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05-03-2010, 20.19.42 | #1 |
Cittadino di Camelot
Registrazione: 02-08-2009
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So dark, o love, my spirit without thee
Grazie per aver letto le precedenti storie :* e spero davvero che questa non deluda.
Per leggerla è necessario prima leggere Still thy name is spoken e poi Missive da un cercatore del Graal (almeno l'ultima lettera, quella a Mordred), le trovate tutte in ordine nella serie Storia del Sangrail. 01. Newport ~~~~ Inghilterra ~~~~ Gale Harrison aveva solo dieci anni quando, alla recita scolastica, la maestra lo reclutò per fare la parte di re Artù. Era stato divertente. Si era vestito da cavaliere di stracci, aveva indossato una corona di latta ed aveva zigzagato a destra e a sinistra con una spada di polistirolo. I suoi genitori erano stati così fieri di lui che per gli anni successivi la vhs con la recita era stata la cassetta più guardata di tutte. Al suo quattordicesimo compleanno, la cugina Emma Summers, una fanciullina che Gale non poteva sopportare, gli regalò un libro intitolato 'Morte d'Arthur' e Gale lo divorò, metaforicamente parlando. Rivedendo e vedendo ancora la vecchia vhs della recita su re Artù, Gale si accorse che qualcuno gli aveva dato il ruolo sbagliato. Non avrebbe mai dovuto essere re Artù. Fu quello il periodo in cui i sogni cominciarono. Lo tenevano sveglio di notte con immagini di donne dissanguate, di cavalli imbazziti, angeli sorridenti. Gale si svegliava di scatto, piangendo o urlando e sua madre correva da lui ad abbracciarlo, a rassicurarlo. "va tutto bene, non temere, sono solo sogni, non ti possono fare del male." "Lo hanno già fatto," sussurrava Gale, fra le lacrime. Passarono i mesi ed i sogni iniziarono a divenire più vividi, più ordinati. I castelli e le dame dai drappi colorati avevano la stessa consistenza del ruvido copridivano rosso del salotto. Il sapore del vecchio mare era simile a quello che poteva sentire quando andava a trovare i nonni a Porthsmouth ed i gabbiani gridavano allo stesso modo. I cavalieri iniziarono a divenire familiari, conosceva i loro nomi quanto quelli dei suoi compagni di classe. Artù, Lancillotto, Bors, Perceval, Mordred- tutti, piano piano, stavano tornando. I suoi sogni si misero assieme, uno dopo l'altro, come un puzzle. "Hai una fervida fantasia," aveva detto la sua insegnante dopo un esame di scrittura creativa. "Non è fantasia, professoressa, Lancillotto è davvero mio padre." La professoressa aveva riso, quel giorno, ma smise di ridere quando un amico di Gale venne a dirle che il compagno raccontava a tutti di essere sir Galahad. Provò a parlare con Gale, provò a convincerlo che fantasticare non sempre era salutare e che lui era Gale Harrison, di Newbury. Una parte di Gale la capiva perfettamente. Lui era Gale ma sapeva di essere anche Galahad e per questo ignorò la sciocca adulta che non lo capiva. I signori Harrison però non ignorarono l'appello dell'insegnante. "Gale, caro, penso che sia meglio parlare," disse con dolcezza la signora Harrison, una donna minuta dall'aria fragile. Accarezzò la guancia del figlio con le sue belle dita da pianista e poi gli fece spazio sul sofà, accanto a sé. "Se è per la signora Norton, io non sapevo che il gatto sarebbe andato nel suo giardino." "Non è per la signora Norton, Gale, né per il gatto," intervenne il padre, senza i fari bruschi che aveva di solito. Era un uomo paziente e buono ma poco incline alle sottigliezze. "E' per le cose che racconti a scuola." "Che cosa racconto a scuola?" "Quelle cose dell'essere sir Galahad, dell'essere stato un cavaliere," sussurrò la madre e poi sorrise, "Gale, so che la storia di re Artù è molto affascinante ma-" Gale si alzò in piedi, di scatto. "Non sono un bugiardo! E' tutto vero!" Dentro di sé sapeva che lo sguardo sconsolato della madre non avrebbe portato a niente di buono ma sapeva anche di non poter mentire. Non ne aveva bisogno, non lui. Il giorno dopo la signora Harrion lo portò dallo psicologo della scuola. Lo psicologo sembrava uscito da un vecchio fumetto della Marvel, con i lineamenti squadrati, grossi baffi neri e pochi capelli ai lati della testa. Si chiamava Sean e sorrideva spesso. Spiegò a Gale che alcuni sogni possono davvero essere vividi ma che rimanevano sogni. Per anni Gale crebbe assieme allo psicologo, tentando di convincerlo, in tutta l'innocenza e la fiducia che aveva avuto anche quando mille anni prima era stato Galahad (e di questo era sicuro). Per anni lo psicologo scosse la testa, sull'orlo della disperazione. Ma più gli anni passavano, più le persone iniziavano a guardarlo con sospetto e pena più le memorie tornavano. Sensazioni di essere vissuto prima di tutti, di aver avuto un'altra vita, erano così forti che era difficile dimenticarle. Dopo Sean lo psicologo arrivò Annie la psichiatra. Annie non sorrideva mai e nel momento in cui Gale entrò nello studio capì che le cose sarebbero dovute cambiare. Fu strana la sensazione. Annie aveva quasi cinquanta anni, un'aria stanca ed i capelli grigi. Era nettamente sovrappeso e si muoveva nella sua sedia di pelle con ansia, facendola cigolare. La donna aveva tra le mani una copia di 'Morte d'Arthur', libro che i signori Harrison avevano bollato coma la causa della pazzia (non che loro avessero davvero usato quella parola) del figlio. "Benvenuto, Gale, siediti pure." "Sì, signora Bavers." Gale si accomodò nella sedia di pelle davanti alla scrivania ed osservò affascinato le dita grassocce di Annie che sfogliavano il libro. "Hai compiuto diciassette anni, sì?" domandò la psichiatra, con aria dolciastra. Gale annuì. Aveva compiuto diciassette anni solo una settimana prima e nuove memorie si erano riaffacciate nei suoi sogni. La donna dissanguata ora aveva un nome: Dindrane. Il Graal, l'angelo del Graal, era terribile e bussava alla porta dei suoi ricordi tutte le notti. Aveva sognato di Mordred, dei suoi baci, ed era arrossito, aveva avuto strane reazioni dal suo corpo, reazioni che aveva preferito non approfondire. Sentiva che mancava poco per raggiungere la totalità della sua vita precedente, gli ultimi ricordi, sparsi qua e là, che gli avrebbero permesso di completare il quadro. Ma non poteva dire tutto questo ad Annie e quindi si limitò ad annuire. "Ti piace questo libro?" domandò la donna. "Sì, molto, signora Bavers." "E' un ottimo romanzo," annuì Annie, "la fine è triste però." "Sì, è triste." "Il sovrano impugnò la lancia e si gettò in avanti gridando: "Traditore, è giunto il giorno della tua morte!" Ser Mordred si scagliò a sua volta contro di lui brandendo la spada, ma il re già gli affondava la lancia sotto lo scudo e gliela faceva fuoriuscire dal corpo per più di un braccio. E quando l'usurpatore comprese che non sarebbe potuto sfuggire alla morte, si slanciò con tutte le proprie forze in avanti trafiggendosi fino all'impugnatura dell'asta, poi calò la spada tenuta con entrambe le mani sul proprio padre e lo raggiunse a un lato della testa trapassandogli l'elmo e il cranio. Subito dopo si accasciava a terra morto." lesse Annie. Gale la ascoltò, impallidendo. Tremò sulla sedia. Mordred non era stato suo amico ma ricordava di aver pensato molto a lui, prima della propria morte. Mordred era stato- strano. Non riusciva ancora a capirlo. Mordred era morto in un'altra vita e lui si trovava lì da solo. In quel breve, sottile momento d'epifania, Gale capì che Mordred aveva sempre avuto ragione: era un idiota, un imbecille che si fidava troppo delle persone. "Sì, molto triste," annuì la psichiatra, guardandolo intensamente. "Dimmi, Gale, perché vuoi rifugiarti in un simile mondo?" Darei qualsiasi cosa per poterne uscire, pensò Gale ma non lo disse. Deglutì e per la prima volta, mentì. "Volevo solo che i miei genitori smettessero di- di-" smettessero di cosa? ragionò con forza, con disperazione, "-di vantarsi di me con quella stupida cassetta sulla mia recita. Tutti mi dicevano che