10-06-2016, 12.49.25 | #291 |
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L'IMMORTALE RITRATTO DI UNA GAZZA DI SVENTURA: BATTISTA SFORZA
Scarse sono le notizie su Battista Sforza Montefeltro. L’ultima biografia, breve ma sistematica, risale al 1795, realizzata da Nicola Ratti all’interno del volume Della Famiglia Sforza. Quel poco che si sa di Battista, frutto più di leggenda che di ricerca storica, è un destino comune a tante “principesse” del Rinascimento italiano. I documenti rivelano il loro ruolo nella conquista e gestione del potere, accanto ai loro mariti. Come afferma la Mazzanti, alle “principesse”, durante le lunghe assenze dei rispettivi mariti, è demandato il compito del buon governo dei popoli. Infatti, su una situazione di pace interna, di corretta amministrazione della giustizia, di una tassazione meno gravosa possibile, di grandi opere edilizie, il principe fonda il mantenimento del potere, mentre la fama della sua forza economica, politica e militare diventa elemento indispensabile di sopravvivenza. Si cerca di garantire il successo raggiunto con alleanze politiche importanti e un’attenta politica matrimoniale che lega casate da un capo all’altro della penisola. L’intreccio di parentele diventa spesso così stretto da rendere a volte necessarie, come nel caso di Battista e Federico, dispense papali per rimuovere l’ostacolo della consanguineità. Su questo panorama, si staglia la personalità singolare di Battista Sforza, donna intelligente, colta, atta al governo. Alla grande cultura della contessa va ricollegata la formazione della grandiosa biblioteca del palazzo urbinate, che trova degna collocazione nel salone appositamente costruito per ospitare codici rari e preziosi. Battista è creatura viva e vivace, con la convinzione che la cultura sia a servizio della vita attiva, posizione nella quale si ritrova una giustificazione della cultura umanistica femminile che perdura nel tempo. Figlia di Alessandro Sforza e Costanza Varano, nasce a Pesaro nel 1446. In tenera età, è condotta a Milano presso lo zio Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, e qui entra a contatto con un circolo di giovani letterati. Moglie di Federico da Montefeltro dal 1460, sa conciliare la cultura umanistica con la sua condizione di donna del tempo, apprezzata fortemente per le sue virtù e per la capacità di occuparsi con ottimi risultati, durante le assenze del marito, dell’amministrazione dei suoi possedimenti. Nel 1461 è accolta a Roma dal pontefice Pio II, davanti al quale la contessa recita un’elegante orazione, da cui emerge la sua cultura e in particolare l’insegnamento di Martino Filetico, che nelle Iocundissimae Disputationes riporta la dissertazione di Battista con il fratello Costanzo sulla superiorità della lingua greca rispetto a quella latina. Le Disputationes danno un ritratto vivo della duchessa, segnato anche dalla presenza di alcuni toni colloquiali e di garbata ironia; si riferiscono poi all’esercizio di funzioni pubbliche e rivelano l’interessamento della duchessa ai preparativi militari. Battista è erede di una tradizione al femminile che inizia con la bisnonna Battista Montefeltro, la figlia di lei Elisabetta Malatesti Varano e la nipote Costanza Varano Sforza. Sono donne note in campo letterario e politico che, nonostante l’inferiorità femminile sancita dalle dottrine del tempo, sono parte attiva nella conquista e mantenimento del potere dei mariti. La cultura di queste donne è usata anche politicamente in orazioni rivolte a imperatori o a pontefici, nelle quali rivendicano i diritti della propria casata: a contatto con i maggiori letterati del tempo, sanno utilizzare il latino e il volgare. Lo studioso Guido Arbizzoni delinea la figura di Costanza da Varano, madre di Battista e Costanzo, morta ventunenne nel 1447. Battista, nella sua breve esistenza, sembra reincarnare la madre, donna straordinariamente colta e letterata, in relazione con illustri umanisti. Costanza era stata in grado di fronteggiare, con iniziative politiche personali, le avversità che avevano colpito la sua famiglia, come quando, ancora sedicenne, pronunciò un’orazione davanti a Francesco Sforza per ottenere la restituzione della signoria al fratello Rodolfo. Della madre Costanza si avverte la mancanza nell’indipendenza un po’ indisciplinata di Battista, la sua abitudine al comando, dovuta forse al senso di superiorità nei confronti delle altre donne, inferiori per educazione e cultura, o per il fatto di essere sola a prendere decisioni sulla sua vita. La zia Bianca Maria sarà il modello dell’esistenza di Battista; simile è il carattere e il destino di entrambe: hanno mariti più anziani di loro di cui sono innamorate e da cui sono riamate, sono donne energiche, atte al governo, che affiancano i coniugi, non solo nella scalata al potere, ma anche sui campi di battaglia. Non sono riconducibili a stereotipi, perché troppo colte per l’immagine di donna sposata, reggono lo Stato senza rinunciare alla loro femminilità, non mettono la loro cultura all’esclusivo servizio di Dio e, anche se mogli e madri felici, svolgono attività politiche, culturali, legislative, suscitando l’ammirazione dei contemporanei. Nicola Ratti nel secondo volume Della famiglia Sforza, nel capitolo relativo a Battista Sforza, afferma “Potrà trovarsi donna più diligente ed attenta nell’amministrazione delle cose domestiche di Battista? Eppure fu lei stessa che si applicò insieme alle buone lettere e con tanto successo. Si dica, ora, che lo studio delle medesime non è per le donne. Noi non pretendiamo già che debba esser questo un punto fisso e indispensabile per la loro educazione. Si applichi ognuno a ciò che è coerente alla sua nascita, alla propria condizione, al sesso e giacché delle donne parliamo, siano le loro principali occupazioni i lavori muliebri, la cura dei figli. Ma se talvolta si fanno ad esse apprendere altre cose ancora che accrescano il numero delle loro qualità ed ornamenti, non sappiamo persuaderci perché abbiano a scegliere quelle che atte sono unicamente ad ammollire i costumi, e non piuttosto le umane lettere che istruiscono e formano la persona.” Battista inizia a rendersi conto di cosa significhi nel suo mondo essere nata donna; questa nuova consapevolezza fa sì che non ci “fu donna veramente in Pesaro che in lavori di tela, d’ago, d’oro, di seta fosse eccellente ch’ella non la volesse per maestra. Quindi al governo et alla cura famigliare si rivolse tanto che in breve operò sì che nel regimento della casa d’Alessandro pareva che Costanza fosse resuscitata”. Diventata contessa di Urbino, pretende la stessa abilità dalle “donne ch’ella aveva in casa, che erano con una bellissima disciplina governate et non erano mai lasciate otiose; né solamente voleva che sapessero lavori delicati, ma filare ancora et governar la famiglia, facendole essere al far del pane et del bucato; dicendo loro che se fossero per andar a marito voleva che sapessero tutto quello che al governo della casa era necessario”. Tutto questo “accanto allo