni volta — pensò —, prima c'erano lo scetticismo e la derisione; poi, il timore e la deferenza, quasi fossero in presenza di una dea; e di lì a poco, neanche il tempo necessario al sole per attraversare metà del cielo, tutto veniva dimenticato. O quasi... Perché ricordavano benissimo di avere a che fare con una futura sacerdotessa di Avalon. Era quest'unica certezza che le permetteva di incutere terrore nelle deboli menti di quegli sprovveduti cadetti, e di ottenere la giusta considerazione da parte di un druido come Hanes. Sir Heinrich, invece,... si vedeva che faticava a portarle rispetto; lui badava solo al titolo nobiliare che lei portava: quello della casata del padre, che era anche un fedele — per quanto pigro, burocratico e forse pavido — alleato di re Artù.
Kerygwel si ritrovò a maledire, nuovamente, il giorno in cui si infatuò di Sir Heinrich.
Erano trascorsi solo otto mesi da allora, ma Kerygwel ricordava perfettamente quel momento. Era anche quello un giorno di pioggia e faceva freddo, nonostante fosse ancora estate. Lei stava scendendo dalla nave che l'aveva riportata in Britannia, quando un colpo di vento fece oscillare l'imbarcazione, proprio mentre si trovava alla fine della passerella, facendole perdere l'equilibrio. Non gridò, lo ricordava bene, né si spaventò. Rassicurata da una sensazione ancora nuova per lei, quasi diede per scontate le braccia robuste, che l'afferrarono al volo, e il sorriso e lo sguardo che incrociò, sollevando il suo.
Sir Heinrich era lì per lei, per ordine di suo padre, per accoglierla e scortarla fino a casa. Lei sentì solo il suo nome e non si rese neppure conto del trambusto alle sue spalle, provocato dai marinai e dagli uomini di Sir Heinrich, che tentavano di ripescare la sua accompagnatrice, un'anziana sorella di suo padre. Kerygwel si smarrì negli occhi neri del capitano, profondi quanto l'abisso su cui dicono galleggi il mondo. Neri anche i suoi capelli, scuri e lucenti quanto l'ala di un corvo. Corvine anche le sopracciglia, un po' più spesse di quelle delle genti del nord. Eleganti i tratti, che le ricordavano le statue nei templi, nelle agorà e nelle ville dei territori del Sud, meta del suo recente viaggio. E anche sotto quella dura armatura e gli abiti spessi, immaginava, il resto del corpo poteva competere con quelle sculture. Un corpo che emanava un calore che le ricordava le temperature di quelle terre felici e gli uomini che vi abitavano. In tutto e per tutto, Sir Heinrich le ricordava quelle popolazioni, salvo per il colorito della sua pelle, piuttosto chiaro.
Quando, qualche ora più tardi, le riuscì di ottenere qualche scarsa informazioni sul bel capitano, che era giunto dal lontano Tirolo — non lontano dalle terre che aveva appena visitate e quindi, secondo lei, bagnato da quello stesso mare blu e benedetto da quel clima idilliaco —, immaginò che quel colorito fosse dovuto alla lontananza da quell'ardente sole, di cui lei già rimpiangeva il calore dei raggi, che avrebbe ritrovato, pensò, nell'abbraccio di Sir Heinrich.
Ricordava, con dolore e stizza, che si riteneva la donna più fortunata del mondo. A pochi giorni dal suo quattordicesimo compleanno, il destino le aveva donato solo benedizioni: un viaggio per apprendere il sapere di quegli antichi popoli, la conoscenza di quei luoghi e di quelle genti, le prime avvisaglie del Potere che si celava nella sua mente e i primi segnali del suo corpo che la rendevano ufficialmente una donna. E, infine, l'incontro con l'uomo che, riteneva, sarebbe diventato il suo compagno per la vita.
Ma ben presto i suoi sogni dovettero fare i conti con la realtà. Sir Heinrich la notava appena.
Kerygwel aveva saputo di una dama di Camelot legata a lui da una promessa d'amore. E per quanto già la odiasse, non era lei l'ostacolo maggiore da superare, ma un assurdo voto di castità espresso dal cavaliere, in nome di uno di quei personaggi della nuova religione che rappresentavano per questi individui dei simboli o dei modelli a cui ispirarsi o a cui votarsi per esprimere il loro potenziale, le loro aspirazioni o, come riteneva Kerygwel, per celare le loro paure. Eppure anche quel muro d'ostinazione, secondo lei, avrebbe potuto cedere, prima o poi.
