Capitolo IV: Mirabole
“La sola differenza era che quel giorno si sarebbe esibito col nome che meglio si addiceva al suo personaggio. E di fronte allo specchio, Scaramouche si inchinò al proprio riflesso.”
(Rafael Sabatini, Scaramouche)
Le pareti bianche, foderate con tessuti dal raro panneggio e dalle screziature auree, accoglievano, per poi frastagliare e riflette ovunque, i mille e più bagliori che dalle candele filtravano poi attraverso i cristalli di Boemia, i vetri di Murano e gli intarsi sulle specchiere, sulle sedie e lungo gli sfarzosi mobili della sala.
Le note del valzer attraversavano la sala, traendone atmosfera d'altri tempi, facendo poi volteggiare abiti, gioielli e sguardi che si perdevano in quei balli fatti di bellezza e fasto.
La tavola era imbandita a festa, con pietanze preparate con straordinaria maestria ed elisir colorati e dall'esotico aroma, il tutto servito da valletti abbigliati sfarzosamente.
Gli invitati avevano quasi tutti preso posto e ormai la cena stava per cominciare.
A quello sguardo di Talia, che non ammetteva repliche, Jacopo salutò Azable e si congedò da lui.
Con sua moglie allora raggiunsero la tavola e presero posto fra gli altri invitati.
Nel vederli arrivare e sedersi, il Cavaliere di Altafonte restò per un attimo a fissarli.
Poi, rispondendo ad un cenno col capo di Jacopo, si alzò, salutò con un lieve inchino ed attese che Talia si accomodasse.
Prese allora il suo calice e fece come a voler brindare.
“Alla bellezza” disse sorridendo “delle dame di questa terra di poeti ed artisti... e di come noi poveri mortali ne siamo affascinati...”
“Siete un adulatore nato, milord!” Esclamò divertita Silvia. “Un simulatore di galanteria da cui ogni dama dovrebbe ben guardarsi!”
“Mi ritenete così pericoloso, milady?”
“Non so...” fissandolo Silvia “... ditemelo voi... devo?”
“Oh, ma è lo schiavo” rispose Altafonte “che deve temere gli umori della sua padrona.”
“Dubito” fece Silvia “che esista una donna in grado di potersi vantare come vostra padrona, milord!”
“Mai, milady, come stasera ho più padrone di quante non ne trovò Teseo fra le Amazzoni.” Sorridendo il cavaliere. “E invero, posso dire, non rinuncerei a questa mia cattività per nulla al mondo.”
“Allora siete disposto ad esaudire ogni mia richiesta?” Chiese Silvia.
“Non potrei oppormi a questo, milady.”
“Allora rivelateci da dove nasce la vostra ricchezza, cavaliere!”
“La vostra richiesta è dunque solo questa?” Ridendo Altafonte. “Sono fortunato allora... fortunato, quasi, come il nostro capitano...” guardando prima Jacopo e poi Talia.
Il sentiero sul sonnolento colle nel Petroniano, a poche miglia dalla via per Barberio dell'Elsa, si inerpicava fin sulla vetta, sulla quale sorgeva la bella cappellina.
Quel poco di nobiltà che ora restava a quel luogo veniva ormai solo dalla caratteristica forma di quella cappellina, piuttosto che dall'austerità e dal silenzio di qualche antica muratura lasciata in balia di sterpi e rovi.
Lei aveva già montato la sua tela e sistemato i suoi pennelli.
Si chinò allora per prendere un fiore, ma quello perse subito due petali.
“Mi chiedo” disse all'improvviso lui, apparendo alle spalle di uno dei cipressi “cosa tu ci possa trovare in un posto come questo... è silenzioso, solitario... quasi malinconico...”
Lei si voltò di scatto.
“Dovevi rivelare la tua presenza...” infastidita.
“Non pensavo di spaventarti.” Sorridendo lui.
“Non mi hai spaventata.”
“Cosa stai dipingendo?”
“Il paesaggio...” rispose lei, tornando a fissare la sua tela “... adoro questo luogo...”
“Io non ci vivrei neanche da fantasma...” fece lui “... anzi, credo che qui ce ne siano già abbastanza di fantasmi...”
“Dovresti tacere” quasi sprezzante lei “su cose che non conosci...”
“Davvero, signorina so tutto io?” Sarcastico lui.
“Forse dovresti tornartene dalle tue parti” sbottò lei “visto che non apprezzi le nostre terre...”
Lui rise e si avvicinò alla ragazza.
Prese quel fiore e i suoi petali caduti per poi stringerlo nel suo pugno.
Ci soffiò sopra, le fece l'occhiolino e le mostrò allora il fiore ormai intatto.
“Magia...” mormorò e si lasciò cadere ai piedi di quel cipresso, per poi prendere la sua ocarina.
“Qui, tempo fa, sorgeva una grande e ricca città...” mormorò lei “... una città che oggi non esiste più...”
Lui smise di suonare e cominciò a fissarla.
“Venne distrutta a causa della sua ambizione” continuò lei “e da allora nessuno osa più costruire su questo colle... fatta eccezione per la piccola Cappella di San Michele...” aveva iniziato a dipingere “... la gente di quella città, però, sentendo la fine vicina e intenzionata a non lasciare le sue ricchezze al re di Sygma, decise la notte prima della distruzione di far uscire il suo immenso tesoro dalla città... nascondendolo poi da qualche parte qui intorno... nessuno però è mai riuscito a trovarlo...”
Lui ascoltò senza dire nulla e quando lei finì di raccontare solo un profondo silenzio avvolse quel luogo.
“Forse la malinconia...” quasi sussurrando lei “... è l'unica cosa che sentono i fantasmi...”
I lunghi capelli chiari scesero così sul suo volto, quasi a volerne celare lo stato d'animo.
Lui allora si alzò e si avvicinò alla tela.
Le posò sulla mano il fiore che aveva accomodato e delicatamente poi spostò quei capelli dal suo volto, restando a fissarla.
Per un istante i loro occhi si unirono.
Poi lui la baciò.
E solo quello schiaffo ruppe, per un momento, il silenzio di quel luogo.
“Perchè l'hai fatto?” Gridò lei con rabbia. “Perchè?
E corse via.
Lui allora restò a guardarla andare via, per poi tirare fuori da una tasca i petali che aveva finto di ricomporre sul fiore...
“La magia” continuò Altafone “non è differente dalla ricchezza... qualcuno afferma che entrambe hanno origini diaboliche... come ho accumulato la mia ricchezza? Semplice... come Faust ho venduto la mia anima al diavolo...”
“Oh, voi amate troppo prendervi gioco di noi, milord!” Scuotendo il capo Silvia.
Altafonte allora sorseggiò altro vino.
Un servitore del banchiere poi gli si avvicinò, porgendogli, con discrezione, il biglietto di Altea.
Lui lo aprì e vi gettò un'occhiata veloce.
Lo richiuse, lo ripose in una tasca e poi fissò Altea sorridendole.
“Brindo ora ai veri cavalieri” alzando ancora il suo calice “e alle dame in pericolo che loro amano salvare...” sorseggiò ancora “... in cosa mi piace dilettarmi, damigella?” Rivolgendosi poi a Eilonwy. “Beh, in verità, amo le cose più piacevoli della vita... adoro il gioco... il buon cibo... il vino pregiato... le arti... e naturalmente la bellezza in tutte le sue forme... e voi” sorridendo alla fanciulla “ne siete uno straordinario e vivace modello... e se dovessi paragonarvi ad un'eroina di qualche poema, non esiterei a descrivervi come la mitica principessa Arianna...” e le mostrò un lieve inchino col capo.