studio delle lettere non mai dimenticato”. Tutti gli autori del tempo scrivono delle nozze di Federico e Battista, delle feste grandiose a Pesaro e a Urbino, in particolare Ser Gaugello de la Pergola ne parla nelle sue opere De vita et morte del 1472 e Il Pellegrino del 1464. Nel De vita egli narra l’addio di Battista alla sua città natale e la gioia degli urbinati al suo arrivo. L’arrivo della nuova duchessa nei territori del consorte assume una tipologia che esalta la stirpe della sposa e le virtù che la rendono degna moglie del principe. Legata alla cerimonia cavalleresca dell’investitura, la sposa è accolta da un corteo che, muovendo dai confini del suo nuovo Stato, la accompagna fino alla capitale, mentre tutti sono in festa. Ser Gaugello ne Il Pellegrino dedica un capitolo intero alla descrizione delle nozze, soffermandosi sugli addobbi delle sale della residenza del conte di Urbino. Gli ospiti di riguardo sono accolti nelle stanze riscaldate, in strutture confortevoli, ambienti appositamente e provvisoriamente edificati nella piazza davanti all’abitazione del conte. Il matrimonio è un’occasione importante di incontro di uomini politici che discutono dei loro interessi e della situazione generale. Le lettere dell’oratore milanese e tutte quelle in partenza da Pesaro e da Urbino danno ampie informazioni sugli ospiti d’eccezione, tra i quali si intrecciano fitti colloqui sul difficile momento politico e sui provvedimenti da prendere per la guerra nel regno di Napoli. Le nozze sono comunque un’occasione di festa e allegria, unite ai festeggiamenti per il carnevale. La stessa Battista Sforza viene ricordata da molti biografi per i motti spiritosi che dimostrano la sua notevole arguzia. Così, nemmeno due mesi dopo le nozze, Battista, già in attesa del primo figlio, rimane a reggere lo Stato durante una delle più lunghe attese del marito, impegnato lontano in una guerra difficile. “Baptista, sposa illustre, deponendo ogni mollicia, come cupida de vera gloria, aiutava cum omne sollecitudine l’andata del marito, fin ad aiutarlo cum le proprie mane armare. Et in questo principio remase al guberno cum tanta prudencia et animo che facea de maraviglia stupire altrui; per il che tutti li suoi populi ne haveano grandissimo conforto”. Battista dà subito prova di una forza d’animo senza cedimenti, che le consente di svolgere il suo nuovo ruolo, aiutando addirittura il marito ad indossare l’armatura, desiderosa solo di sostenerlo con il conforto della forza del suo carattere. Quando i mariti sono assenti, spetta alle mogli anche questo compito. Il vescovo Campano riferisce come Battista “si rivolse alla cura dei confini, ricostruendo le rocche, fabbricando magnanimamente e Federico la gloria non mai sì grande avrebbe conseguito se non avesse potuto lasciare a casa questa Padrona di tutto e certamente nata per comandare.” Quella del vescovo è un’orazione funebre letta pubblicamente alla presenza dei potenti d’Italia, a Urbino per commemorare Battista. La formazione della parte più cospicua della biblioteca di Federico è datata tra gli anni 60 e 70 del XV secolo. Proprio nella seconda fase dei lavori a palazzo, coincidenti con l’età in cui Battista è contessa, viene costruito il salone per ospitare i preziosi codici che il conte fa venire da ogni dove, avvalendosi del libraio fiorentino Vespasiano da Bisticci. Accanto ai grandi volumi di rappresentanza, vi sono anche i piccoli, maneggevoli, fatti per essere letti, trasportati, come i Paradoxa di Cicerone, che Battista tiene sul suo altarino, in camera da letto. Piero della Francesca dà un’iconografia insolita della contessa, che testimonia come l’interesse per i testi sacri e profani sia uno dei motivi portanti della sua esistenza e come questa cultura umana possa essere il tramite con la cultura divina, tanto che è inimmaginabile anche nell’aldilà che Battista non legga. Federico, seppur non ami i libri stampati, fa stampare l’orazione funebre del vescovo Campano riguardante Battista, perché sia diffusa in tutte le corti, per far conoscere la vita attiva della moglie. Nell’intensa attività di Federico Veterani risalta un volume miscellaneo che l’autore dedica al suo principe, in cui sono raccolti tutti i componimenti inviati a Federico in occasione della morte dell’amata seconda moglie. Un volume, anteriore al 1474, ha come sua particolarità la presenza dell’anello sforzesco dipinto, al centro del margine superiore del frontespizio. Questo indizio consente di collegare il libro alla giovane e colta moglie di Federico. Tale anello compare solo in un altro codice urbinate, quello madrileno dei Trionfi di Petrarca: qui ricorre sia all’interno della ricca ornamentazione del frontespizio, sia nella decorazione sovrastante il Trionfo di Amore, e questo secondo particolare può essere un omaggio del duca alla moglie defunta. Si tratta inoltre di una raccolta di testi metrici e retorici che sembra rispondere alla richiesta che Battista rivolge all’umanista Martino Filetico suo maestro, all’inizio delle Iocundissimae Disputationes. Il testo si apre con la richiesta di Battista di apprendere “la quantità delle sillabe” per apprezzare a pieno i grandi poeti antichi. Battista sapeva leggere e apprezzare queste opere ed è probabile che si sia adoperata per procurarle e farle copiare a Urbino. Buona parte di manoscritti arrivarono a Urbino prima della sua morte e le sue scelte orientarono lo sviluppo della collezione libraria. Il precoce acquisto di testi grammaticali e retorici suggerisce l’influenza della donna e di Martino Filetico; oltre a quelli più classici e diffusi, ci sono anche autori minori in miscellanee copiate o assemblate a Urbino. In un passo delle Iocundissimae Disputationes, Battista domanda alla sua ancella di portarle i Paradoxa Stoicorum che sta analizzando e il codice che contiene l’opera è stato confezionato a Firenze tra il 1460 e il 1470, quando Battista è a Urbino. Il De Saturnalibus di Macrobio, citato nelle Iocundissimae Disputationes, è stato prodotto dallo scriptorium urbinate prima della morte di Battista. L’alta frequenza nella biblioteca federiciana dei Codici miniati da Francesco Rosselli, con la pagina rosselliana che costruisce fregi metallici o orafi, che somigliano a gioielli, crea un paragone tra i clipei del titolo, cinti da file di perle intercalate a pietre preziose e il collare al collo di Battista nel dittico, così i preziosi castoni e le broche che fermano i capelli della contessa, disseminati nelle pagine urbinati. La biblioteca dei duchi di Urbino, traslata a Roma nel 1657, è custodita tuttora presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Ben prima del trasferimento definitivo, a cominciare dal sacco del Valentino, nel 1502, la biblioteca subì traslochi e traversie che furono occasione per la dispersione di un numero non irrilevante di libri: la perdita di gran lunga più grave, tuttavia, fu quella del suo ordine originario, ordine in parte recuperabile a cominciare dal cosiddetto Indice vecchio. Dopo la nascita del tanto