Tuttavia, aveva compreso quasi subito — anche se non voleva accettarlo — che Sir Heinrich non l'avrebbe mai vista come una donna, ma solo come una ragazzina.
Le aveva tentate tutte. Anche al loro arrivo alla Locanda dei Corni, suggerendogli di dividere con lei l'unica stanza libera e, magari, anche l'unico letto; ma quel maledetto capitano aveva preferito dividere il giaciglio con i suoi uomini, nelle stalle, lasciando quel privilegio ad Hanes, il druido.
Hanes...
Neppure lui accettò di dividere l'alloggio con lei. Come druido non avrebbe trovato indecente dividere la stanza, o addirittura il letto, con una giovane donna: druida, per giunta! Ma conscio delle puerili convenzioni della nuova società romano-britannica, preferì non scandalizzare il senso comune, né arrecare danno alla reputazione di Kerygwel e si trovò anche lui un giaciglio nelle stalle.
Kerygwel adorava Hanes. Da tempo, aveva appreso quanto fosse vasto il suo sapere, quanto avesse viaggiato per il mondo, e quanto potesse confidarsi con lui: sulle sue aspettative in qualità di futura sacerdotessa; sui suoi timori, soprattutto riguardo al Potere che aumentava in lei. Da lui aveva sempre ricevuto un valido consiglio, un'informazione utile o una frase comprensiva, quando, come quel giorno, si trovava a combattere contro l'ignoranza, la superstizione o la derisione.
Lo adorava e al tempo stesso lo invidiava... Invidiava il fortissimo legame di amicizia che lo legava a Sir Heinrich. Secondo quanto le raccontò Hanes, nei primi giorni dell'autunno passato, da quando si conobbero quei due, tre anni prima, s'erano immediatamente legati: più che amici; più che fratelli!
Kerygwel ricordava con rammarico di aver pensato male di Hanes, di averlo addirittura considerato un rivale in amore.
Che sciocca era stata! Non è tanto raro che due persone, due anime, siano legate tra loro a livelli superiori, da vincoli che trascendono il tempo, lo spazio e qualsiasi tentativo umano di sondarne la natura, e che, sin dal primo incontro, queste abbiano la sensazione di conoscersi da sempre.
Ed il legame tra Sir Heinrich ed Hanes era di questo tipo. Quando Kerygwel riusciva a rintuzzare l'invidia per Hanes o il risentimento per Sir Heinrich, non poteva non rimanere affascinata dall'amalgama perfetta, dell'equilibrio delle opposte tendenze dei loro caratteri, delle loro qualità e dei loro difetti. Dove Sir Heinrich era, sulle prime, riservato e diffidente, Hanes era espansivo e spontaneo in ogni circostanza. Il primo era forte ed armato di una sicurezza dettata dall'esercizio e dall'esperienza; il secondo era meno prestante fisicamente, ma armato di una sicurezza dovuta al sapere di cui era custode e al Potere della sua voce, avendo scelto il cammino del bardo e la libertà di movimento, anziché aspirare alle cariche più alte di sacerdote e capo della comunità. La sua formazione di druido, la conoscenza di migliaia di miti e tradizioni dei britanni e di altri popoli, gli conferivano un'apertura mentale, che contrastava con l'ostinata razionalità del capitano. Ma condividevano il coraggio, la disciplina, il senso del dovere, l'onesta, l'altruismo, il buonumore, l'ottimismo, la franchezza e la modestia. Tutte qualità che attiravano intorno a loro spiriti affini e che finivano col contagiare anche i più riottosi.
La loro amicizia, poi, amplificava queste potenzialità e smussava le spigolosità di certi eccessi dei loro caratteri: così, per esempio, la spiccata riservatezza del capitano e l'eccessiva schiettezza del bardo giocavano ruoli ambivalenti, influenzandosi a vicenda e sviluppando nel primo l'empatia che potrebbe renderlo un modello a cui potranno ispirarsi i futuri cavalieri e nell'altro il tatto, la finezza, la prudenza, l'abilità necessaria, che un giorno, forse, gli aprirà le porte di un regno, quale grande consigliere di un sovrano illuminato — chissà, magari dello stesso Artù!
