Discussione: Personaggi Donne nel Medioevo
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Vecchio 19-03-2014, 15.39.00   #187
Taliesin
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STREGHE DELLE PAURE, ANIME DEL PARADISO: BISSAGA DI BRIANZA

Storia idealmente dedicata al moderno e antico pupazzo di fuoco della Giubiana, eterna rimembranza di coscienze e di paure stregate e mai assopite, nel calore di una famelicità di sangue di donna mai domo..

Attingendo al termine latino striga, ovvero uccello notturno o arpia, l'avvento del Cristianesimo battezzò, ricoprendolo di fango, un ruolo sociale fino ad allora altamente considerato, al punto che in età pagana si parlava genericamente di maghe o sibille dai grandi poteri profetici.

Nell' Europa religiosa e post-classica si assitse così ad una graduale escalation persecutoria, che raggiunge il suo climax in età medievale. La fervida immaginazione delle società contadine, attizzata sapientemente dalla Chiesa, si lanciò spesso in voli pindarici, associando alla figura della strega i peggiori tabù e vizi che le si potessero attribuire: fosse essa una vecchia dall'aspetto ripugnante o una donna attraente, ciò che la rendeva un pericolo agli occhi della comunità era la forte predilezione per le arti occulte, unita all'estrema licenziosità dei costumi sessuali.

Era credenza consolidata che al calar della sera, quando gli abitanti del villaggio si ritiravano nelle loro case, la strega uscisse di nascosto per partecipare ai sabba, eredi moderni degli antichi rituali dionisiaci, sul modello dei baccanali dell'Antica Roma.

Nel caso specifico della diocesi di Como, fu la bolla papale Summis Desiderantes di Innocenzo VIII, seguita nel giro di tre anni dal Malleus Maleficarum (1487) dei due frati domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer, a inasprire i provvedimenti contro le eresie.
Testo profondamente misogino e privo di qualsivoglia onestà intellettuale (al punto che si attibuisce al termine femina la falsa etimologia di fe + minus = meno fede), il Malleus argomentava la maggior propensione delle donne a cadere nelle trappole di Satana con una presunta inferiorità intellettiva e debolezza caratteriale. Nella seconda parte del trattato i frati tedeschi illustravano la casistica in base alla quale l'inquisitore doveva modulare i suoi provvedimenti, come si riconoscevano i segnali di stregoneria e quali tecniche di tortura dovevano essere adottate per ottenere una confessione.

Scrive Giuseppe Arrigoni in «Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe», documentando il clima di terrore che si respirò negli ultimi decenni del XV secolo lombardo:

«Contribuivano a rendere infelice quell'età le superstizioni religiose, avanzi delle credenze gentilesche. Era persuasione generale che il diavolo patteggiasse cogli uomini e singolarmente con vecchie brutte, sì che avessero sovrannaturale potere di far bene e male, si convertissero in gatti e in altri animali, menassero “danze col demonio”, calpestassero l'ostia consacrata, scavalcassero i monti e gissero per l'aria a sollazzo. Molti maliardi, lamie, sortilegi, indovini, negromanti, fattucchieri, prestigiatori, eretici e sospetti furon vittime della superstiziosa credulità , furon messi alla tortura e arsi al rogo. Le cagioni di quelle immanità e barbarie stanno principalmente nel fanatismo di quei tempi; ma in gran parte però le rimote cause motrici di tanti incomprensibili processi di maghe e di giurate testimonianze di diaboliche seduzioni non sono preanco venute in chiara luce istorica, né vi verranno se prima non si pubblichino gli atti di tali cause magiche».

Il fanatismo dei frati domenicani d'Oltralpe si scatenò sensibilmente, come attestato nel Malleus stesso, nel Nord Italia, e in particolar modo nei territori di Como, Bergamo, Brescia, Cremona, la Val Camonica, la Valtellina e il Friuli. Il ramo lecchese invece, come conferma il testo «I nostri vecchi raccontano: storie, leggende e fiabe del territorio lecchese» di Felice Bassani e Luigi Erba, era utilizzato come punto di raccolta e smistamento delle streghe provenienti dall'alto Lario e dalla Valtellina. Nel XV secolo, nel giro di un mese, ben trecento donne furono imprigionate e, dopo un processo sommario, mandate a morte; fra queste quarantuno furono rastrellate in un'unica retata, compiuta nel 1486 sulle direttive di un inquisitore locale.