atteso erede maschio Guidobaldo nel 1472, Battista si ammala e muore. Il 17 agosto si tiene la solenne commemorazione, l’orazione del Campano e i Threnos panegyricos di Martino Filetico in onore dell’allieva. Il Filetico, in una nota marginale ai Threnos panegyricos, dirà che Battista ha lasciato molte lettere, epigrammi molto belli ed una elegantissima traduzione latina dal testo greco dell’orazione di Isocrate a Demonico. Il vanto del Filetico di aver proprio lui guidato l’educazione di Battista, diventerà esplicito quando ricorderà anche l’attività letteraria e l’orazione pronunciata a Roma nel 1461 dinanzi a Pio II “Glorior hanc tecum plures docuisse per annos teque probasse meas, Calliopea, manus; me duce Parnassi studiosa cacumina montis scanderat, et colles Cirrha benigna, tuos; permessi sacro biberat de fonte liquores, Hippocrineas, me duce, novit aquas. Scripserat hinc quaedam teneris, nec fallor, ab annis, docta fuit prosa, carmine docta fuit et potuit rerum dubias conoscere causas: non modo grammaticam novit et historias. Hac orante patres sacri Hupuere senatus, obstupuit praeses maximus ecclesiae.” La morte di Battista è un evento che permette di misurare il prestigio politico di Federico, in base alle attestazioni di cordoglio e alla vastissima partecipazione alle esequie, sontuose “quanto mai se facessero per alcuno dignissimo principo o principessa”, e consente anche di riconoscere il personale profondo coinvolgimento di Federico sul piano degli affetti. Sulla via del ritorno, dopo l’espugnazione di Volterra, appreso dell’infermità e del pericolo di vita di Battista, accorre a Gubbio appena in tempo per accoglierne le ultime parole e, dopo la morte di lei, dichiara all’ambasciatore dei Gonzaga la sua intenzione di non prendere più moglie. Le due commemorazioni ufficiali sono affidate al Campano ad Urbino e al Collenuccio a Pesaro, mentre il Codice Urb. Lat. 1193 contiene, oltre a queste, le ulteriori testimonianze di condoglianza di principi e letterati. Da questi testi nasce la fissazione dei tratti biografici essenziali che andranno a costituire la leggenda di Battista. Giovanni Antonio Campano più volte dimora a Urbino, sempre accolto da Federico con segni di affetto e stima e a lui tocca, nell’estate del ’72, la mesta incombenza di pronunciare l’elogio funebre sul feretro di Battista Sforza. L’ambiente dei poeti e dei artisti vive quella perdita con grande partecipazione, i poeti italiani ricambiano l’accoglienza e le attenzioni che Urbino riserva loro. Giovanni Santi definisce il giorno della morte della duchessa “giorno da bestemmiare”, non riuscendo a sopportare la violenza e l’ingiustizia con la quale la signora è stata portata via. Il cardinale Bessarione, fedele amico e spirito guida di Federico, coglie perfettamente il dolore del duca. Molti altri scrivono poemi, lettere, carmi, discorsi: Federico Veterani raccoglie tutto in un volume di più di 110 fogli; Porcelio Pandoni, devoto a Battista, sublima il dolore e la dedizione narrando del dolce legame d’amore che ha unito Battista a Federico.In tutte queste opere sono descritte le virtù di Battista che rendono così grave il lutto e le motivazioni consolatorie. La profonda unione di Federico e Battista, durata dodici anni, dalla quale nascono otto figlie e un erede maschio, è sottolineata anche dal posto d’onore che Federico le concede nel dittico di Piero della Francesca, che immortala i due coniugi e che è considerabile un omaggio postumo all’adorata moglie. Post mortem sono anche la maggior parte delle raffigurazioni di Battista. Il celebre dittico mostra i due conti di profilo. La rappresentazione dignitosa e monumentale della contessa, riccamente abbigliata e ornata da gioielli, è caratterizzata dall’espressione di profonda calma e assoluta pace. Sul retro ci sono i due carri trionfali dei coniugi: Battista è raffigurata mentre è intenta a leggere e l’iscrizione sotto il trionfo la celebra come “Colei che mantenne la moderazione nelle circostanze favorevoli vola su tutte le bocche degli uomini adorna della lode delle gesta del grande marito”. Le figure allegoriche sembrerebbero indicare le virtù dei ritrattati. Piero della Francesca trae ispirazione dal busto della contessa realizzato da Francesco Laurana, ora al Bargello. Il busto deriva da una maschera funebre di Battista, al Louvre, modellata sul calco preso alla sua morte. La scultura di Laurana è idealizzata e priva di drammaticità; la geometria e la nitidezza delle forme donano al ritratto un forte senso di solidità e di armonia. I pittori e gli scultori legati a Battista non sono da meno: Domenico Rosselli ne scolpisce il busto con una tale immediatezza d’impressioni da far sembrare vivo e palpitante quel marmo; Piero della Francesca, colpito nel profondo, riversa in un dittico con i ritratti dei due coniugi tutta l’ammirazione e il rispetto che ha per Battista. Piero dipinge il retto e il verso di due piccole tavole, perché Federico possa sempre averle vicine a sé: sul retto ci sono i ritratti dei duchi e Battista ha il lato sinistro di chi guarda, il lato d’onore. Piero non ha mai dipinto la contessa da viva: lavora al ritratto del dittico, confidando inoltre sull’esempio di un bassorilievo, che il giovane Francesco di Giorgio Martini ha scolpito qualche tempo prima, e sul ricordo e sulle emozioni che la giovane gli ha trasmesso. L’osservazione di Eugenio Battisti che il ritratto di Piero, come quello di Laurana, si basa su una maschera funeraria del soggetto, è corretta, e si potrebbe perciò datare il dittico degli Uffizi a dopo il 1472. Il confronto del dipinto di Piero con il busto di Laurana è decisivo. Se la versione di Laurana precede cronologicamente il ritratto di Piero, allora è ragionevole supporre che il pittore tenga presente la scultura per la sua versione di Battista. Alcune specifiche osservazioni di carattere stilistico potrebbero indurre a ritenere che Piero abbia tratto ispirazione proprio da Laurana. Dal punto di vista estetico, il ritratto di Piero incarna stilizzazioni tipiche del suo linguaggio, come la forma della fronte, degli occhi e del collo, volutamente impiegate per assicurare una rappresentazione dignitosa e monumentale della contessa, caratterizzata dall’espressione di profonda calma e assoluta pace. Una tale immagine comunicava pienamente, secondo la sensibilità del tempo, la dignità spirituale della persona. La scultura di Battista Sforza di Laurana riesce a illustrare con successo lo stesso complesso di valori. Inoltre ho avanzato l’ipotesi che, tra le varie rappresentazioni post mortem della contessa, omaggi di Federico da Montefeltro alla memoria della consorte, ci possa essere anche la Natività di Piero della Francesca dove, nelle vesti di Maria, può celarsi Battista e, nei personaggi che la circondano, suoi familiari e membri della corte urbinate. Nella Natività, Battista Sforza è individuabile nelle sembianze di Maria, per il volto, che ricorda molto il dittico di Piero della Francesca, il busto di Laurana e il ritratto giovanile nel