D'improvviso i pensieri di Kerygwel furono interrotti. I suoi sensi, resi più acuti dalla disciplina druidica, avevano captato un cambiamento. La pioggia cadeva ancora copiosa, ma adesso lei percepiva una sorta di tepore: una brezza, appena accennata, era sopraggiunta. Era la conferma di quanto aveva predetto a quegli zotici che l'accompagnavano: il tempo stava cambiando, presto avrebbero rivisto il sole.
Anche Hanes aveva avvertito il cambiamento, infatti, le si avvicinò sorridendo. Ma c'era qualcosa che Hanes non poteva percepire. Un altro senso si era risvegliato in lei: quello legato al Potere e che l'avvisava del sopraggiungere di qualcos'altro. Non padroneggia ancora il suo Potere e non riusciva a decifrare quella sensazione. Non avvertiva un vero pericolo, non per sé stessa, almeno. Sentiva una forza diversa, qualcosa di naturale e al tempo stesso di minaccioso. E sentiva anche una sorta di malessere, di rimpianto o di tristezza. Era stanca di questi segnali imprecisi del suo Potere e si rinfrancò al pensierò che presto avrebbe raggiunto Ynys Môn, l'isola dei druidi; che, con il prossimo novilunio — di lì a quattro giorni —, sarebbe stata iniziata alla futura carica di sacerdotessa e che avrebbe appreso le tecniche per controllare ed aumentare il suo Potere; che, finalmente, avrebbe reso più chiare quelle premonizioni, sviluppando anche la Vista, che anche stavolta, come già in un paio di occasioni in precedenza, s'era manifestata e le aveva mostrato uno strano paio di ali, dei cavalli al galoppo, l'occhio di una lucertola, dei volti tristi, per la maggior parte sconosciuti, salvo uno. Scosse il capo per allontanare quelle fastidiose sensazioni e prese un profondo respiro, scoprendo che, mentre era investita dalle sue visioni, Hanes le aveva impedito di cadere di sella, cavalcandole accanto e trattenendola per un braccio, e che l'aria profumava di primavera e che la pioggia era cessata e il sole già faceva capolino tra le nubi.
Un ultima secchiata d'acqua e Cavaliere25 si lasciò cullare dalla nuova ondata di calore e dai vapori emanati dalla vasca, nella quale era immerso. Una vera sorpresa, questo cimelio in zinco, residuo dell'arredamento di chissà quale antica villa romana. Fin'ora la sua sosta alla Locanda dei Corni gli aveva offerto solo piaceri e promesse di nuove soddisfazioni...
Appena giunto, aveva appreso con sollievo che l'improvvisa partenza di una giovane dama gli rendeva disponibile l'unica stanza libera: sempre che non preferisse utilizzare le stalle. Ma dopo quattro giorni di giacigli umidi e duri, Cavaliere25 avrebbe speso ben volentieri una moneta d'oro per un letto decente, caldo ed asciutto. Non gli restò che consegnare il suo cavallo al ragazzo che si occupava delle stalle e aspettare che sistemassero la stanza per il nuovo ospite.
Nell'attesa gli offrirono delle focacce d'orzo e una curiosa birra, densa e scura, preparata personalmente dal locandiere, che gli raccontò di averne appresa la tecnica da un monaco, istruito a sua volta da un mercante proveniente da Iwerddon, la grande isola a occidente, che i romani chiamavano Hibernia. Il locandiere gli assicurò che era meglio berla fredda, se non addirittura gelata, ma Cavaliere25, per questa volta, preferì la versione calda e speziata, come si usava, di solito, in inverno: una delizia che gli scaldò immediatamente le viscere e il sangue. Per scaldare le ossa, invece, si avvicinò al grande camino che riscaldava e illuminava la grande sala, affollata dagli ospiti annoiati, intrappolati qui dal brutto tempo. Nel camino, inoltre, avevano appena inserito un enorme spiedo, sul quale cominciava a sfrigolare un giovane cinghiale; lì sotto, tra la cenere, cuocevano lentamente un buon numero di cipolle e di rape...
Immerso nell'acqua, Cavaliere25 pregustava quello che sarebbe stato il suo pranzo, e si abbandonò, ancor più, a quel tepore. Vinto dalla stanchezza, s'immerse lentamente anche nel mondo dei sogni, e si accorse a malapena che il ragazzo assegnatogli per servirlo, dopo aver recuperato dalla sua mano, prima che cadesse, la coppa contenente ancora un po' di birra, e dopo aver aggiunto ancora un ceppo nel caminetto, si allontanò dalla stanza — in silenzio, se si esclude il leggero cigolìo di un secchio.