potevo fare l'attore ma io-" Gale deglutì ancora, sentendo che tutto diventava più liscio e fluente parola dopo parola, "-io voglio fare altro, non voglio fare l'attore." La guarigione di Gale venne accolta in casa come un miracolo. I signori Harrison, che non erano molto credenti, accesero dei ceri dedicati alla psichiatra e le regalarono un cesto di frutta. Gale fu costretto a visitare la signora Annie Bavers per tutto il resto dell'anno, fino al suo diciottesimo compleanno. Fu costretto a mentire, a scherzare davanti al sollievo nervoso dei suoi genitori. Ma voleva loro bene e sapeva che loro lo amavano sinceramente. Un tempo aveva avuto una madre, Elaine, che lo aveva tenuto legato a sé morbosamente, temendo che potesse fare la fine di tutti gli altri sciocchi cavalieri pagani. Ed aveva avuto un padre, Lancillotto, che lo aveva abbandonato per correre dietro le gonne di una regina. Ora aveva una madre ed un padre che vivevano con lui, gli davano da mangiare, lo portavano al cinema, passeggiavano con lui qualche domenica e che non lo aveva abbandonato nemmeno quando lui aveva dichiarato di non essere Gale, loro figlio, ma un'altra persona. Gale sapeva che loro non gli avrebbero mai creduto e così nessuno nel mondo e così decise di mettere tutto a tacere. Ignorò i ricordi, buttandosi a capofitto nello studio. Andò al college e studiò letteratura. A diciannove anni si innamorò di Lucy Howlett, una sua compagna di corso. Lucy aveva i capelli rossi, le mani che sapevano sempre di menta ed un dente storto ed era bellissima. Fu con grande ironia che Gale, la mattina della prima notte insieme, si chiese perché un tempo, quando era stato Galahad, fosse sempre stato alla larga dalle donne. Doveva essere un pazzo e lui lo aveva fatto solo per il Graal, per quella terribile figura di angelo che lo aveva ucciso e che ancora gli dava i brividi. La storia con Lucy durò solo un anno e dopo di lei vi fu Jean Grey anche se l'amore non arrivò mai tra lui e Jean. Si laureò discretamente, non con il massimo dei voti ma nemmeno tanto in basso da deludere i propri genitori. Non ci mise molto a trovare un impiego e venne assunto dalla Pawlins, una casa editrice di Porthsmouth. Gale Harrison diventò un semplice dipendente, così come tutti gli altri. Era gentile, sorridente, sincero e disponibile. I suoi colleghi lo adoravano ma lo punzecchiavano spesso e le sue colleghe erano infatuate dai cuoi occhi azzurri ed i suoi capelli dorati ma nessuno sembrava riuscire a raggiungerlo. La gente pareva capire che qualcosa in Gale era diverso, qualcosa era sbagliato. Gale non si accorgeva di nulla perché lui era semplicemente quello che era ed era Gale, il ragazzo di Newport, e Galahad, il cavaliere di Camelot. Non vi era contraddizione in quello. Molti anni prima, parlando con la psichiatra Annie Bavers, si era promesso di dimenticare Camelot, ma la nostalgia è sempre stato il più dolce dei sentimenti ed era difficile resistervi. Così, quando a ventisei anni si accorse di guadagnare abbastanza per fare una vacanza, partì per Glastonbury. La bella Glastonbury, la città del Graal, il luogo in cui tutti credevano che Artù fosse sepolto e lui stesso fosse morto. ~~~~ Glastonbury, Inghilterra 1999 ~~~~ Le rovine dell'abbazia di Glastonbury mettevano soggezione. Erano imponenti e sembravano eterne, nonostante il loro stato dimostrasse chiaramente il contrario. Antiche, enormi e familiari. Il sole riusciva ad emanare una debole luce che dava al prato attorno all'abbazia un'atmosfera desolata e gelida. Gale si fermò ad osservare un cartello per turisti con un'infinita spiegazione sul fondatore dell'abbazia. Una donna straniera, forse francese, lo sorpassò lamentandosi rumorosamente di qualcosa, parlando al cellulare. "Quel temps fait-il là-bas? Pleut-il ces jours-ci? Uh? Il fait très froid aujourd'hui." La voce si perse nel gruppo. La cattedrale era abbastanza affollata quel giorno. Doveva essere per via delle vacanze natalizie. Gale invece visitava Glastonbury tutti gli anni, nella stessa settimana. Era stata dura per lui accettare di non essere un pazzo ma ciò che ricordava era così vivido che non poteva essere altrimenti. Ricordava di essere morto, una volta quando si chiamava Galahad. Era stato malato ma aveva trovato ciò che aveva cercato per molto tempo, così si era abbandonato alla debolezza e si era lasciato morire. "Si dice che questa fosse la famosa Avalon," esclamò una signora dall'accento irlandese. Glastonbury era stata, effettivamente, chiamata Avallon, l'isola delle mele, ma questo era un segreto che Gale avrebbe dovuto mantenere. Era un uomo sincero quando si trattava di parlare dei suoi ricordi era meglio tacere. Lo aveva imparato a proprie spese. Continuò a camminare, seguendo il sentiero e sentendosi in pace e nostalgico. Erano passati così tanti anni. Ancora una volta si chiese se essere rinato fosse la sua ricompensa per aver trovato il Graal. Era morto cercandolo e la sacra coppa gli aveva donato un'altra vita. Il vento gelido iniziò a colpirgli il volto senza pietà. Gale si avvolse in una sciarpa fino al naso e continuò il suo tragitto, incurante degli occhiali che si appannavano quando respirava. Passò la mattinata all'abbazia, ammirandola senza fretta. All'uscita passò dal piccolo negozio di souvenir. Non era un amante dei souvenir ma il suo capo gli aveva chiesto un libro o una maglietta per la figlia e Gale non voleva deluderlo. Vagò nel negozietto che visitava per la prima volta. Vi erano un'infinità di deliziose sciocchezze, tra cui un assurdo tagliacarte con la forma di Excalibur. Gale si ritrovò a sorridere e passò al reparto dei libri. Un uomo stava sfogliando una copia di Le Morte d'Arthur. E poi l'uomo alzò lo sguardo su di lui e Gale si sentì mancare il respiro. Lo sconosciuto dovette provare la stessa cosa perché mise velocemente giù il libro e si affretto all'uscita. Ma per uscire avrebbe dovuto passare accanto a Gale che gli si parò di fronte bloccandolo. Trovandosi intrappolato, più letteralmente ma con una buona dose di trappola metaforica, lo sconosciuto sorrise amaramente. "Sembra che quei libri finiscano tutti allo stesso modo." "Lascia stare i libri," mormorò Gale, deglutendo rumorosamente. Lo sconosciuto, che non era affatto uno sconosciuto, era diverso da come era stato quasi millecinquecento anni prima ma era ancora poco più basso di lui, aveva gli stessi capelli castani e sorrideva. "Devo proprio andare." "Aspetta-" lo bloccò Gale, fermandolo per un braccio, "-non ora, aspetta un po'." "Non ci conosciamo nemmeno," sorrise l'antico Mordred. "Ci conosciamo invece. Possiamo conoscerci." "Hai la possibilità di non conoscermi, ti consiglio di prenderla al volo." "No, dimmi di te. Dimmi tutto." "Mi chiamo Moray, ora," rispose Moray, a disagio. "Moray, è un piacere trovarti qui," sorrise Gale, sentendosi sull'orlo di una risata liberatoria, "Sono Gale." "Menti sempre nello stesso modo sfacciato." "Andiamo a mangiare qualcosa?" Moray sorrise, liberandosi dalla presa dell'altro. "Ho già mangiato." "Allora- un caffé," propose Gale, velocemente, seguendolo fuori dal negozio. "Non bevo caffé," rispose Moray, accendendosi una sigaretta ed accelerando il passo. "Sai cosa intendo." "D'accordo, allora ci troviamo qui oggi alle tre." Gale fu quasi pronto ad accettare ma ci ripensò. "No, non verresti. Ora." Moray si fermò e si voltò finalmente verso di lui. "Non siamo soli. Non ci siamo solo noi due, non ci sono solo io. Se vuoi ti do l'indirizzo di qualcun altro, c'è Bors, c'è lui se vuoi." "Non voglio andare a prendere un caffè con Bors ma con te." "Perché io?" "Perché ci sono delle cose che avrei dovuto dirti." Moray buttò la sigaretta a terra e sorrise. "Allora dovevi pensarci prima." "Solo un caffé. Ci sediamo in un posto, al caldo, e parliamo. Ti prego. Mi devo inginocchiare?" Il sorriso dell'altro si trasformò in una smorfia irritata. "Non è necessario," rispose infine. "Bene, perfetto," esclamò Gale, "offro io."
