Dacey percorreva la stradina, stretta e lastricata di mattoni policromi che alla luce spettrale della notte assumevano bagliori sconosciuti ai mortali.
Giunse così in un boschetto di sandali, tutti intorno ai resti di antico tempio oggi diroccato e silenzioso.
Pochi passi più avanti sorgeva un altare, consumato ed ingrigito dal tempo, coperto di fogliame grasso e verdeggiante, ma che ancora mostrava i resti di un antico splendore oggi però dimenticato.
E sull'altare era inciso un simbolo che la ragazza subito riconobbe.
Si trattava di due mani stilizzate che si stringevano, lo stesso emblema visto sulla cupola del giardino e sulla veste dell'uomo anziano.
E ad un tratto la giovane udì qualcosa.
Come dei profondi respiri.
Alto e denso fumo, di un profumo particolare ed indefinito, si alzò allora dall'erba, fino ad avvolgere Dacey.
Lei allora si accorse di un grosso e bizzarro albero.
Era di insolite dimensioni e dalla forma stranamente repellente.
Le sue radici avevano smosso i blocchi di pietra che un tempo fungevano da fondamenta al tempio e tutto in quel luogo adesso appariva cupo e maledetto.
All'improvviso Dacey notò quattro giovani donne, tutte di bellezza differente, che danzavano attorno all'albero, per poi abbandonarsi ai piaceri carnali con alcuni uomini formatisi dalle radici.
“Quello che vedi” disse una voce a Dacey “è Maya, il demone dei piaceri sensuali. Lo stesso che tentò Siddhartha Gautama, prima che divenisse il Budda. Ma non temere, poiché ai figli di Amisc le sue tentazioni non portano peccato.”
La ragazza si svegliò da quel sogno, ritrovandosi sugli stessi cuscini sui quali si era risvegliata all'inizio di questa assurda avventura.
Era infatti tornata nella sua dorata stanza.
Indosso ora aveva abiti di seta ancora più preziosi.