È buio. C'è silenzio, o quasi... C'è il crepitìo di un fuoco, da qualche parte. Poi, d'un tratto, l'oscurità è animata da uno sciame di scintille. S'innalzano disperdendosi in tutte le direzioni, poi ricadono, spegnedosi. Il crepitìo si fa più vicino, o più forte, e di nuovo c'è un'esplosione di scintille. Ma stavolta, non fanno in tempo a dileguarsi che un'altro sciame di scintille sopraggiunge; e poi ancora un altro; e un altro ancora. Finché il crepitìo si trasforma in un ruggito di fiamme e l'oscurità di ritrae in qualche angolo. Tutto è un vorticare di fiamme, ormai. Poi, le fiamme prendono forme inusuali. Ed ecco un drago. Ed ecco un cavaliere... Noooo!
Cavaliere25 si svegliò di soprassalto.
"Ancora quel maledetto incubo!" — pensò — "Ancora quella maledetta cantilena!". E quel che era peggio, s'era svegliato con una sensazione di ansia e di urgenza...
"...urge il vostro aiuto, e non sarà invano!"
Mentre s'asciugava e si rivestiva in tutta fretta, aiutato dall'inserviente sopraggiunto di corsa — fatto che gli suggerì che probabilmente aveva urlato nel sonno —, maledì chiunque fosse il responsabile di quel tormento, maledì quelle dannate voci e maledì sé stesso che dava loro retta.
Ritornato nella sala, trovò il locandiere, che, preavvisato dell'accaduto, lo accolse allarmato, temendo che il cavaliere si lamentasse di qualche sua mancanza o peggio.
Cavaliere25 impiegò del bello e del buono per convincerlo che non vi erano lamentele da parte sua — anzi! —, e su due piedi inventò una scusa: la stanchezza gli aveva giocato un brutto scherzo... e tutto ad un tratto si era reso conto che il suo viaggio era durato più di quanto si fosse immaginato;... che era in ritardo e doveva raggiungere al più presto Caer Liwelydd, per un impegno che aveva preso.
Il locandiere si tranquillizzò solo quando Cavaliere25 gli allungò una moneta d'argento, per il disturbo, due monete di rame per i ragazzi che avevano servito lui e accudito il cavallo, e altre tre monete di rame per quattro di quelle sue focacce, un paio di quegli ortaggi cotti nella cenere e una bella fetta d'arrosto, da portare via con sé.
"Andrete a Nord, dove siete nato;..."
In fin dei conti non aveva mentito al locandiere. La sua direzione era Caer Liwelydd, Luguvallium per i romani: la stessa strada che portava al regno "liberato", il Rheged, la sua terra natale.
Cavaliere25 lanciò ad un galoppo sfrenato il suo destriero, si sentiva ancora sospinto da una forza che gli imponeva di fare più in fretta. La veloce andatura, però, non faceva che aumentare le sferzate di pioggia che ancora cadeva copiosa. Proseguì così per molto tempo, poi, d'improvviso, al bivio per Caer, il cavallo si oppose ai suoi comandi, rallentò e si fermò, sbuffando...
Niente. Qualsiasi tentativo di spronarlo sembrò inutile: anche quando riusciva a farlo avanzare di un paio di passi, immediatamente arretrava.
Scese da cavallo ed estrasse la spada, pensando che tra gli alberi che costeggiavano le strade vi fosse un animale o qualcos'altro che spaventava il suo cavallo.
Ispezionando cespugli ed alberi, non poté fare a meno di pensare a come molte strade del regno fossero ancora in abbandono. Ai tempi dei romani, un bivio come quello sarebbe stato presidiato da un paio di soldati della non lontana fortezza. Le vie di comunicazione sarebbero state molto più frequentate e in un angolo dell'incrocio ci sarebbe stato un piccolo tabernacolo dedicato a una qualche divinità dei viandanti e di fianco, magari, un contadino che vendeva i suoi prodotti.
Artù avrebbe fatto altrettanto e meglio, se i suoi uomini, già poco numerosi, non fossero necessari per presidiare le coste e, soprattutto, il confine sud-orientale, dove i sassoni tentavano in ogni modo di sconfinare ed occupare altre terre.