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[English Arthurian fandom] ❒ Single ❒ Taken ✔ In a relationship with arthurian legends |
13-03-2010, 12.14.03 | #2 |
Cittadino di Camelot
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02. Glastonbury
L'ingenuità di Gale non aveva paragoni. Sua cugina Emma gli ripeteva sempre che aveva il cervelletto di un colombo e la bontà di una barbie bionda. Purtroppo Gale non poteva farne a meno, non poteva rinunciare all'idea che, con la speranza, tutto si sarebbe messo a posto. Galahad credeva che tutto avesse un proprio ordine, Gale pensava, fermamente, che tutto alla fine avrebbe trovato il proprio senso. Moray, un tempo Mordred Pendragon, evidentemente non era d'accordo. Il cafè in cui i due giovani erano finiti era un piccolo edificio con un delizioso muro a vetro. Sul muro, dall'interno, si poteva vedere un'arzigogolata, e storta, scritta bianca che diceva 'Graal cafè'. Niente di più indicato di quello. Una gentile cameriera dalla folta chioma rossa corse loro incontro e li sistemò in un tavolino a muro, in fondo al locale. Portò loro due caffé e rimase a guardarli dal bancone, incuriosita. Gale stava raccontando della propria famiglia, della psichiatra Annie e della propria ingenuità. "Vengo a Glastonbury tutti gli anni. Ho sempre sperato di trovare qualcuno che- bhè, lo sai- qualcuno come me e te." "Per farci cosa?" domandò Moray, osservandolo dietro alla propria tazza di caffé quasi finito. "Per ricordare i vecchi tempi, per non essere soli," tentò di spiegarsi Gale. "Non voglio ricordare i vecchi tempi e sto benissimo da solo. Vedi? Non tutti sono come te." Con un solo movimento, Moray bevve ciò che rimaneva nella propria tazza. "Abbiamo bevuto questo caffé, ora ce ne possiamo andare." Gale lo osservò confuso. Di certo non si aspettava nulla di simile. Non si attendeva sicuramente abbracci gioiosi ma dentro di sé aveva sempre creduto che ritrovare qualcuno che avesse vissuto ciò che aveva vissuto lui sarebbe stata come una felice riunione. "Moray, mi dispiace," mormorò, ricordandosi degli eventi letti nei libri. Sicuramente Mordred non voleva ricordare la battaglia finale, il disonore ed il sangue. "Ho parlato senza riflettere." "Puoi dire quello che vuoi. Non sono mai stato uno facile alle offese." "Ti scrissi una lettera." "Deliziosamente romantico." "Sul serio, Moray, ti ho scritto una lettera. So che non il diritto di dirti nulla e non ne avevo nemmeno a quel tempo- anzi, non so nemmeno perché lo sto per dire adesso-" "Allora non dire nulla. Il silenzio è decisamente sottovalutato," mormorò Moray, con irritazione. Gale aprì la bocca per aggiungere qualcosa ma Moray sorrise, ghignando. Rimasero in silenzio per qualche minuto finché non fu proprio Moray a romperlo: "Allora, ed ammira come le mie domande vadano dritte al punto senza attorcigliarsi su loro stesse, sei ancora convinto di ciò che eri una volta?" "Di cosa?" "Eri il migliore di tutti, il più puro." "Non sono né il migliore né il puro," replicò Gale, arrossendo leggermente, "non lo sono mai stato, in verità." "Odio la sincerità." "E tu sei ancora-" "Un bastardo? un sodomita?" aggiunse sorridendo e giocando con una bustina di zucchero. "Non intendevo nulla del genere." Moray si alzò in piedi e lo osservò in silenzio per qualche secondo. Sembrò decidere di rimanere ma poi sorrise, uno di quegli strani sorrisi che non era in grado di fare nemmeno quando era stato Mordred. "Sempre così innocente. Tieni," aggiunse infine, prendendo il portafoglio e tirando fuori un biglietto da visita. Il piccolo cartoncino conteneva un numero di telefono ed un indirizzo. Gale lo prese meravigliato. "E' il tuo numero? Posso chiamarti?" "Certo," sorrise Moray. "Ora devo proprio andare, cosa da fare, regni da distruggere, troni da conquistare." "Molto divertente." "Lo so! Lascio a te il conto, visto che l'idea è stata tua," esclamò Moray, sembrando riaquistare il sarcasmo di un tempo. Gale si alzò frettolosamente anche lui, vedendolo uscire dal locale. Passò un giorno intero prima che Gale si decidesse a chiamare Moray. Si sentiva confuso e sicuramente non sapeva ciò che voleva. Il ritorno a casa fu febbrile. Si addormentò in treno e sognò di Dindrane. Sognò il Graal che veniva a prenderlo di nuovo e questa volta con lui c'era Dindrane, insanguinata, che gli diceva che era troppo tardi e che avrebbe dovuto pensarci prima. Una volta a casa chiamò i propri genitori, felice nel sentire le loro voci, andò a trovare la vicina, una cara signora di cinquant'anni sempre pronta a chiacchierare di tempo e geologia. Infine si decise. Compose il numero, respirando sonoramente. La cugina Emma, presente come un'erbaccia, era venuta a trovarlo in mattinata ed aveva riso vedendolo girare e rigirare il piccolo cartoncino bianco. Gale ha un appuntamento! aveva gridato ed effettivamente Gale si sentiva proprio così. "Pronto?" rispose una voce di donna. "Pronto, mi chiamo Gale, c'è Moray?" "Moray? No, mi dispiace qui non c'è nessun Moray." La prima cosa che Gale fece fu di ricontrollare il numero sul display. Non era errato. "Quel bastardo-" mormorò. "Come, scusi?" chiese la voce di donna. "Nulla, volevo chiederle... non abita un ragazzo lì? Con un altro nome forse?" "Ci siamo solo io e mio marito," rispose la signora, chiaramente spazientita. "E voi abitate in-" "Senta! Se è un altro di quei pazzi di Green Palace la avverto che chiamerò immediatamente la polizia!" "No, mi scusi, signora, ho solo composto il numero di un biglietto da visita, devo aver sbagliato-" La donna urlò qualcosa al telefono, chiaramente non a Gale, e il ragazzo sentì la voce di un uomo in lontananza. Vi fu un veloce passaggio di cornetta e la signora scomparve dall'altro capo della linea lasciando il posto ad una voce maschile: "Che vuole?" Gale non ci mise molto a riconoscerla. Nonostante la distanza, sia fisica che temporale, nonostante il rumore fastidioso del telefono ed il traffico fuori dal proprio appartamento, Gale non ebbe dubbi quando dalla propria bocca usci un timido "Bors?" L'uomo alla cornetta mormorò qualcosa alla moglie, se di moglie si trattava, e subito rispose a Gale: "Chi sei?" "Sono Gale- voglio dire, Galahad. Bors, sei davvero tu?" "Galahad, non ci posso credere," sussurrò Bors con