"Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato,
a Davide e alla sua discendenza per sempre."
(Salmo 18)
Un cupo e sibilante vento, simile ad un lamento, soffiava su Acerna, attraversando le sue silenziose e desolate strade.
La contrada, arroccata, come fosse spaventata, attorno al suo grande castello, sembrava intrisa di paura mista a disperazione.
Come se in quel luogo dimorassero solo ombre, pallidi riflessi di ciò che era stato vivo fino a qualche tempo fa.
Le alte mura che la circondavano, scandite da robuste ed invalicabili torri, erano forse in grado di proteggere Acerna da innumerevoli nemici umani e così avevano fatto per secoli.
Ma contro l'odio e la potenza del drago non erano riuscite ad opporre resistenza alcuna.
Non erano state in grado di salvaguardare la contrada dalla furia primordiale ed infernale di quella bestia.
E nel castello, coperto da drappi neri, con le bandiere calate, le lance abbassate e tende luttuose a coprire porte e finestre, il barone Avator, abbandonato senza più forze, né lacrime, né speranze sul suo seggio, fissava senza forze il vuoto della sala e senza avere il coraggio di alzare gli occhi sul quadro, posto sulla parete di fronte a lui, in cui era ritratta la sua bellissima figlia.
“Dimmi, figlio mio...” disse a Giaccos, che era in piedi accanto a lui “... sono un pessimo padre, vero?”
“Non crucciarti, padre...” mormorò il figlio.
“No, lo sono...” scuotendo il capo Avator “... un padre deve sempre proteggere i propri figli...”
“Ma deve anche proteggere il proprio popolo, se siede come te su un seggio...” fece Giaccos.
“Come si può” replicò Avator “proteggere un popolo, se non si è stati capaci di difendere prima ancora la propria figlia?”
“Padre, non tormentarti...”
“Come ci si può” quasi zittendo suo figlio con un cenno della mano “definire un padre, se si manda al macello la propria figlia? Come si può credere di sopravvivere alla propria figlia? Non è naturale ciò...”
“Padre...” mormorò Giaccos.
“No, non è naturale...” quasi senza ascoltarlo il padre “... non si può seppellire la propria figlia... io non posso seppellire Cramelide... lei deve seppellire me... tu e lei... voi dovete seppellire me... questo è il corso naturale della vita...”
Ma in quello stesso istante dalle strade cominciò ad alzarsi un confuso vocio.
Un'indefinita e sempre più chiassosa Balele, indecifrabile, informe.
Poi le campane.
Rintocchi ripetuti, festanti.
“Ma cosa sta succedendo?” Stupito Giaccos.
“Chi festeggia in quest'ora di morte?” Alzandosi dal seggio Avator. “Chi, in nome di Dio?” Gridò.
Giaccos allora tirò le tende di lato ed aprì la finestra.
E vide.
Vide la contrada in festa.
Tutti gridavano, in preda ad un'irrefrenabile eccitazione, correndo come impazziti verso le porte delle mura.
Come impazziti di felicità.
Poi squilli di trombe e canti.
Le chiese aprirono le loro porte e le immagini della Vergine col Bambino e di molti Santi furono portati nelle strade, in Sante Processioni.
Poi l'ingresso fra le mura si aprì ed un'incredibile scena apparve a Giaccos che guardava dalla finestra.
Alcuni fanciulli, gli stessi inviati come tributo al drago, entrarono correndo e trovando ad aspettarli le braccia delle loro madri e dei loro padri.
“Padre!” Chiamò Giaccos. “Vieni a vedere!”
Avator corse anch'egli alla finestra.
E vide quella scena.
E dopo i fanciulli, dalla porta entrò un cavaliere sul suo destriero, con una ragazza in sella con lui.
E dietro di lui arrivò anche il suo scudiero.
Avator e Giaccos continuarono a fissare tutto ciò increduli.
Videro così tutte quelle madri e tutti quei padri, seguiti da tutta la popolazione, che si prostravano davanti a quel cavaliere.
Davanti a quell'eroe liberatore, che ero sceso nel più profondo girone del loro Inferno ed era poi riemerso.
Davanti ad Ardea che stringeva fra le braccia la sua Cramelide.