Trittico Sforza, eper il vezzo della contessa di ornarsi di perle e pietre preziose. Mi baso anche sulle testimonianze storiche circa le caratteristiche fisiche di Battista, quali risultano tra gli altri, dal De Baptista di Sabadino degli Arienti, Historia de’ fatti di Federico di Montefeltro Duca d’Urbino di Gerolamo Muzio, Feltria di Porcelio Pandoni. Dell’atteggiamento regale del volto e di tutto il corpo, della dignità solenne, parla Pandolfo Collenuccio nel Codice urbinate latino 1193. Il poeta Porcelio Pandoni nel Feltria descrive i capelli biondi dono di Venere “crine venus flavo et forma decoravit et ore”. Nei personaggi che circondano la Madonna, identifico, nei volti dei pastori, Luca Pacioli e Piero della Francesca, alle spalle dei quali si scorge una veduta di Sansepolcro, luogo natio di entrambi. Nel pastore sulla destra ravviso, attraverso le somiglianze fisionomiche, il frate francescano e noto matematico Luca Pacioli, secondo Pier Gabriele Molari, precettore di Guidobaldo, figlio di Battista. Il Molari evince ciò dall’inventario dei beni più pregiati dell’eredità di Vittoria della Rovere, dove si dice che il quadro di Jacopo de’ Barbari, Ritratto di Luca Pacioli, raffigura i precettori di Guidobaldo, Luca Pacioli e Piero della Francesca. Il frate matematico Luca Pacioli, introdotto a Urbino da Piero della Francesca, dedica la Summa de aritmetica geometria proportioni et proportionalità a Guidobaldo, figlio di Battista e Federico. Negli angeli, ipotizzo di individuare alcuni figli della coppia, alla luce del confronto iconografico con gli angeli della Pala di Brera, che Molariidentifica con alcuni figli di Federico e Battista, riferendosi alla testimonianza del manoscritto urbinate latino 1204, nel quale i figli dei conti sono elencati in base alla rilevanza che avevano a corte. Giuseppe, con lo sguardo rivolto fuori dalla scena, a contemplare un paesaggio individuabile come quello di Montecopiolo, dove sorgeva anticamente il castello dei Montefeltro, sembra alludere a Federico. Il Bambino non è tenuto tra le braccia della donna, ma giace a terra, a significare l'impossibilità per lei di sostenere il tanto atteso erede maschio Guidobaldo, perché deceduta pochi mesi dopo la sua nascita, in seguito alle complicanze del parto, nel 1472. Il dipinto è pertanto un tributo a Battista, morta prematuramente dopo la nascita del figlio, sventura di cui è presagio la gazza che si trova sul tetto della capanna. Taliesin, il Bardo tratto da: www.bta.it
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14-06-2016, 09.41.42 | #292 |
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Che personaggio carismatico ..una donna che è emersa da sola a quella epoca per le sue virtù.
È proprio vero..dietro un uomo vi sta una grande donna in questo caso. Grazie Sir Taliesin...sempre lieta di leggere qualcosa di veramente coinvolgente.
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14-06-2016, 16.27.54 | #293 |
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LE QUATTRO MARIE: LA BALLATA DI MARY HAMILTON.
Mary Hamilton" o "The four Maries" è una ballata scozzese del 1500 riportata anche in Child # 173 (27 versioni). La melodia è stata attribuita a David Rizzio musicista e compositore piemontese alla corte di Maria Stuarda, diventato segretario personale della Regina. Il tema della ballata, l'infanticidio per mano di Mary del figlio illegittimo, richiama un fattaccio realmente accaduto durante il regno di Maria Stuarda nel 1563: una damigella francese arrivata ad Edimburgo al seguito della Regina ebbe una tresca con il farmacista reale e venne impiccata per aver annegato il bambino appena nato. Lo scandalo dietro al fatto è che il figlio poteva essere di Lord Darnley, pretendente e futuro marito di Mary Stuart. "La leggenda narra che David Rizzio, intimo amico di Darney, conoscesse bene esistenza e retroscena della tresca, perciò ne scrisse la musica e ne compose i versi. Lord Darnley se l’ebbe a male o, come si suol dire, se la legò al dito. Si dice che l’averne scritto una ballata presto molto popolare, contribuì al deterioramento della loro amicizia che porterà poi a ben più gravi intrighi di palazzo e all’omicidio di Rizzio." La Maria dell'omicidio non era una delle quattro dame di compagnia della regina anche se la ballata è anche intitolata "The four Maries", il nome della damigella di corte potrebbe essere stato modificato in epoca successiva a seguito di un fatto di cronaca altrettanto scandaloso avvenuto però nientemeno che in Russia: Mary Hamilton di origini scozzesi era diventata la dama di compagnia di Caterina I di Russia: per la sua bellezza ebbe alcuni amanti tra cui anche lo Zar. Mary fu uccisa per decapitazione nel 1719 per aver annegato il bambino partorito in segreto. La ricerca della Mary Hamilton storica si è rivelata appassionante, ma non ha portato ad alcun risultato concreto. Esisteva in effetti un gruppo di ancelle di Maria Stuarda, chiamato popolarmente "Le quattro Marie", ma non ne faceva parte alcuna Mary Hamilton. Il suo delitto ed il suo castigo, tuttavia, sembrano ricalcare uno scandalo avvenuto durante il regno di Maria Stuarda, che coinvolse una servitrice francese giustiziata per aver ucciso suo figlio appena nato. Non fu Darnley, il principe consorte (ovvero "il più nobile di tutti gli Stuart"), bensì il farmacista di corte (ovvero il capo della servitù) ad essere complice della francese, sia nell'amore che nel crimine. Il fatto accadde nel 1563. Nel 1719 una bella damigella d'onore alla corte di Pietro il Grande, scozzese di nascita e chiamata appunto Mary Hamilton, fu decapitata per infanticidio. Altre circostanze di questo fatto, oltre al nome, si rispecchiano nella ballata: ad esempio, la ragazza si rifiutò di salire sul patibolo vestita in modo sobrio. Il suo amante, poi, era anch'egli un nobile cortigiano. Saremmo tentati di considerare la ballata nient'altro che una rielaborazione degli avvenimenti russi del 1719, se non fosse per il non trascurabile fatto che essa era già stata udita in Scozia ben prima di quell'anno. Tale versione attribuiva probabilmente il delitto alla servitrice francese ad una delle "quattro Marie"; forse qui può aver giocato anche il fatto che, in Scozia, il termine mary indica genericamente una servitrice o una dama di compagnia. In effetti, esiste una versione di Mary Hamilton (Child, IV, 509) in cui la ragazza è chiamata semplicemente Marie ed il suo amante è un "erborista", ovvero il farmacista di corte degli annali criminali. Verosimilmente, le notizie provenienti da San Pietroburgo e l'intrepido comportamento dell'autentica Mary Hamilton sul patibolo della lontana Russia "catturarono" talmente l'immaginazione degli scozzesi, che l'antica ballata fu rimessa in auge ed adattata alla nuova eroina. Una versione più tarda della ballata, consistente nel solo "ultimo discorso" sul patibolo, è una delle più note "Last Goodnight Ballads". L'aria autentica è stata conservata da Greig, p. 109, ed è stata naturalmente utilizzata da Joan Baez