meraviglia, "certo che sono io! Ma come hai fatto ad avere questo numero?" La sorpresa del momento, lo sgomento e la gioia vennero subito fulminate senza pietà dal vero significato della chiamata. "Me l'ha dato Mordred," replicò Gale, sentendosi improvvisamente stanco. Si sedette sulla sedia, dalla quale si era alzato alla scoperta che l'uomo alla cornetta era Bors. "Galahad, è difficile parlare di queste cose al telefono. Devi venire assolutamente qui. Hai il nostro indirizzo?" "Certo. Sì, è sul biglietto. Tenterò di venire lì in giornata." Riattaccò il telefono sentendo che con quel gesto se ne andavano le sue ultime energie. Tutto il suo entusiasmo perso all'idea che anche Mordred era scomparso. Non che Mordred fosse speciale, Bors andava benissimo per rimembrare i vecchi tempi passati, vero? Il volto dell'angelo sorridente, del Graal, gli tornarono alla mente. Lui aveva chiesto a quell'essere di ritrovare Mordred e l'essere, perché sicuramente un simile sorriso non poteva appartenere ad un angelo di Dio, gli aveva rubato la vita in cambio della sua promessa. E Gale si era lasciato sfuggire tutto. Occasione, nuove possibilità, tutto scomparso. Si alzò a sedere, camminando avanti ed indietro per la cucina. Accese un fornello, osservando la fiamma zampillare nell'aria e chiedendosi se fosse il caso di iniziare a fumare. Stupido pensiero. Avrebbe voluto avere la vecchia lettera che scrisse prima di morire. Avrebbe voluto poterla rileggere, ricordare tutto con perfezione e donarla a Mordred. Sapeva che era importante. Spense il fornello e prese le chiavi della macchina. Se Moray aveva il biglietto da visita di Bors significava che i due si erano incontrati almeno una volta e c'era quindi la possibilità che Bors sapesse qualcosa sul dove trovarlo. Guidò per un'oretta piena, più a causa del traffico che della distanza, ed arrivò presto alla stazione dei treni più vicina. Lì, senza rifletterci troppo, salì su un treno per Cardiff, tastando tra le mani il piccolo biglietto da visita, ormai sgualcito e rovinato. Arrivò a Cardiff che era appena passata l'una del pomeriggio e sentì lo stomaco iniziare ad avvertirlo della fame. Non si fermò, spinto dal desiderio di incontrare nuovamente Bors. Bors sapeva sicuramente qualcosa di Mordred. E Bors aveva visto il Graal. Il pensiero assalì Gale con violenza. Bors aveva visto quella terribile creatura dal sorriso troppo largo per quello di un angelo e forse Bors sapeva cosa era accaduto realmente quel giorno di molti anni fa. Il giovane prese un tram che, quasi facendolo appisolare, lo portò poco fuori dal centro della città e lo lasciò in un lussuoso quartiere di casette a schiera. Non ci mise molto a trovare la porta che cercava. Ad aprirgli fu una signora sulla mezza età con una crocchia di capelli ormai grigi. La donna lo squadrò severamente ma subito, alla porta, apparve l'alta figura di Bors. Con un sorriso meravigliato, momentaneamente dimentico di tutto, Gale osservò quanto poco l'uomo fosse cambiato: era ancora molto più alto di lui, i suoi capelli erano rimasti scuri e verso il grigio, il naso appiattito e gli occhi gentili. I due, senza nemmeno rifletterci, si abbracciarono come due amici separati da troppe leghe di distanza. "Oh, Galahad!" "Gale Harrison, ora," rispose Gale, liberandosi dal suo abbraccio e seguendolo dentro casa. La casa era piccola ma pulita e ordinata. Una semplice casa di periferia con quadri, tappeti e tanta luce. Una parte di Gale aveva sempre pensato che Bors sarebbe finito in una vecchia fattoria fuori città. "Gale, giusto? E' un piacere vederti! Ti presento Madelyne, è mia moglie." La donna dai capelli grigi strinse brevemente la mano al giovane e poi se ne andò con aria glaciale, lasciandoli soli. "Bors, quasi non riesco a crederci. Ti chiami ancora così?" "Oh sì, i miei genitori avevano poca fantasia, o forse troppa, dovrei dire. Vieni a sederti in salotto, abbiamo molto da dirci." Accomodatesi l'uno sul divano e l'altro sulla poltrona, Bors raccontò di come la scoperta dell'essere nuovamente vivo lo aveva colpito. Raccontò a Gale dei difficili anni della gioventù, quando i suoi genitori quasi lo credettero pazzo e lo lasciarono allo zio prete. Lo zio non lo credette pazzo ma solamente solo e desideroso d'attenzioni. "Sono un prete anch'io. Lo zio Martin è morto quattro anni fa ma non dimenticherò mai tutto ciò che mi ha insegnato. Certo, non ha mai creduto alle mie storie ma devi ammettere anche tu che sono racconti ben difficili da accettare." "La mia storia è molto simile alla tua," lo consolò Gale. "E quindi sei un prete?" "Certo, pastore della chiesa di St. John Street, proprio qui dietro a questa vecchia casa." "Non è così vecchia." "Lo è abbastanza per piacermi. E' veramente una fortuna che tu mi abbia trovato." Gale colse l'occasione al volo. "Non è certo fortuna, come ti dissi è stato Mordred, cioè Moray, a darmi il tuo indirizzo ed il tuo numero." "Ha fatto bene, allora." "Tu lo conosci?" domandò Gale, con forse un po' troppa foga. Bors si massaggiò dubbioso un ginocchio. "Non ti ho mai raccontato di cosa è successo dopo che tu sei- sei morto. Io sono tornato a Camelot e poi è finito tutto." "Il Graal non è servito a nulla, quindi." "Il Graal era una ricerca personale. Camelot era qualcosa di troppo grande e troppo vecchio. Lancillotto, perdonami Gale ma devi saperlo, tuo padre e la regina erano amanti." "Lo so," rispose Gale, con voce debole. Dentro di sé l'aveva sempre saputo. "Agravaine li ha sorpresi e Lancillotto l'ha ucciso. Per legittima difesa, ovviamente, quel verme delle Orcadi l'aveva attaccato quando mio cugino era disarmato e impreparato. Sicuramente avrai letto tutto nei libri che si trovano in giro," aggiunse poi Bors, frettolosamente. "Ho letto che Artù decise di bruciare Ginevra sul rogo e che Lancillotto la salvò. E poi la guerra ed il tradimento." "Sì, Artù però non voleva davvero bruciare la moglie, la amava profondamente, come ben sai. Lo fece per far felice il popolo, capisci? I cavalieri ed i nobili avevano bisogno di sapere che la legge di Artù valeva anche per Artù. Lancillotto ha fatto solo ciò che anche Artù voleva. Purtroppo hai conosciuto le piccole vipere di Morgause: sempre pronte a spalleggiarsi e difendersi, vendicative e irate. Gaheris decise