Gwen cenò in quella locanda, per poi salire al primo piano e rinchiudersi in una delle camere in affitto.
Qui trascorse la notte, che passò rapida e serena, svegliandosi poco dopo l'albeggiare, a causa delle voci che dal cortile sottostante salivano fin verso le finestre del primo piano.
L'odore di pane caldo già invadeva lo spiazzo antistante la locanda, dove un vecchio e fumoso forno di campagna la faceva da padrone.
Ed attorno ad esso, anche per scaldarsi in attesa di una pagnotta appena sfornata, si erano radunati alcuni dei clienti e dei passanti, vivacizzando la mattinata con le loro chiacchiere.
E tutto ciò era udito da Gwen fin nella sua camera.
Ma tra tutte quelle voci, confuse, sgraziate, accavallate ed in parte incomprensibili, sembrava distinguersi quella rauca ma chiara e quasi melodica di un mendicante che si spacciava per cantore, o forse viceversa.
Egli parlava strimpellando il suo strumento a corde, riuscendo ad ottenere una discreta attenzione dalla marmaglia che lo circondava.
“Molti credono sia solo una leggenda...” disse accarezzando il suo strumento “... alcuni hanno sentito questa storia da piccoli e crescendo hanno fatto finta di non crederci più... ma essa è vera... e come tutte le cose reali vive, pulsa ed agisce a dispetto di ciò che credono gli uomini... parlo della Gioia... della Gioia dei Taddei... l'oscura maledizione che da secoli flagella i suoi membri quando cedono agli incanti di Amore... è la triste e folle storia dei Taddei, a cui una malefica maledizione impone di vivere senza Gioia...”