Assorto nei suoi pensieri, si accorse solo dopo un po' di tempo che la pioggia era dapprima diminuita e poi cessata del tutto. Riuscì a vedere con più chiarezza, potendo così notare che un idolo c'era ancora, anche se talmente rovinato da non permettere di distinguere se si trattasse di una divinità romana o precedente. Notò anche, nell'ombra alle spalle dell'idolo, una piccola nicchia ricavata tra le radici di un albero. C'era un ciotola con delle offerte di cibo, recenti: qualcuno ancora si ricordava dell'Oscura Signora e le chiedeva protezione.
Tornò al suo cavallo, rinfoderando la spada, sperando che il suo destriero fosse più calmo e riprendesse il cammino.
«Di là andati sono!» — disse una voce stridula alle sue spalle.
Cavaliere25 si girò di scatto, portando nuovamente la mano all'elsa della sua arma, ma la fece ricadere quasi subito. Dall'ombra, tra gli alberi, dietro l'idolo che aveva intravisto poco prima, sbucò una vecchia donna, minuta, vestiva un'ampia veste e un mantello con cappuccio, entrambi di color verde scuro: abiti poveri, ma dignitosi; ai piedi calzava dei sandali di corda, piuttosto consumati. Leggermente curva, si appoggiava ad un bastone, un ramo nodoso e spesso. Si osservarono a lungo, in silenzio. Cavaliere25 pensò di avere di fronte un'antica abitante delle montagne di questa regione: un'appartenente all'antico popolo, come venivano chiamati. La vecchia aveva dei capelli nerissimi, appena striati di bianco, e il volto, dalla carnagione olivastra, era scavato da rughe profonde, tra le quali spiccavano gli occhi, come socchiusi a fatica. Ma dietro le pesanti palpebre, brillavano delle iridi, nere, scure e vivaci.
«Di là, andati sono!» — ripeté di nuovo la vecchina, rompendo il silenzio e indicando col dito alle spalle del cavaliere. «Passato non è molto tempo! Persi non avete, coloro che indietro lasciato vi hanno!»
«Di chi parlate?» — chiese Cavaliere25 — «Non ho perso nessuno. E la mia strada è quella, in direzione di Caer Liwelydd.»
«Ciò che voi credete, questo è!» — sentenziò sghignazzando — «Di là, detto vi ho! Là, andati sono, e là andare dovete!» — aggiunse, continuando a sghignazzare.
«Mi spiace, signora! Mi confondete con qualcun altro!»
Pensando che la povera donna non fosse tanto sana di mente, Cavaliere25 la salutò cordialmente, montò a cavallo e cominciò ad allontanarsi al passo.
«Urge il vostro aiuto, e non sarà invano!» — disse a voce alta, alle sue spalle, una voce che non era più quella stridula della vecchina, ma quella della donna del suo incubo.
Si voltò di scatto, ma vicino all'idolo non c'era più nessuno.
"...un luogo vi sarà indicato"
"Ci risiamo!" — disse tra sé Cavaliere25, serrando le mascelle. Poi, con un sospirò e una nuova sensazione d'urgenza, prendendo il cammino alla sua sinistra — la strada che porta a Caer, all'antica Deva, la fortezza dei romani —, spinse di nuovo ad un galoppo sfrenato il suo destriero.
Kerygwel si era ripresa dai postumi della visione. Cavalcava quasi in testa al gruppo, subito dietro Hanes e Sir Heinrich, che procedevano al piccolo trotto. L'aria, divenuta fresca e profumata, la rinvigoriva e il sole di quella tarda mattinata, alle loro spalle, faceva splendere ogni cosa sul loro cammino, fino all'orizzonte. Anzi, curvando nuovamente verso nord al bivio che incontrarono uscendo da un piccolo bosco — seguendo la strada, anziché il largo sentiero che portava verso ovest —, vide proprio davanti a sé che c'era qualcosa che mandava dei riflessi, rimanendone abbagliata: qualcosa di metallico, probabilmente.
Quando si avvicinarono un po' di più, scorsero un piccolo carro, che si avvicinava, muovendosi in direzione opposta alla loro. "Un mercante" — pensò Kerygwel.
Di lì a poco, la sua intuizione si trasformò in certezza, e il gruppo già distingueva nitidamente il mercate che faceva loro gesti per attrarre l'attenzione ed invitarli a fermarsi. Era un omino buffo, grassoccio, dal viso rotondo e roseo, con capelli folti e ricciuti, ma presenti solo sui lati del capo. Era alla guida di un carretto che traboccava di mercanzie di ogni genere, tra le quali abbondavano suppellettili in metallo. Ma non era da lì che provenivano i bagliori notati poco prima, ma dal medaglione e dalla spessa catena che portava al collo: poteva sembrare d'oro, ma Kerygwel ne dubitava.