di vendicare Agravaine, quando era chiaro che Agravaine aveva ben meritato quello che gli era capitato. Sono morti tutti." "Tutti chi?" "Al rogo della regina. Gaheris era tra le guardie e Gareth tentava di fermarlo. Lancillotto li ha uccisi entrambi." Gale si massaggiò le tempie. Non era quello che voleva sentire o ricordare di Camelot. Non la furia di suo padre in battaglia ma la bellezza della sua armatura e della sua spada, non il loro uso. "Gawain e Mordred giurarono vendetta. Il problema fu l'oggetto della loro vendetta. L'uno voleva un duello con Lancillotto e l'altro voleva distruggere tutto." "Distruggere tutto?" "Tu non l'hai visto," continuò Bors, senza tatto, "accusava il nostro re, Artù!, di aver tramato per assassinare i figli di Morgause." Gale scosse la testa. Aveva conosciuto poco Artù al tempo ma dubitava seriamente che una persona mite come lo era stato lui potesse persino pensare di architettare dei piani sanguinari. "E poi sono morti," concluse Gale, facendo chiaramente capire a Bors di non voler sentire altro. Il padrone di casa annuì, tetramente. "L'importante è che siamo qui, ora," concluse. "Dio ci ha voluto ricompensare con un'altra vita." Gale lo osservò intensamente. Era ciò a cui aveva pensato, a volte. Era ciò che aveva sperato. Ma se Dio l'aveva ricompensato con un'altra vita significava anche che Dio lo costringeva a passare notti insonni con il volto di Dindrane impresso nella memoria. "Perché dovremmo avere una simile ricompensa?" "Perché abbiamo trovato il Graal." "Il Graal. L'hai- hai visto anche tu?" Bors si passò una mano sulla fronte. "Ricordo poco, ricordo una luce ed un tocco fugace." "Io ricordo una bocca, Bors. E delle mani. Una coppa ed un sorriso. Bors, ti assicuro, una cosa simile non può venire da Dio." "Gale, sei solo sconvolto. Ricordare una vita passata e viverne una nuova può essere difficile, ti capisco." Gale si morse il labbro. Forse Bors aveva ragione. Forse ricordava male ed il Graal in realtà era un bellissimo angelo biondo venuto a donargli una nuova vita e non a rubargli tutto ciò che aveva fino a farlo morire. Forse essere Gale Harrison era la sua nuova ricompensa e la sua nuova possibilità. "Vuoi qualcosa da bere, Gale?" "No, grazie. Dimmi di più, se puoi, perché Mordred aveva il tuo biglietto da visita?" "Mi ha cercato lui. E' venuto in chiesa da me per chiedermi perché si trovasse di nuovo vivo e qui. Cercava risposte e io gliele ho date." "E non tornerà più?" "No. Gli ho lasciato il biglietto nel caso cambiasse idea ma mi ha detto che avrei dovuto dimenticarmi di lui." "Io so perché lui è qui," esclamò Gale, improvvisamente. Gale lo sapeva. Aveva chiesto lui stesso al Graal, o alla creatura che si era spacciata per tale, di dargli almeno Mordred, almeno un'altra possibilità di incontrare la persona che tanto strenuamente l'aveva assillato, punzecchiato e seguito e che lui tanto testardamente aveva tentato di ignorare. "Oh, lo so anch'io." "Lo sai? Come fai a saperlo?" "Dopo quello che ha fatto, Gale, non mi aspettavo di certo che Dio lo lasciasse impunito. Dopotutto ha premiato noi trovatori del Graal e sono sicuro che da qualche parte vi siano anche tutti gli altri meritevoli." "Che cosa intendi per impunito?" domandò Gale. La testa sembrava riempiersi di informazioni sempre meno gradite e suo malgrado non riuscì a fermare la nota di aggressività nella sua domanda. "Non sta bene, sta passando un brutto periodo ma i suoi genitori gli sono vicini." Una strana e vecchia vocina nella mente di Gale sospirò ironicamente gioiosa: Almeno in questa vita ha dei genitori. "Spiegati. Bors, è importante. E' colpa mia se è qui. Io ho chiesto al Graal di portarlo qui," sussurrò Gale. "No, Gale, niente sensi di colpa. Il Graal è uno strumento di Dio, fa solo ciò che deve," insistette Bors ma fu costretto a continuare quando non ricevette alcun segno di aiuto o di intervento da parte del suo vecchio compagno, "ha il cancro. Ma sono certo che si può curare. Sono sicuro che Dio lo sta mettendo alla prova in modo che diventi una nuova persona, qualcuno di degno." Bors aggiunse altro, parlò ancora del suo incontro con Mordred, ora Moray Lambeert, ma Gale non lo sentì. L'unica cosa che riusciva a sentire era cancro. Aveva vaghe e terribili immagini del cancro. Ricordi di telefilm in cui i protagonisti guarivano miracolosamente e di zii di amici che morivano silenziosamente. E tutto questo era colpa sua. Lui aveva portato Mordred in questa nuova vita. "Mi devi dare il suo indirizzo," esclamò Gale, interrompendo il fiume di parole di Bors. "Lo hai, vero?" "Sì, ammetto di aver fatto delle ricerche sul suo nome e cognome. Mi aveva parlato anche della sua casa ma non sono sicuro che viva ancora lì. Gale, lascialo stare, non ci vuole intorno." Gale si alzò di scatto dalla poltrona, sentendo di doversi muovere, di dover fare qualcosa. Cancro. "Che cosa gli hai detto?" chiese improvvisamente. "Gli hai detto che era la sua punizione da Dio?!" Madelyne li raggiunse in salotto, incuriosita ed allarmata dal volume che aveva raggiunto la voce del suo nuovo ospite. "Madelyne, cara, puoi prendermi l'agenda che c'è nel mio studio?" domandò Bors e la donna ubbidì con un cenno di disapprovazione. "Gale, ti prego, niente scenate. Eri un bravo ragazzo. Non avresti mai detto una cosa così un tempo." "Non voglio nemmeno iniziare a parlare delle cose che non avrei fatto un tempo," sussurrò Gale. La fame e la stanchezza iniziavano a farsi sentire. Dopo qualche secondo Madelyne tornò da loro con in mano una piccola agenda blu. Bors sfogliò tra le pagine e prendendo una penna, sempre portata dalla moglie, scrisse su un piccolo post it giallo degli indirizzi e dei numeri. Quando li porse a Gale il ragazzo evitò il suo sguardo. "Vuoi rimanere a cena?" chiese l'uomo. "No, mi dispiace, Bors. Ho delle cose da fare. Forse un'altra volta." "Certo." Gale prese il foglio. "Sono due indirizzi." "Sì, quello sopra è di Moray e quello sotto è di Percy." "Percy? Percival? Hai trovato Percival?" Bors scosse il capo e Gale capì subito che ciò che l'altro stava per dire non gli sarebbe piaciuto. "L'ho trovato troppo tardi. All'indirizzo troverai la madre, le fa piacere quando un amico del suo Percy va a trovarla." "Che cosa gli è successo?" "Si è ucciso."
