Pirros sorrise a Tessa.
Era costui uno di quegli uomini avvezzi a compiacersi di se stessi, di sentirsi in diritto, per il grado che la società gli aveva conferito e le ricchezze derivanti da tale ceto, di poter ambire a tutto ciò che ispirava la sua dubbia moralità e volubile volontà.
Soprattutto per il fatto che uno dei suoi protettori, quel Gvineth così simile ad un Eurimaco giunto ad Itaca attratto dal talamo di Ulisse, nutriva verso Pirros una tal fiducia da affidargli la direzione di queste prigioni così colme di ospiti poco graditi e ancor meno raccomandabili.
E dunque dietro quel sorriso compiaciuto, gli occhi chiari ed ingannevoli, i capelli di un chiarore comune, il sorriso accomodante ed i gesti così intrisi di sicurezza in se stesso, Pirros celava pensieri ed intenzioni che ben si legavano ai costumi e alle tendenze che ora dominavano a Capomazda.
“Purtroppo” disse ad alta voce, in modo che la ragazza, nonostante si fosse avviata già all'uscita, potesse sentirlo bene “non mi è consentito assentarmi troppo da questo luogo. Magari mi porterete voi quegli annali. Così da poterci anche rivedere...”
Così Tessa uscì finalmente da quell'infelice luogo, trovando il curato Pipino sul suo carro ad attenderla.
I due così partirono, lasciandosi dietro quell'opprimente prigione.
Ma nell'allontanarsi Tessa notò qualcosa.
L'ultima finestra che si apriva sulle massicce murature della prigione, quella posta più in alto di tutte le altre, come se celasse una cella irraggiungibile per qualsiasi voce umana e così distante dal suolo da sembrare quasi destinata ad accogliere qualcuno bandito per sempre dalla Terra.
E nel fissare quella lontana apertura chiusa da pesanti sbarre di ferro, per un istante Tessa ebbe come l'impressione di vedere qualcosa.
Un riflesso, un bagliore che come il velo di uno spettro si accostò a quelle sbarre, indugiando per un breve ed effimero momento, per poi svanire nel nulla.