per la sua versione (in The Joan Baez Ballad Book, II) nonché ripresa da Angelo Branduardi per il suo adattamento italiano (intitolato "Ninna Nanna"), nella quale però il nome della protagonista non è menzionato. Trattandosi di una ballata molto antica inevitabilmente si riscontrano numerose varianti testuali. La versione più diffusa oggigiorno è quella più tarda dell'ultimo discorso sul patibolo in cui Mary chiede il perdono e la grazia: il testo è più inglesizzato rispetto alle stesure più antiche in scozzese. Tra le versioni testuali più estese quella riportata da Cecil Sharpe: qui Mary è data per essere una delle quattro Marie, dame di compagnia della Regina e amante di Lord Darnley. Il bambino viene annegato dalla madre accusata d'infanticidio, processata e impiccata. Eppure ella non rinuncia alla vanità e per non sminuire la sua bellezza indossa l'abito più bello e soprattutto bianco a indicare la sua innocenza: si insinua che il vero colpevole sia l'uomo che, dall'alto della sua posizione sociale l'ha sedotta o più probabilmente violentata; lei però ha abbandonato il neonato al destino lasciandolo in balia del mare e pagherà per tutti e due! NINNA NANNA ("Cogli la Prima Mela" -1979) Il testo tradotto e riscritto dalla moglie Luisa Zappa riprende poeticamente in parte la versione ottocentesca riportata da Cecil Sharpe. "L'ho addormentato nella culla e l'ho affidato al mare, che lui si salvi o vada perduto e mai più non ritorni da me". L'hanno detto giù nelle cucine; la voce ha risalito le scale e tutta la casa ora lo sa: ieri notte piangeva un bambino. L'hanno detto giù nelle cucine e tutta la casa lo sa che ieri lei aveva un bambino e che oggi lei non l'ha più. "Adesso alzati e dillo a me, lo so che avevi un bambino, tutta la notte ha pianto e perché ora tu non l'hai più con te". "L'ho addormentato nella culla e l'ho affidato al mare, che lui si salvi o vada perduto e mai più non ritorni da me". "Adesso alzati, vieni con me questa sera andremo in città, lava le mani, lavati il viso, metti l'abito grigio che hai". L'abito grigio non indossò quella sera per andare in città, vestita di bianco la gente la vide davanti a se passare (1) "La scorsa notte dalla mia padrona le ho pettinato i capelli poi mio figlio ho addormentato e l'ho affidato al mare"... Non lo sapeva certo mia madre quando a sè lei mi stringeva delle terre che avrei viaggiato, della sorte che avrei avuta. "L'ho addormentato nella culla e l'ho affidato al mare, che lui si salvi o vada perduto e mai più non ritorni da me". Taliesin, il Bardo
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14-06-2016, 16.46.21 | #294 |
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Sir Taliesin..solo il mare sa la verità..quel mare a cui lei lo ha affidato..forse inconsapevole di ciò che stava facendo o forse a mente lucida.
Un mistero, questo di Mary Hamilton, da scoprire e che mette in risalto il libertinaggio di certe Corti. P.s. Per una sorta di strana empatia che sempre ci unisce..la mia principessa maggiore indosserà sabato il vestito scozzese per ballare proprio una ballata scozzese sulle punte..ma certo meno drammatica. Grazie come sempre mio caro amico bardo.....
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16-06-2016, 10.52.57 | #295 |
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...e sempre per quella sorta di empatia che sovrasta gli spazi di luogo e di tempo, la mia Musica sarà presente in un' antica villa etrusca dove verrà apparecchiato un Convivio per due giovani sposi. Nell'euforia dei festeggiamenti quando il vino della leggiadria e della spensieratezza lascerà spazio a momenti di riflessione e cupa malinconia, intonerò per il vostro Gioiello "Ninna Nanna"...
Taliesin, il Bardio
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"Io mi dico è stato meglio lasciarci, che non esserci mai incontrati." (Giugno '73 - Faber) |
16-06-2016, 12.35.03 | #296 | |
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Qual più bel regalo potreste fare..quella "ninna nanna" la cullera' proprio del sogno appena vissuto sul palco..Lei a cui ho dato, sempre per quella strana empatia, un nome etrusco. Grazie Sir Taliesin....
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"Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte". E.A.Poe "Ci sono andata apposta nel bosco. Volevo incontrare il lupo per dirgli di stare attento agli esseri umani"...cit. "I am mine" - Eddie Vedder (Pearl Jam) "La mia Anima selvaggia, buia e raminga vola tra Antico e Moderno..tra Buio e Luce...pregando sulla Sacra Tomba immolo la mia vita a questo Angelo freddo aspettando la tua Redenzione come Immortale Cavaliere." Altea |
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04-07-2016, 15.48.49 | #297 |
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LA COSTRUTTRICE DI MONASTERI: BERTA DI BLANGY.
Sembra un destino già stabilito, ma tutte le sei sante o beate di nome Berta, destinatarie di un culto ufficiale, vissero buona parte della loro vita e fino alla loro morte, come badesse di monasteri e quasi tutte nel XII secolo. La santa Berta di cui parliamo, nacque invece in Francia nel 640 ca. da Rigoberto, conte palatino sotto il regno carolingio di Clodoveo II (638-656) e da Ursona; a vent’anni sposò un parente del re di nome Sigfrido, dal matrimonio nacquero cinque figlie. Vent’anni dopo nel 680, rimasta vedova, poté a 40 anni seguire la sua personale vocazione monastica, a cui aveva dovuto rinunciare per i soliti motivi di Stato. Si narra che costruì ben due case di preghiera, ma entrambe crollarono dopo un po’ di tempo, a questo punto le apparve un angelo che indicò il luogo adatto per la costruzione e qui sorse nel 686 il monastero di Blangy nell’Artois (regione storica della Francia, compresa nel dipartimento del Pas-de Calais). In questo monastero si ritirò insieme alle due figlie maggiori Deotila e Gertrude; ricoprendo la carica di badessa per alcuni anni, poi lasciò la carica per vivere come semplice reclusa in una piccola cella prospiciente la chiesa del monastero. Visse così praticamente sepolta viva per molti anni in preghiera e penitenza; morì nel 725 a circa 85 anni. Le sue reliquie furono trasportate nell’825 ad Erstein presso Strasburgo, per salvarle dalle invasioni dei Normanni; poi nel 1032 furono riportate a Blangy, divenuto nel frattempo monastero benedettino. Nella diocesi di Arras (capoluogo dell’Artois) la festa di s. Berta si celebra il 4 luglio, giorno riportato anche dal ‘Martirologio Romano’. Taliesin, il Bardo Tratto da: www.santiebeati.it di Antonio Borrelli
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04-07-2016, 18.02.07 | #298 |
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Interessante questo legame con queste donne di nome "Berta"..grazie come sempre per farci conoscere donne che ancora sopravvivono nella storia
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19-08-2016, 13.30.57 | #299 |
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L'IMMORTALE SEGRETO DI BOCCACCIO: MARIA D'AQUINO.
