“La strada devia verso le case chiuse. Come in un romanzo poliziesco seguiamo passo passo i commissari dell’epoca, le notti in strada («c’era la luna e avevi gli occhi stanchi…) accanto a colleghe amiche, i night, la cocaina, o «macuba», gli amici o fidanzati ambigui, gli sfaccendati che gravitano intorno al fascino della notte proibita, i play boy con le facce da duri sotto la tesa larga («bianco come la luna il suo cappello…), fino alla 1100 nera che una notte si porta via Mary.
Ci saranno processi, un reo confesso dichiarato matto, accuse di sfruttamento. Le cronache dei giornali torinesi e di quelli milanesi sono minuziose. Si affaccia la pista dei segreti del sottobosco, poi quella della droga, allora consumo per pochi ricchi. Nessuno è arrestato per l’omicidio, qualcuno paga lo sfruttamento...”
tratto da "La Stampa" di Torino, 1964.
Non c’è dolcezza né poesia nella sua morte. I microfilm dei vecchio giornali del Novecento mostrano un’Italia che cambia. I primi festini a luci rosse, l’arrivo della droga, bene di “lusso” destinato ai più ricchi e i fiumi di alcol. E le tragedie e gli efferati omicidi.
Maria Boccuzzi, Marinella per Fabrizio De André, morì nel gennaio del 1953. Lui, Fabrizio, aveva solo 13 anni quando lesse la notizia e nel 1964 scrisse la celebre canzone, ovvero "La Canzone di Marinella". Maria era figlia di un calabrese, arrivata a Milano aveva rinnegato la vita da operaia e aveva iniziato la carriera di ballerina di fila con il nome di Mary Pirimpò. Un sogno che, "...come tutte le più belle cose", visse "solo un giorno, come le Rose..."
Forse colto da un'insaziabile voglia di malinconia, forse soltanto per reinventare una storia di un'altra principessa sfortunata, anche io, come Milady Altea, ho pensato ad una persona che ho conosciuto molti anni fa e che ascoltava le mie canzoni, ma non potevo non cercare nelle parole di Fabrizio quello che la mia voce tremante non avrebbe potuto esprimere, tradita da un'antica emozione...Ciao Giuseppina "Giusy" Marinella.
Taliesin, il Bardo
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"Io mi dico è stato meglio lasciarci, che non esserci mai incontrati." (Giugno '73 - Faber)
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