SESTA QUESTIONE: I CANCELLI DI SAN FELICE, I FALCHI DI PICAS
“Non lontano da lì sorgeva una collina che dalla squallida vetta rigurgitava fuoco e nuvoli di fumo; attorno era solo una lucida crosta levigata, segno sicuro che teneva nascosto nel grembo qualche metallo prezioso, a causa dello zolfo.”
(John Milton, Paradiso Perduto, Libro I)
Ardea e Biago, usciti dalla valle di Maddola, seguirono il passo montuoso, fino ad intravedere un antico castello sulla sommità di una bassa montagna.
Il maniero, di mirabile e monumentale costruzione, dominava il piccolo borgo alle pendici del basso monte, quasi come ne fosse il custode.
Eppure qualcosa di indolente riempiva l'aria intorno ai due compagni.
Come se quel luogo fosse dimenticato, abbandonato e perduto quasi ai confini del mondo conosciuto.
Ma non poteva essere così.
Da sempre, Ardea lo sapeva bene, la contrada detta I Cancelli di San Felice era un viatico importante che univa il Sud ed il Nord del regno.
Un luogo frequentato dagli uomini sin da tempi antichissimi ed il suo castello aveva sempre rappresentato una tappa obbligata per cavalieri, nobili e regnanti durante i loro spostamenti per il reame.
Ma ora invece quella vitale contrada appariva del tutto differente.
Desolata ed avvolta in una cupa dimenticanza.
I due compagni proseguirono il loro cammino, fino a quando, penetrati ancor più in quella contrada, cominciarono a vedere campi un tempo rigogliosi ed ora ridotti in terreni sterili, abbandonati ed arsi dal Sole.
“Ma...” disse Biago guardandosi intorno “... che terra è mai questa? Nessuno potrebbe mai viverci.”
“Eppure un tempo questo luogo non poteva certo apparire così...” mormorò Ardea “... anzi, mi rifiuto di credere che sia diventato tanto arido e deserto...”
“Invece è così.” Fece Biago. “Io non ci vivrei nemmeno come cavalletta o zanzara...”
All'improvviso i due udirono qualcosa.
Era una musica.
Videro allora, dal lato opposto del sentiero, qualcuno giungere a piedi nella loro direzione.
E suonava una rotta.
Ardea e Biago si scambiarono una rapida occhiata e quando poi incrociarono il musico, arrestarono il loro cammino.
“Salute a te, menestrello.” Salutandolo Ardea.
“I miei omaggi, cavaliere.” Con un inchino quello, per poi alzare lo sguardo e fissarli meravigliato.
“Cos'hai, ragazzo?” Chiese Biago.
“Perdonatemi...” mormorò il menestrello “... ma mi chiedevo cosa ci facessero in queste tristi lande due viaggiatori come voi...”
“Forse questa contrada non è più un luogo ameno ed importante per il regno?” Domandò Ardea.
“Un tempo forse, milord...” chinando il capo il menestrello “... ora invece è una terra che presto anche gli ultimi suoi abitanti decideranno di abbandonare...”
“Perchè mai?” Fissandolo il capostipite di tutti i nobili Taddei.
“Guardatevi intorno, sir...” indicando il desolante paesaggio circostante il menestrello “... questa terra ormai non potrà più dar frutti e sfamare nessuno...”
“Si, abbiamo visto le misere e disdicevoli condizioni in cui versano queste lande...” annuì Ardea “... ma cosa ha ridotto così una contrada ducale?”
“Milord, ormai questa non è più una contrada ducale...” fece il menestrello “... o almeno lo è solo sulla carta...”
“Cosa dici mai!” Esclamò il Taddeide.
“Ormai questa terra” scuotendo il capo il menestrello “appartiene alle forze del male...” per poi alzare gli occhi verso il castello che dominava la contrada.
Allora un sinistro ed angosciante fremito sembrò attraversare l'animo di Ardea e quello di Biago.