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03. Bristol
Gale aveva solo vaghi ricordi di Bristol. Quando frequentava le elementari, il suo migliore amico John O'Shelley gli mandava una cartolina da Bristol tutte le estati. In ogni cartolina si vedevano distese di edifici bianchi e rosei, grigi e spettacolari. Ed era sempre presente il Briston Bridge o almeno il castello accanto ad esso. Gale però non aveva mai avuto la possibilità di vedere Bristol di persona. Era proprio come nelle cartoline, si rese presto conto. Le persone correvano avanti ed indietro, il traffico correva subito dietro di loro e gli edifici erano grandi, enormi, affascinanti. Gale Harrison non era un uomo da grandi città. Non che Newport fosse piccola ma aveva sempre evitato il centro della cittadina, accontentandosi delle comode periferie o dei paesi limitrofi. E la stessa cosa per Portsmouth. L'indirizzo che Gale stava seguendo, invece, era proprio in una delle zone più centrali di Bristol. Un luogo che sicuramente non doveva essere economico, meditò Gale, raggiungendo un alto palazzo color rosso mattone. Aveva dovuto chiedere indicazioni a tre persone prima di riuscire ad arrivarci. Sospirando, meditò su cosa fare. Le automobili passavano veloci dietro di lui e la gente camminava sul marciapiede ma Gale si sentì come se tutti gli occhi del mondo fossero sulla sua schiena, in quel momento, mentre lui se ne stava fermo, immobile, ad osservare una porta chiusa ed una lista di campanelli. Che cosa avrebbe dovuto dire? Che cosa chiedere? Quando un'anziana signora arrivò all'edificio, portando con sé un'enorme borsa della spesa, Gale, istintivamente, la raggiunse offrendosi di aiutarla. La donna lo squadrò, sospettosa, ma la necessità la costrinse ad accettare l'aiuto offerto. La donna giunse alla porta e, occhieggiando le proprie borse in mano allo sconosciuto, tirò fuori le piccole chiavi di bronzo dalla borsetta ed aprì la porta di vetro e ferro. Con un sospiro sorpreso si accorse che la donna lo stava invitando a seguirla fino all'ascensore. "Grazie, ragazzo," esclamò la signora quando le porte dell'ascensore si chiusero. Era dentro. Arrossì leggermente. Chiunque avrebbe pensato che lui aveva ingannato quella povera anziana donna per poter entrare nel palazzo ma le sue intenzioni erano state innocenti fin dall'inizio. Sentendo il rossore pian piano svanire dalle sue guance, Gale si ricordò che nessuno lo stava guardando o giudicando. E che qualsiasi mezzo andava bene per il suo attuale scopo. Salì le scale, sentendosi un intruso. Un intruso determinato, in ogni caso. Pregò perché nessuno sbucasse improvvisamente da una delle porte (e proprio nel momento in cui leggeva i nomi sui vari campanelli). Fu al terzo piano, dopo miriadi di nomi sconosciuti e molta pazienza, che il cuore di Gale perse un battito. Karoline Lambeert Non aveva la più pallida idea di chi fosse Karoline ma di certo Lambeert era il cognome di Moray. Bene, Gale, sei arrivato qui ed è il momento di andare avanti. Non sarebbe fuggito. Quando era Galahad era sempre stato molto bravo a corazzarsi di purezza e superiorità tanto che la maggior parte delle persone non osava nemmeno avvicinarsi. Solo Mordred si era tenacemente aggrappato a lui, per dispetto più che per altro, e Galahad era fuggito. Suonò il campanello. Non ebbe nemmeno il tempo di pensare a cosa dire che la porta si aprì, casualmente quasi, e il volto di Moray apparve nuovamente davanti a lui. "No, davvero non è-" stava dicendo il padrone di casa, al telefono. Si bloccò quando vide Gale. "Ciao, Moray," lo salutò Gale e per un attimo si sentì tremendamente in colpa. "Ti devo lasciare. No, scusami, ti devo davvero lasciare ora. Ci sentiamo dopo," riattaccò Moray. "Che cosa ci fai qui, Gale? Ma, soprattutto, ho un telefono in mano dimmi se stai per diventare uno stalker perché in quel caso mi risparmio lacrime ed angoscia e chiamo direttamente la polizia." "Non lo stai dicendo davvero. Posso entrare?" Senza volerlo gli occhi di Gale squadrarono attentamente il giovane di fronte a lui in cerca di qualsiasi sintomo di malattia potesse essere dipinto sul suo volto. Moray lo lasciò entrare nell'appartamento e chiuse la porta dietro di loro, sbattendola senza delicatezza. Lanciò il telefono sul divano che si trovava proprio al centro della stanza. L'appartamento non era molto grande. Aveva un salotto unito alla cucina, con un piccolo tavolo da pranzo a dividerli. Le finestre erano completamente spalancate e tutta la luce entrava da lì. La tv, accesa, chiacchierava del tempo e della pioggia. Moray gli fece cenno di sedersi su una delle sedie accanto al bancone bianco della cucina e Gale eseguì, continuando (e non poteva farne a meno) a guardare il padrone di casa. "So di essere probabilmente il più bell'uomo che viva in questo quartiere ma potresti anche essere meno palese." "Scusa," esclamò Gale, arrossendo e distogliendo lo sguardo. "E' un bel posto. Chi è Karoline?" "Mia moglie." Gli occhi azzurri del vecchio Galahad si spalancarono, tornando a fissarsi sul volto di Moray, con una velocità invidiabile da chiunque. Moray non sembrava avere più di venticinque o ventisei anni. "Davvero?" "No, è mia madre. Aveva preso l'appartamento per lei ma poi mi ci sono trasferito io. Mi sono sempre dimenticato di cambiare quella targhetta," rispose Moray, con un sorriso soddisfatto. "Oh, capisco." riuscì solamente a dire Gale, chiedendosi perché Moray non si comportasse come un normale padrone di casa. Chiunque a quel punto gli avrebbe offerto qualcosa da bere ed avrebbe agevolato l'apertura di una conversazione con dei commenti inutili sul tempo o sul traffico. "Come hai fatto a trovarmi?" "Sono stato da Bors." "E lui come ha fatto a trovarmi?" "Ha solo detto che fece delle ricerche quando gli dicesti il tuo nome e cognome." Moray si sedette ad una sedia di distanza da Gale. "E che cosa ti ha detto Bors?" "Nulla di che. Mi ha raccontato di Camelot e mi ha detto dove trovare te e Percival." "E perché non sei da Percival?" "Perché volevo venire prima qui," rispose Gale, con fare petulante, non menzionando che Percival ormai non poteva più riceverlo visto che era morto. "Imbarazzante silenzio," fischiò Moray, guardandosi attorno, "era molto più semplice una volta. Io venivo da te, tentavo di distruggere il tuo stupido sorriso da santo del paradiso e tu mi cacciavi. Molto più divertente. Proverei a farlo ancora ma non è più soddisfacente se sei tu a venire qui." "Volevo solo-" "Sì, lo so, riparlare dei tempi passati. Bors è un chiacchierone, lui adora parlare dei tempi passati." Gale sospirò sentendosi di nuovo come una volta. Un Galahad irritato dall'inutile chiacchiericcio di Mordred, sempre pronto a scattare e girare attorno a qualsiasi domanda seria, evitandola con maestria. "Moray, ora ascoltami. Se sono qui è perché voglio parlare con te. Ti scrissi una lettera prima di morire. Ricordo poco di quegli ultimi tempi ma una cosa la so; trovai il Graal e gli chiesi di portarmi nuovamente da te. Perché sei stato l'unica persona a non trattarmi come se fossi stato di cristallo o se fossi uscito da un monastero." "Tu eri uscito da un monastero," sottolineò Moray, indispettito. "Non è quello il punto. Bors, Gareth, Kay, tutti mi guardavano come se da un momento all'altro avessi potuto giudicare i loro peccati e se l'avessi fatto non mi avrebbero