E in quel momento accadde...
Kerygwel dapprima fu investita da una sensazione fortissima, come un'onda improvvisa, che sapeva di forza, di curiosità e di ancestrale memoria. Poi, un'ombra calò su tutti loro con un fruscìo assordante, trascinando con sé un vento freddo e un odore pungente. Kerygwel fece in tempo a scorgere due strane ali. Ne intuì la direzione e guardò verso il carro del mercante. L'omino era sparito, ma si udivano le sue grida: provenivano dall'alto. Tutti insieme guardarono in su e ammutolirono dallo stupore: un drago!
Kerygwel avrebbe urlato per la meraviglia, ma le mancava l'aria. Era uno spettacolo incredibile. Un drago! Stava vedendo un drago! Pesava non ne esistessero più... E pensava a quando lo avrebbe raccontato a tutti gli altri sull'isola dei druidi.
Intanto, dopo aver afferrato il povero mercante, il drago aveva iniziato a girare in tondo sopra di loro e continuava a dare occhiate alla creatura che gridava e si dimenava tra i suoi artigli, avvicinando di tanto in tanto la sua testa all'omino. Poi, prese una decisione: addentò la testa del mercante; fece pressione; si udì netto il secco infrangersi delle ossa del cranio; poi, la staccò con decisione; volteggiò ancora un paio di volte sul posto; e infine scelse una direzione e si allontanò.
Ripresosi dalla meraviglia e riottenuto il controllo del suo cavallo, che dall'arrivo del drago aveva cominciato a scalciare e a imbizzarrirsi, Sir Heinrich attirò l'attenzione dei suoi uomini e impartì loro degli ordini: «Portate Lady Kerygwel a Segontium, il più in fretta possibile. Non fermatevi per nessuna ragione. Lì troverete dei druidi che l'aspettano con una barca. Affidatela a loro. Poi, andate a Deva: ci ritroveremo lì,... spero!»
Le ultime parole giunsero loro come un'eco lontana, perché Sir Heinrich e Hanes era già partiti al galoppo, inseguendo il drago, che si era diretto, zigzagando nel cielo, prima verso sud e poi a occidente, verso la piccola catena montuosa chiamata Y Berwyn.
Quando, con il suo cavallo ancora lanciato al galoppo, sbucò dalla curva della strada che usciva da un piccolo boschetto, Cavaliere25 non si aspettava di certo un imprevisto così bizzarro. Aveva appena cominciato a distinguere un gruppo di persone ferme sulla strada, quando scorse un'ombra improvvisa sopra di lui; poi, fu raggiunto da una folata di vento improvviso e infine fu investito da una pioggia di sangue.
"...Sangue dal cielo."
Il suo cavallo si arrestò di colpo, si imbizzarrì e cadde di lato, rovinando a terra. Cavaliere25 riuscì a non rimanere schiacciato dal suo destriero, ma rimase con un piede bloccato sotto la sella. In quel mentre, sopraggiunsero velocissimi due uomini a cavallo che superarono con un balzo lui e il suo destriero e, sempre al galoppo, giunsero al bivio nei pressi del boschetto e svoltarono a destra, verso ovest, verso le montagne. Comprese che stavano inseguendo qualcosa. E quel qualcosa stava volando davanti a loro: un drago!
«Alla fine un maledetto drago c'era per davvero!» — disse a mezza voce, mentre tra sé realizzò che stava vedendo un drago, il suo primo drago, e che esistevano dopo tutto.
Si liberò quasi subito dal suo cavallo che si rialzò contemporaneamente a lui. Vi montò sopra e guardò in direzione delle persone che aveva scorto in precedenza. Sembrava che stessero per ripartire. Tra di loro gli parve di distinguere una ragazza che guardava nella sua direzione. D'un tratto lei alzò il braccio destro e punto l'indice verso i due che si allontanavano inseguendo il drago. Cavaliere25 non aveva bisogno di un altro suggerimento, aveva già compreso in quale direzione avrebbe dovuto andare. Fece un cenno col capo e si allontanò al galoppo cercando di raggiungere gli uomini che lo precedevano e il drago.
(continua)
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Se a ciascun l'interno affanno si leggesse in fronte scritto, quanti mai, che invidia fanno, ci farebbero pietà! (Metastasio) 
Ultima modifica di Emrys : 02-09-2011 alle ore 15.57.49.
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