Secondo la consuetudine germanica, prima di essere bruciate, le streghe comasco-lecchesi vennero rasate integralmente, anche nelle zone più intime del corpo, in quanto gli inquisitori più incalliti credevano che sotto le ascelle le vittime potessero nascondere una “stregoneria” che le tutelasse dalle fiamme.
A tal proposito il crudelissimo Sprenger era solito far rasare a zero i capelli delle vittime e in seguito versare in una tazza di acqua santa una goccia di cera benedetta, da far bere alle stesse per tre volte e a digiuno, allo scopo di liberarle dal demonio.
Dopo un periodo di relativa clemenza dell'Inquisizione, motivato dalla necessità dell'alto clero italico di far fronte a ben altri problemi, originati dalla Riforma protestante, nella seconda metà del XVI secolo l'accanimento contro la stregoneria riprese con una violenza inaudita, come documentano numerose testimonianze rinvenute nel lecchese.

Nel testo di Silvia Battistelli «Leggende e storie brianzole» si accenna a come lo stesso Carlo Borromeo, nel 1567, fu coinvolto in una feroce caccia alle streghe in risposta alle ripetute invocazioni dei parroci della zona, che credevano davvero nelle capacità di queste donne di compiere malefici e che le incolpavano di alcuni delitti perpetrati ai danni di alcuni nobili della zona.

Recita la lettera del prevosto Rattazzi, assai allarmato per la situazione ingestibile della sua parrocchia:
«E una fu presa fra le altre che confessò senza nessun mortorio, che aveva uccisi venti fanciulli col succhiare il sangue loro e come trenta ne salvasse dando al diavolo un membro di bestia in luogo di quello dei fanciulli, dato che si conveniva portarne il membro al diavolo per sacrifizio. E più ancora confessò che ella aveva morto il suo proprio figliolo facendone polvere, che dava a mangiare per tali faccende. Disse pure del modo come ella andava innanzi dì, nel rione di Acquate, con certi bossoli di unguento fatti d'erbe, che erano colte il giorno di Santo Giovanni e de la Ascensione: fattone odorare al nobile Airoldi, questi subito morì».
Carlo Borromeo intervenne spesso in modo rigoroso e intransigente non solo a Lecco ma anche in Valsassina, territorio tradizionalmente popolato da streghe e stregoni.
Al di là di coloro che, pur non avendo commesso alcun delitto, ammisero le loro colpe e giurarono un profondo pentimento, le altre vennero condotte a Milano e lì giustiziate.

La storia più famosa a livello locale è quella di una certa Bissaga, ovvero donna di biss (serpenti), originaria di Tartavalle in Valsassina: servendosi delle sue arti magiche, la donna aveva sedotto il signore del castello di Marmoro, una rocca difensiva situata nella piana di Parlasco.
Frutto del loro amore furono un ragazzo, che venne riconosciuto dal padre e andò ad abitare con lui, e una ragazza, anch'essa strega, che invece restò nella casa della madre.
I due fratelli si innamorarono l'uno dell'altra ma il matrimonio venne loro impedito; così, desiderosa di vendetta, la ragazza trasformò la strada in una bissera (si noti il gioco di parole) piena di tornanti, dalla quale il vecchio padre precipitò, finendo in uno strapiombo insieme al cavallo.
Il Borromeo fece trascinare la Bissaga a Milano e la condannò a morire bruciata nella piazza XX settembre: il rogo fu accompagnato dall'ovazione popolare.

Le persecuzioni contro le streghe, almeno parzialmente originate dalla necessità di tutelare la cultura dogmatica ufficiale della Chiesa, la quale non poteva ammettere la coesistenza di dottrine alternative basate su rituali magici, non furono tuttavia in grado di estirparle del tutto dall'immaginario popolare.

Seppur in modalità differenti, questo culto sopravvive ancora sottoforma di folclore locale, soprattutto nelle zone di campagna. I territori che lo conservano più fedelmente in Italia sono il biellese, il canavese, il Trentino, il comasco, alcuni paesi della Liguria e delle Marche e, infine, la provincia di Benevento.