fermato. E so che è stata anche colpa mia e del modo in cui mi comportavo." "Ed io ero l'unico a vedere come realmente eri? E' questo che vuoi dire? Eri un ragazzino, uno che non sapeva nulla e che era cresciuto credendo di avere la sapienza infusa divinamente." Gale si morsicò un labbro, a disagio. Ma si era aspettato simili accuse perché aveva riflettuto molto sulla sua vita passata, sulla sua vecchia infanzia. "Lo so. E tu riuscivi ogni volta a farmi venire dubbi, dubbi su qualsiasi cosa. Su di me, su di te, sul Graal. Volevo dirti che- mi sei mancato molto, mi è mancata la tua amicizia, se così si può dire." "Stavo solo tentando di distruggere tutto ciò che eri," rise Moray, con aria sconvolta. Gale annuì. Sì, forse questo era ciò che aveva pensato anche lui e che aveva pensato lo stesso Mordred. "Bene, ci sei riuscito allora. Sono cresciuto." "Non sei cresciuto, sei solo nato un'altra volta." "Bors mi ha detto anche che sei andato da lui a cercare risposte. A chiedergli perché tu fossi qui." Moray sorrise divertito e si sporse verso di lui, guardando un punto imprecisato del bancone bianco della propria cucina. "E lui cosa ti ha detto?" "Ha detto delle sciocchezze, ecco cosa mi ha detto. Ha parlato di punizione divina." "E tu non lo credi? Non è una ricompensa questa tua nuova possibilità di crescere?" Ed in quel momento Gale si lasciò sfuggire la domanda alla quale più aveva evitato di pensare ma che immancabilmente rimbalzava nella sua mente, girando e rigirando come un pesce in una boccia. "Hai il cancro?" "Era per questo che mi guardavi in quel modo?" ribatté Moray, senza spostare lo sguardo dal bancone. "Mi dispiace, non volevo chiedertelo così." "Non sono affari tuoi. Bors ti ha spiegato il perché, no? Ho distrutto tutto, sono impazzito, ho ucciso mio padre, ho probabilmente ucciso Gawaine molta altra gente ed ora sono qui." "Sono affari miei perché è colpa mia se sei qui." Finalmente Moray spostò lo sguardo ed incontrò gli occhi da Gale, azzurri, così larghi come quelli di Galahad, e pieni di sensi di colpa. Pian piano Gale gli spiegò tutto. Gli parlò dell'inizio della sua cerca del Graal, di come si fosse sentito solo. Gli narrò la morte di Dindrane ed i suoi sogni su di lei, di tutte le volte che la vedeva morire ancora. Gli raccontò del Graal, dell'essere orribile che gli aveva sicuramente rubato qualcosa e della sua richiesta. Il Graal gli aveva chiesto che cosa volesse e l'unica cosa che Galahad era riuscito a rispondere era che voleva Mordred. Voleva rivederlo ancora. Voleva poter tornare indietro e dirgli che aveva sbagliato e che Galahad era ancora lì con lui e non perso in un'avventura solitaria. Voleva ricordare i momenti in cui Mordred lo aveva messo in dubbio e messo in imbarazzo. Ed i baci. Perché una parte di lui li sognava ancora ed anche Gale li sognava. "E' colpa mia se sei qui," terminò Gale con le guance in fiamme per la vergogna della confessione e la fatica nel parlare così sinceramente. Moray lo stava ancora fissando, in silenzio. Improvvisamente si alzò e spostò la sedia vuota che lo divideva da Gale. Gli prese le mani ed approfittò del fatto che l'altro fosse troppo sconvolto per poter protestare. "Senti," lo incitò, appoggiandogli le mani sui propri fianchi attraverso la maglietta. Gale sentì. Sentì costole che sporgevano ed ossa spigolose. "Guarda che cosa hai fatto," continuò Moray portandogli le mani sul volto a tastare la pelle troppo calda e le occhiaie. "Mi dispiace," sussurrò Gale, con voce rotta, capendo dove l'altro volesse arrivare. Ma non si oppose quando Moray lo costrinse a toccargli i capelli staccando facilmente una corta ciocca scura. "Perdonami, Mordred," singhiozzò Gale e si maledì perché non doveva andare così. Non doveva piangere eppure le lacrime continuavano a scendere e lui si sentiva così in colpa per tutto ciò che aveva fatto. Si sentiva un egoista per aver cacciato Mordred ed averlo costretto nuovamente a vivere senza nemmeno chiedergli consiglio. Moray gli lasciò andare le mani e lo osservò mentre si piegava su se stesso, scosso dai singhiozzo. "Mi dispiace," continuava a ripetere Gale, sentendo lacrime e saliva che si mescolavano fra di loro. Fu sorpreso quando si accorse che Moray gli stava di nuovo parlando. "Basta, basta, scusami, sono solo stanco," stava ripetendo il padrone di casa, inginocchiato davanti a lui per poterlo vedere meglio in volto. "Non piangere. Non è colpa tua." Gale si passò una manica sugli occhi, tirando rumorosamente su con il naso e tentando di calmare i singhiozzi involontari abbastanza da poter udire ciò che Moray stava dicendo. Moray lo fece alzare e lo portò a sedere sul divano. Gli portò dei fazzoletti di carta e si sedette accanto a lui, osservandolo con apprensione. "E' colpa mia," ripeté Gale, tentando di ottenere una voce chiara e nuovamente virile. Si sentiva un ragazzino. "Sono qui e questa è colpa tua. Ho avuto una vita abbastanza decente fino ad ora," tentò di sorridere Moray, "quello che sta succedendo ora non è colpa tua. Quello è capitato è basta." "Non è una punizione di Dio, Moray," asserì Gale con forza, prendendo l'altro per le spalle. "Ok, va bene." Gale non seppe se Moray avesse annuito per farlo star zitto o perché davvero ci credeva ma al momento non gli importava. Tenendo una spalla, Gale portò la mano libera nuovamente al volto di Moray, tastando la sua temperatura. "Sei stanco?" "Non abbastanza da non essere in grado di buttarti fuori a calci se ricominci a piangere." "Perfetto." Vedendo che Gale non faceva alcun segno di volersi muoversi, Moray spostò indietro il capo, interrompendo il contatto con la sua mano. "Ti avevo detto di non andare a cercare quella stupida stoviglia. Mi ricordo di averti dato dell'imbecille, l'ho fatto?" "Devo averlo rimosso," mormorò Gale. "Che tipo di cancro hai?" "Che cosa sai sul cancro?" "Nulla." "Allora non ha senso che te lo dica." "Mi informerò." Moray inarcò un sopracciglio e si lasciò sfuggire una breve risata. "Questa è la cosa più romantica che mi abbiano detto da anni," esclamò avvicinandosi velocemente al volto di Gale. Il biondo sobbalzò, spostandosi leggermente indietro. "Un tempo avevi paura che ti contagiassi con chissà quale peccato mortale, cos'era incesto?, ora hai paura che ti passi il cancro?" "Mi hai solo sorpreso," ammise Gale, arrossendo nuovamente. Senza dar tempo a Moray di rispondere, si inclinò verso di lui e lo baciò rapidamente sulle labbra. Il suo primo bacio ad un uomo in tutta questa vita. E la prima volta che lui baciava un uomo in tutte le sue vite. "Non morirai vero?" chiese poi quando si fu allontanato dalla bocca del padrone di casa. "Non lo so," rise Moray, "spererei di no." "Metterò le cose a posto. Te lo prometto." Moray non chiese come Gale sarebbe riuscito a mantenere una simile promessa. Lo osservò divertito ed esasperato quando Gale gli disse che doveva andare in un posto ma gli assicurò subito dopo che sarebbe tornato. Dovette cedere e lasciargli il suo numero di casa ed ascoltare le promesse di Gale su come tutto sarebbe tornato a posto. Ci volle un'altra mezz'ora perché Moray potesse riuscire a sbarazzarsi di lui e riavere per sé il suo appartamento. Ci volle un'ora intera perché lo stupido sorriso che si era impadronito della sua bocca scomparisse per lasciare spazio al sonno. La prima cosa che Samantha McCoy fece quando Gale