La donna amata da Giovanni Boccaccio, nonché sua ispiratrice, fu Fiammetta d’Aquino. Ovviamente tale nome non fu quello vero ma di “schermo”. Il giorno del sabato santo del 1324, nella chiesa di s. Lorenzo maggiore di Napoli, lo scrittore toscano incontrò per la prima volta “colei che sola sarebbe stata donna della sua mente”. Fiammetta - che nel Filocolo[1] il Boccaccio fa intendere di chiamarsi Maria - nacque da un d’Aquino e da una gentildonna francese[2] la quale, durante un banchetto a corte, accese il cuore del re Roberto d’Angiò e, non sapendo resistere ai desideri del sovrano, concepì con lui, appunto Fiammetta, che così confessa: ”onde che violato il ventre, o da questo inganno o dal proprio marito quello medesimo giorno seme prendesse, io fui nel debito tempo frutto della matura pregnanza”[3]. In sostanza, la nobildonna francese, lo stesso giorno che era stata del re fu anche sollecitata dal marito, per cui Fiammetta, pur essendo il frutto di un adultero amplesso, fu allevata come figlia dal d’Aquino. Morta la madre, essa fu affidata “ancora piccioletta” ad alcune monache sue congiunte. All’età di 15 anni (1336) sposò “uno dei più nobili giovani della terra là dove nacque”[4] e quando il Boccaccio allacciò con lei la relazione amorosa, durata oltre due anni, essa era sposata “da più anni”. Come detto all’inizio, Fiammetta fu l’ispiratrice del grande scrittore[5] il quale si guardò bene dal fornire indicazioni identificative sia della gentildonna francese che ebbe l’incontro amoroso con il re, sia del vero nome di Fiammetta e sia di quello del padre putativo o di altri da far sospettare, intendere o dire il nome della sua amata. La qualcosa generò, fra gli studiosi di Boccaccio, un certo mistero e fascino che è perdurato fino agli inizi del 1800. Sappiamo di certo che Fiammetta, “bellissima figliuola”, ebbe per padre (vero o putativo) un d’Aquino, giacchè essa stessa dice che un discendente della famiglia romana dei Frangipane o degli Annibaldi, lasciata Roma dopo il saccheggio dei Vandali (455), “di Giovenale lo oppido antico (Aquino) si sottomise, e, quello signoreggiando, a sé ed a’ suoi discendenti, che a lei furono primi, diede cognome”[6]. Continuando a raccontare la sua vita, così prosegue a proposito della sua paternità: “di padre incerto figliuola, due ne tenni per padre”[7] e cioè re Roberto e il d’Aquino. Queste semplici e scarne indicazioni molto incomplete - ma certamente volute ad arte dall’Autore - suscitarono, come si è detto, molta curiosità fra storici, genealogisti e letterati i quali si arrovellarono per circa cinque secoli sulla vera identità di Fiammetta. Per identificarla, quindi, gli studiosi si soffermarono sui suoi genitori che avrebbero dovuto essere - come essa stessa riferisce - un d’Aquino sposato ad una francese o quanto meno ad una dama di discendenza francese e che ebbero una figlia di nome Maria. La cosa, però, non si presentava facile perché diversi appartenenti ai d’Aquino si sposarono con donne di origini francesi; per cui la loro identificazione non si presentava agevole. Il primo a cimentarsi fu lo storico e genealogista Scipione Ammirato[8], sul finire del Cinquecento, il quale indicò i genitori della giovane in Tommaso d’Acerra, figlio di Adenolfo IV d’Aquino[9], e Sibilia di Sabran, figlia di Ermengardo, conte di Ariano, venuto dalla Francia con Carlo I d’Angiò[10]. Questa identificazione, seppure non pienamente certa, perdurò fino alla metà del 1800 tanto da essere condivisa, nel 1860, dallo storico napoletano Matteo Camera[11]. Completamente contro ogni indicazione boccaccesca andò, invece, il genealogista dei d’Aquino per antonomasia Francesco Scandone. Nella continuazione dell’opera di Pompeo Litta[12], Scandone vi collaborò con 41 tavole genealogiche, riportando i vari rami del casato d’Aquino. Egli, forse per non aver letto attentamente le allusioni biografiche di Fiammetta contenute nell’Ameto, affermò che fu la madre e non il padre ad appartenere alla famiglia di san Tommaso[13] ed indicò due probabili madri: una sarebbe stata Margherita d’Aquino, figlia dell’Adenolfo IV d’Acerra, del quale si è accennato prima; l’altra, un’altra Margherita, cioè la figlia di Cristoforo II conte di Ascoli, anche se su quest’ultima ebbe alcune perplessità[14]. Ma le due identificazioni di Scandone sono completamente infondate: il Boccaccio, per bocca di Fiammetta, scrive che la madre proveniva da una famiglia francese, mentre il padre (vero o putativo) dai d’Aquino[15]. Nel 1908 lo storico Giuseppe De Blasiis[16], trascurando del tutto le identificazioni fornite da Scandone, riprese l’ «indagine» da dove l’aveva lasciata l’Ammirato e dimostrò che - all’epoca del banchetto reale, durante il quale il re si era invaghito della nobildonna francese - questa (cioè Sibilia de Sabran) era tutt’altro che giovane[17] e, quindi, i misteriosi genitori di Fiammetta erano da rintracciare in un’altra coppia. Il De Blasiis stesso indica come padre di Fiammetta Adenolfo III d’Aquino di Castiglione Cosentino[18] che fu, prima, valletto e scudiero e, poi, familiare di Roberto d’Angiò all’epoca in cui quest’ultimo era duca di Calabria[19] e al quale il d’Aquino fu sempre carissimo sin dal tempo in cui Adenolfo si dimostrò valido comandante di una compagnia di balestrieri nel Marchesato crotonese, durante la guerra del Vespro. Infatti, nel 1306, Roberto gli diede la baronia di Castiglione Cosentino; nel 1312 lo creò suo familiare e l’anno dopo lo nominò giustiziere di Val di Crati e Terra Giordana[20]; nello stesso anno fu nominato anche regio vicario della città di Ferrara. Questo Adenolfo, nel 1304, aveva sposato Stefania di Montefalcione che - afferma il De Blasiis - “sicuramente era di nazione francese”, poiché un suo fratello nel 1314 si dichiarava vivente iure Francorum. Ma, l’affermazione del De Blasiis risultò infondata perché Adenolfo III premorì alla moglie[21], mentre Fiammetta ci dice che fu la madre a premorire al marito, il quale “ancora piccioletta” l’affidò alle suore del convento benedettino di S. Arcangelo a Baiano[22] “acciocchè