Elisabeth entrò in quella stanza e due cose furono ad accoglierla.
La fitta penombra, squarciata a stento solo dal debole pallore di una candela ed il suono di un'arpa.
Un suono melodioso ma non invadente, leggero eppure intenso, enigmatico e nello stesso tempo rassicurante.
Un suono fatto di note simili a parole che raggiunsero subito l'animo di Elisabeth con l'effetto di appagarlo.
Appagarlo dalla malinconia e dalla paura.
E appena la falsa Symoin oltrepassò quella soglia, come accolta da criptico limbo, si sentì inspiegabilmente parte di tutto ciò.
La musica si interruppe di colpo e la donna avvertì qualcosa, come un verso, un gemito.
Una sorta di latrato, di lamento quasi bestiale, come se in quella stanza ci fosse un animale, probabilmente un cane.
Allora altre candele si accesero di colpo e l'ambiente si liberò di quella indecifrabile penombra.
“Mia cara...” avanzando verso di lei un uomo “... vi attendevo... ogni castello, ogni giaciglio non può dirsi vivo se manca la sua signora...” le sfiorò la mano e la baciò.
Era un uomo dal fascino misterioso.
Qualcosa di mutevole e sfuggente animava i suoi occhi.
“Se gli antichi greci vi avessero conosciuto” aggiunse fissandola negli occhi “vi avrebbero di certo innalzata al ruolo di dea... dea della bellezza...” sorrise appena “... come vedete nella vostra attesa mi diletto con la musica per non divenire folle...”