La miglior rappresentazione nostrana delle streghe, quelle che popolavano le leggende e i racconti dialettali scambiati nelle serate d'inverno al tepore delle stalle, si trova nell'articolo pubblicato da Andrea Orlandi nel 1929 sulla rivista “All'ombra del Resegone”:
«Per lo più erano donne vecchie, brutte, mal in arnese, dagli sguardi e dalle mosse sospette. La maga poteva nuocere in più modi: se avesse lanciata una sentenza contro qualcuno, a quel tale incoglierebbe sventura; perché la strega si rivelasse, bastava gettare un quattrino della croce nella pila dell'acqua santa: la mala femmina si sarebbe aggirata perplessa e inquieta pel tempio, non trovando più il verso d'uscire; ma chi avesse tentata quella sorte, incorreva in molti pericoli e nelle stesse pene canoniche: ond'era preferibile astenersene.
Volete conoscere chi ha malefiziato il vostro bambino? Mettete i panni dell'infelice in un paiolo, e questo a bollire: vi comparirà la colpevole; vi sarà facile punirla e imporre a lei che sperda il sortilegio; senonché l'evocazione può causare inconvenienti gravi; e la si è sempre sconsigliata».

Strettamente legata alle terre brianzole e canturine è la figura leggendaria della Giubiana (o Gibiana), rappresentata, in tutti i racconti popolari trasmessi oralmente di generazione in generazione, come «una donna vecchia, molto grande, vestita di bianco, che faceva passi lunghissimi».

Amante delle passeggiate nei boschi, questa befana sui generis «metteva un piede su un sasso ed un altro molto più lontano, oltre le stalle»; essa appariva nella nebbia fitta e spaventava a morte i bambini del posto.
In realtà, tradizionalmente non si trattava di una strega. Ottorina Perna Bozzi precisa in «Brianza in cucina» che il termine Giubiana deriva dall'espressione brianzola Giubbiana, che significa allo stesso tempo “fantasma” e “giovedì”. Vi è dunque ragione di ritenere veritiere le ipotesi di quegli studiosi del folclore locale che videro nella festa della Giubiana la celebrazione delle donne non più giovani, che si teneva l'ultimo giovedì del mese di gennaio, in concomitanza con i giorni della merla. In quell'occasione le donne si radunavano tutte insieme, rallegrandosi per la conclusione della stagione della semina e la Giubiana, il fantasma femminile sottoforma di fantoccio, veniva bruciato sul rogo. Naturalmente, ben chiara è l'allusione ai roghi in cui persero la vita tantissime donne in carne e ossa, nel Medioevo così come in pieno Rinascimento; tuttavia è diffcile ricostruire un nesso causale e soprattutto capire in quale periodo storico la Giubiana si trasformò in strega.

E' ben noto che nel mondo della Brianza pre-industrializzata il calendario veniva plasmato sui ritmi della vita contadina, che di anno in anno scorreva ciclicamente, alternando a periodi di massimo impegno della famiglia patriarcale qualche momento di riposo, necessario per rinfrancare gli animi.
Bruciare il fantoccio della Giubiana aveva dunque un significato propiziatorio e permetteva di esorcizzare le sventure dell'anno appena trascorso.
Il calore del fuoco si portava via la strega vecchia e brutta, simbolo dell'inverno che volgeva al termine; in base a come la Giubiana bruciava, le comunità ne traevano buoni o cattivi auspici.
Attualmente, la festa della Giubiana viene celebrata in parecchi Comuni dell'Alta Brianza e del comasco, ma una delle ricostruzioni più fedeli alla tradizione è quella di Canzo, dove l'ultimo giovedì di gennaio di ogni anno la strega viene trascinata in corteo per le vie del centro storico, accompagnata da una scia di fiaccole e da una serie di personaggi allegorici: il pastore che suona il corno; il boscaiolo con gli attrezzi del mestiere; il carretto con l'asino, sul quale il boia custodisce la Giubiana prigioniera; Barbanera con i biglietti della lotteria; l’Uomo selvatico, antichissimo simbolo della cultura alpina che vive in armonia con il bosco e che conosce i segreti della natura;l'avvocato delle cause perse e i testimoni del processo; i bambini dal viso colorato di bianco e nero, a simboleggiare il bene e il male; l’Anguana, misteriosa fata benefica, simbolo dell'acqua come elemento vitale femminile; l'orso che esce dalla tana, simbolo della forza istintiva dei cicli della natura che non può essere domata.

Al termine della fiaccolata, la Giubiana viene portata nella piazza del mercato dove subisce il processo, rigorosamente in dialetto canzese. Salvo colpi di scena, la sentenza è sempre la stessa: una riconosciuta colpevolezza che viene espiata sul rogo, sotto gli occhi di tutto il paese.

Taliesin, il Bardo

tratto da: www.leccoprovincia.it
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"Io mi dico è stato meglio lasciarci, che non esserci mai incontrati." (Giugno '73 - Faber)
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