quelle di costume e d’arte, inviolata servandola, ornassero la sua giovinezza”[23]. Come si può notare, l’identificazione di Fiammetta non era cosa facile e chiara, anche perché, al tempo di re Roberto - come si è detto - le donne oriunde francesi maritate ai d’Aquino furono diverse e, quindi, facilmente si poteva cadere nell’intreccio della confusione anche perché le fonti in proposito sono abbastanza lacunose. Ma, alla fine del 1800, Guglielmo Volpi[24] in una nota di pagina, con molto intuito, fornì un’identificazione completamente diversa da quelle seguite fino allora. Si è detto che il Boccaccio fa intuire che il vero nome di Fiammetta sia stato Maria, per cui tutti gli studiosi che se ne occuparono avevano indirizzato le loro ricerche verso una Maria d’Aquino, figlia o oriunda di madre francese; ma ciò - come si è visto - non approdò a nulla. Il Volpi, infatti, accorgendosi che in un passo della lettera - con la quale Boccaccio aveva inviato a Fiammetta l’operetta Filostrato - il nome della donna appariva designato come “di grazia pieno”[25], intuì che lo scrittore, riferendosi ad una etimologia allora divulgatissima, volesse intendere il nome Giovanna. Lo studioso, però, non sviluppò ulteriormente la sua intuizione; anzi, nell’edizione successiva della sua opera[26], eliminò del tutto la nota di pagina. La cosa fu ripresa invece, nel 1912, da Aldo Francesco Manassera[27], studioso delle opere di Boccaccio. Egli, tenendo conto dell’intuizione del Volpi, avanzò l’ipotesi di un doppio nome di Fiammetta, dal momento che donne con doppio nome apparivano già dal Duecento, sia per evitare omonimie con consanguinee precedenti sia perché si incominciava, nell’uso familiare, ad adoperare un nome diverso da quello di battesimo. Di conseguenza, arguiva il Manassera, poiché Fiammetta è indicata dal Boccaccio sia con l’allusione al nome di Maria e sia a quello di Giovanna, è verosimile che il personaggio abbia avuto appunto un doppio nome. Di fronte a tale possibilità, poiché le ricerche su una Maria d’Aquino concordanti con le date e gli accadimenti particolari cui faceva riferimento il Boccaccio si erano dimostrati inconsistenti, il Manassera si concentrò sulle Giovanne d’Aquino che, “per fortuna, son poche assai” e la sua arguzia si concentrò sulla figlia di Tommaso II, conte di Belcastro. Succeduto al padre Tommaso I nel 1304, divenne uno dei più validi collaboratori di Roberto d’Angiò con il quale, ancora giovane, aveva combattuto nella guerra del Vespro in Calabria, sotto il comando dello zio Adenolfo nel 1314. Nel 1310 aveva fatto parte del corteo che andò ad incontrare Roberto d’Angiò, divenuto re e proveniente dalla Provenza; nel 1318 fu nominato vicario generale del principato d’Acaia[28] e due anni dopo divenne familiare e ciambellano del re: quest’ultima carica gli consentiva di abitare nella regia con tutta la famiglia. Nello stesso anno, il d’Aquino successe allo zio Adenolfo nel comando della compagnia di balestrieri[29] che operava nel Marchesato durante la guerra del Vespro, manifestando spiccate doti di comandante fino al 1322; per il suo valore fu nominato, nel 1331, consigliere personale del re che gli confermò ufficialmente la contea di Belcastro. Nel 1326 accompagnò Carlo, figlio del re, a Firenze e l’anno dopo seguì Giovanni, principe d’Acaia e fratello del re, a Roma, combattendo contro le truppe di Ludovico il Bavero. Il 2 dicembre dello stesso anno fu inviato nel Principato citra e ultra con il compito di estirpare il banditismo con successo. Nel 1332 fu nominato giustiziere del Principato citra con pieni poteri, reprimendo aspramente il brigantaggio che aveva nuovamente preso piede. Il 16 maggio 1339 era già defunto. Tommaso II ebbe due mogli, ambedue nate da famiglie oriunde francesi. La prima fu Caterina, figlia di Lodovico del Mons (italianizzato in de Montibus), che fu uno dei più importanti ufficiali del Regno sotto Carlo I e Carlo II d’Angiò. La seconda moglie di Tommaso II d’Aquino fu Ilaria, figlia di Americo de Sus, regio consigliere di Carlo I d’Angiò e signore di Trivento, Boiano e Montefusco. Il d’Aquino ebbe due maschi e due femmine: Adenolfo, premorto al padre e Cristoforo conte di Ascoli; Flora, monacatasi nel convento di santa Chiara di Napoli e Giovanna, andata in sposa a Ruggero Sanseverino conte di Mileto. Ora, tutte le allusioni del Boccaccio e gli scarni riferimenti storici riportati nelle sue opere conducono proprio alla figlia di Tommaso II, Giovanna. Il primo particolare riferito da Fiammetta è il vincolo di parentela molto stretto con la famiglia di san Tommaso[30]: il bisnonno paterno (Adenolfo) e la bisnonna materna (Adelasia) di Giovanna, figlia di Tommaso II, furono fratello e sorella del Santo, del quale un’altra sorella (Teodora) era stata bisnonna di Ruggero Sanseverino. Un altro particolare è rappresentato dal fatto che la madre di Fiammetta proveniva dalla “togata Gallia”: Caterina de Mons fu figlia - come si è detto - di uno dei più influenti cavalieri francesi venuti al seguito di Carlo I d’Angiò. Un altro elemento a favore di Giovanna è la narrazione di un finto sogno di Fiammetta raccontato al marito, nel quale sono accennate alcune immagini violente e sanguinose riguardanti un suo fratello: in effetti il fratello maggiore di Giovanna, Adenolfo, morì di morte violenta, forse ucciso. Fiammetta – come si è visto precedentemente – dice che, “ancor piccioletta”, il padre l’affidò a “vestali vergini a lui di sangue congiunte: la sorella di Giovanna, suor Flora, fu in effetti monaca. Nel suo racconto, la bella amante del Boccaccio riferisce che dopo la morte della madre, avvenuta nel 1322-23, suo padre l’affidò al convento perché “disposto a seguire” la moglie, il che non significa che egli volesse seguirla nella tomba, ma che si sentisse in pericolo di morte, dal momento che la sua attività fu quella di uomo d’armi: il 13 settembre 1326, Tommaso II d’Aquino, mentre si trovava a Firenze - dove aveva accompagnato il duca di Calabria Carlo, figlio de re - eseguì alcune disposizioni testamentarie dove è detto