gli disse di essere un vecchio amico di scuola di Percy fu di abbracciarlo. Non le capitava spesso che amici di Percy venissero a trovarla. Percy non aveva mai avuto molti amici; la gente tentava di evitarlo da quando, un pomeriggio del suo tredicesimo compleanno, iniziò ad urlare che era morto, che sua sorella era morta (quando Lucy stava perfettamente bene) e che tutto era perduto. Tutti gli invitati alla festa erano stati mandati a casa e loro volentieri erano fuggiti da quel bambino pallidino che descriveva una sorella che veniva dissanguata. Diedero la colpa alla televisione ma quando Percy iniziò a non essere più sicuro di chi fossero le persone attorno a lui dovettero ammettere che era qualcosa di serio. "E' un piacere conoscere uno degli amici di Percy," sussurrò la donna, tenendo Gale strettamente abbracciato a sé. "Mi dispiace di non essere venuto prima, l'ho saputo solo di recente." "Non ti preoccupare, è tutto a posto," lo assicurò Samantha. Da quando il suo Percy era morto la donna non era più sicura di quanti anni passassero e del tempo che correva. Gale sospirò di sollievo quando Samantha non gli chiese nient'altro su come si erano conosciuti ma si dilungò in una dettagliata descrizione del figlio. "E' sempre stato un ragazzo timido, piccolo, sai?" Gale si limitò ad annuire. Anche Percival era sempre stato notevolmente più basso di lui. Una stilettata di dolore si fece presto sentire all'idea che non aveva fatto in tempo a conoscere questo Percy. Avrebbe potuto aiutarlo a mettere a posto i ricordi, a distinguere gli amici di questa vita da i nomi dell'altra. "Ha fatto tutto il possibile," esclamò Gale, improvvisamente, ascoltando per la seconda volta il racconto della donna che descriveva la prima volta in cui portarono Percy da un neurologo. Samantha annuì. "Sto piangendo come una bambina, perdonami, Gale, ti preparo un caffé?" "No, non si preoccupi." "Io lo bevo, ne preparo uno anche per te. Ti piacerebbe vedere la stanza di Percy?" Forse Samantha voleva rimanere un attimo sola con il suo dolore (e Gale la capiva) o forse voleva mostrare altro del suo Percy all'amico Gale. Il ragazzo annuì e seguì le direttive della donna fino a che non si trovò di fronte ad una porta spalancata su una stanzetta ordinata e pulita. La luce era accesa ed il letto era fatto con una pesante coperta blu. La finestra di fronte al letto era chiusa, con tende azzurre, ed a sinistra vi era uno scaffale pieno di libri e fumetti. Un poster di un supereroe che Gale non aveva mai visto pendeva dalla parete sopra la scrivania. Non sapeva che cosa si aspettava di trovare in casa di Percy. Sperava in un indizio, in risposte alle sue domande. Guardò interessato i titoli dei libri e toccò con timore reverenziale una piccola moto di plastica. Era tutto così strano e surreale. Sulla scrivania trovò un piccolo libro rosso e quando lo aprì arrossì nello scoprire che altro non era che il suo diario. Probabilmente Samantha lo leggeva spesso, meditò Gale, sedendosi ed aprendolo. "Perceval, perdonami, ma devo saperne di più." Ed iniziò a leggere aprendo a metà. 6 Ottobre 1992 Oggi continua a piovere. Mia madre dice che è normale che piova sempre perché siamo in Inghilterra. Questa mattina però ero sicuro che ci fosse il sole e ne sono ancora sicuro, sono certo che se aprirò la finestra il rumore della pioggia scomparirà e tornerà il sole. Vedrò anche i cavalli. Lamorak dovrebbe essere appena tornato dalla caccia. Mi chiedo dove sia finita Dindrane. Mia madre dice che mia sorella è in camera sua ma quando provo ad entrare vedo solo Lucy. 10 Ottobre 1992 Ho sognato di Camelot. So che non è vero, ora lo so, ma devo sottolinearlo bene, scriverlo qui in grande così che io possa poi tornare a queste pagine e rivedere il tutto. Mia madre dice che non sto bene, che probabilmente è un problema neurologico e che gli psicologi sono dei ciarlatani. 4 Novembre 1992 Oggi io sono partito da Camelot per la Cerca. Ammetto che quest'avventura mi emoziona molto e so bene che Dio mi ha allevato e cresciuto per questo momento. Per il momento in cui troverò il Graal, la sacra coppa. Gale osservò le pagine successive del diario. Descrizioni di giornate a scuola unite a nomi di persone che in quell'epoca non erano mai vestite. Narrazioni di tornei di Camelot e subito dopo frasi su Lucy o su un amico di nome Tom. Film visti al cinema, canzoni ascoltate alla radio e nuove armature. Il tutto unito, confuso in modo così elegante da sembrare quasi naturale. 22 Luglio 1996 Oggi Dindrane è morta. Si è lasciata morire per salvare una donna che aveva il doppio della sua età. Ho visto il sangue lasciare il suo corpo, volontariamente fuggire da lei. Prima di morire mi ha sorriso. "Lo faccio perché è giusto," mi ha sussurrato. Lo stava facendo perché Dio l'aveva portata lì per uno scopo ed anch'io ho uno scopo. Devo trovare il Graal. Dio ha messo me, Galahad e Bors su questa strada e ci ha fatto affrontare il terrore e le tenebre ma io non ho ancora perso la speranza. 30 Luglio 1996 Lucy mi ha lanciato addosso il suo lettore cd e mi ha dato del pazzo. So che sono in molti a pensarlo e probabilmente hanno ragione. Il mio psichiatra dice che è una forma di schizofrenia e che tutto ciò che vedo dall'altra parte non esiste. Non capisco più niente e spero che- 7 Settembre 1997 Sono mesi che non riesco a pensare ad altro. Ho trovato il Graal solo qualche giorno fa eppure sono ancora vivo. O forse l'ho trovato dall'altra parte mentre qui deve ancora arrivare. So che mi troverà anche da questa parte ed io non voglio. 20 Settembre 1997 Galahad mi ha detto che il Graal verrà a prendermi anche da questa parte. Lucy è andata via di casa, vuole sposarsi ed avere dei figli e vuole stare lontana da me. 14 Dicembre 1997 La nostra casa è bellissima. La mamma ha addobbato un enorme abete (finto, ovviamente) e tutto il corridoio è pieno di luci colorate. Oggi sono andato a comprare un regalo per lei e per Lucy ma ancora non ho trovato nulla di abbastanza economico. Pensavo ad un libro. 3 Gennaio 1998 Non riesco più a sognare Dindrane. Ho sognato il Graal questa notte. E tutte quelle scorse. Non l'ho mai visto in modo così chiaro come ora. So di non averlo davvero visto da questa parte ma solo nell'altra parte della mia vita ma una parte di me è cosciente del fatto che tornerà. Torna sempre, me lo ha detto. Tornerò, Percival, ti troverò ancora. Dammi quello che hai, ti prego. Aveva detto così. Non aveva la forma di un uomo o di una donna, era solamente un'ombra scura. Mi ricordo quando lo vidi per la prima volta. Un'ombra scura che si avvicina. I movimenti di un piccolo coniglio che ha appena fiutato una preda. Ma è una sciocchezza, vero? I conigli non sono carnivori. 4 Gennaio 1998 So che tornerà. Mia madre dice che sono solo sogni. Lucy oggi mi ha abbracciato e mi sono sentito così solo. Nessuno mi conosce davvero e io non riesco davvero a conoscere nessuno. E lui tornerà. Prenderà tutto un'altra volta, l'ho sempre saputo perché lo sento. Il Graal è sempre con me, osservandomi, aspettando che io abbia abbastanza da donargli. Lo sento. E' su di me, come un parassita. Ed aspetta e aspetta e aspetta. Non voglio che vinca lui. Devo fare qualcosa ma non so cosa. 6 Gennaio 1998 Forse se io morissi prima che lui possa toccarmi sarebbe davvero la fine.
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