chiaramente che Tommaso II “suum diebus proximis legittime condidit testamentum et ultra illud certos codicillos adiecit”[31]. Riguardo le sue nozze, Fiammetta dice di essersi congiunta con “uno dei più nobili giovani … di fortune grazioso … e chiaro di sangue”[32]: Ruggero Sanseverino apparteneva ad una delle più antiche, nobili e potenti famiglie del Regno. Tutti questi particolari e la loro coincidenza con la figlia di Tommaso II d’Aquino, citati dal Manassera lo indussero ad identificare la misteriosa Fiammetta proprio con Giovanna d’Aquino, figlia del conte di Belcastro. Le nozze avvennero intorno al 1330, prima che Ruggero Sanseverino fosse insignito del titolo di conte di Mileto, come è riferito in un documento angioino riportato dal Manassera: “Priusquam insigniretur .. tituli comitatibus”[33]. Da questo matrimonio nacquero: il primogenito Enrico che ereditò per via femminile, cioè dalla madre Giovanna-Fiammetta, la contea di Belcastro alla morte del cugino Tommasello III (1376); Ilaria andata in sposa, nel 1345, a Filippo di Sangineto, conte di Altomonte; Giovanni, morto prematuramente prima del 16 gennaio 1349, ed infine, Margherita sposatasi con Ludovico de Sabran, conte di Ariano. Giovanna-Fiammetta, alla morte del fratello Cristoforo, subentrò nel tutorato del nipote Tomasello III il 5 dicembre 1342. Tre anni più tardi, ancora molto giovane, avendo da poco superata la trentina, la donna tanto amata e celebrata da Giovanni Boccaccio moriva il 6 aprile 1345. Fu sepolta nella cappella di s. Tommaso nella chiesa di s. Domenico Maggiore di Napoli con i seguente epitaffio: “HIC IACET CORPUS GENEROSE ET DEO DEVOTE DOMINE DOMINE IOHANNE DE AQUINO COMITISSE MILETI ET TERRENOVE QUE OBIIT ANNO DOMINI MCCCXLV DIE APRILIS XIII INDICTIONIS CUIUS ANIMA REQUIESCAT IN PACE. AMEN”. Taliesin, il Bardo [1] G. BOCCACCIO, Filocolo, in: Tutte le opere, a c. di V. Branca Filocolo, Brescia 1969, p. 3: “lei (Fiammetta) nomò del nome di colei che in sé contenne la redenzione del misero perdimento”, vale a dire Maria madre di Gesù. [2] A. DELLA TORRE, nella sua opera La giovinezza di Giovanni Boccaccio (1313 – 1341). Proposta di una nuova cronologia, Città di Castello 1905, p. 185, traendo spunto da un passo del Ninfale fiesolano, deduce la nascita di Fiammetta tra il finire del 1313 e l’inizio del 1314. [3] G. BOCCACCIO, Ninfale d’Ameto, Milano 1997, p. 222. [4] Ibdem, pp. 223-4. [5] Le dame ispiratrici dei tre più grandi scrittori della nostra letteratura furono tre: Beatrice per Dante Alighieri, Laura per Francesco Petrarca e Fiammetta per Giovanni Boccaccio. [6] G. BOCCACCIO, Ninfale …, cit., p. 221. [7] G. Ibdem, p. 223. [8] S. AMMIRATO, Delle Famiglie Nobili napoletane, Firenze 1580, I, pp. 145-146. [9] Questo Adenolfo IV fu il 3° conte di Acerra e regio consigliere di Carlo I d’Angiò; ma fu condannato al rogo per l’accusa di sodomia, nel novembre del 1293. [10] Ermengardo era anche conte di Laudune d’Aube de Roquemartin, in Provenza. [11] M. CAMERA, Annali delle Due Sicilie. Dell’origine e fondazione della Monarchia, II, Napoli 1860, p. 470. [12] F. SCANDONE, D’Aquino di Capua, in: P. LITTA, Famiglie celebri italiane, serie II, Napoli 1902 – 1923. [13] Ibdem, tavola XV: “Questi (il Boccaccio) fa dal lato materno discendere l’amata da una grande famiglia, che aveva dato un gran santo alla chiesa”. [14] Ibdem, tavola XVIII: “Non pare che la identificazione di Margherita (contessa di Ascoli) con la madre di Fiammetta, e di questa con Maria de Marzano sia possibile”. [15] G. BOCCACCIO, Ninfale …, cit., p. 221: “Egli - Mida, ossia re Roberto - e i’ suoi predecessori venuti dalla Gallia togata, molto onorando costoro - il casato d’Aquino - una nobile giovine venuta da quelle parti … per isposa si congiunse al padre mio”. [16] G. DE BLASIIS, Racconti di storia napoletana, Napoli 1908, pp. 168-171. [17] Sibilia andò sposa nel 1292: cfr. F. SCANDONE, D’Aquino di Capua, cit., tavola XV. [18] Era figlio di Adenolfo II che fu barone di Belcastro, prima di ricevere dal re la baronia di Castiglione ed altre importanti cariche. [19] I futuri re angioini e aragonesi, prima di cingere la corona reale, avevano il titolo di duca di Calabria. [20] La Terra Giordana comprendeva il Marchesato e la parte orientale del territorio catanzarese e, quindi, anche Belcastro. [21] Nell’agosto del 1334 Adenolfo era già defunto, mentre la moglie nel 1335 viveva ancora. [22] Cfr. A. DELLA TORRE, La giovinezza …, cit., pp. 185-186. [23] G. BOCCACCIO, Ninfale …, cit., p. 223. [24] G. VOLPI, Il Trecento, Milano [1898], p. 264, nota 93. [25] Nella lettera citata dal Volpi è così scritto: “ …E similmente le mie voci …s’udirono sempre poi chiamare il vostro nome di grazia pieno …”: Ibdem. [26] G. VOLPI, Il Trecento, cit. [27] F. A. MANASSERA, Studi boccacceschi, in: «Zeitschrift für romanische Philologie», Berlin 1912, p. 36 e ss. [28] Signoria feudale formatasi nel Peloponneso (1205-1432), costituita dai cavalieri della IV crociata e ritornata ai bizantini nel 1432. [29] Era composta da 150 armati. [30] Per la famiglia di san Tommaso vedi la genealogia dei d’Aquino in questo Sito. [31] F. A. MANASSERA, Studi…, cit. [32] G. BOCCACCIO, Ninfale …, cit., p. 223. [33] F. A. MANASSERA, Studi…, cit. www.belcastro.com
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"Io mi dico è stato meglio lasciarci, che non esserci mai incontrati." (Giugno '73 - Faber) Ultima modifica di Taliesin : 23-08-2016 alle ore 13.09.22. |
29-08-2016, 17.09.33 | #300 |
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LA PRIORA DI DIO: BEATRICE DA NAZARETH
Nei monasteri femminili belgi del secolo XI venivano ammesse per il servizio del coro quasi esclusivamente giovani di elevata condizione sociale, mentre le altre, più incolte e rozze, rimanevano in qualità di converse. Nel secolo XII la nascita di una borghesia cittadina molto devota fece avvertire l'esigenza di ricercare nuove possibilità per le vocazioni femminili. Nascevano così i beghinaggi, nei quali sarebbero sbocciate non poche anime mistiche. La necessità di fondare nuovi monasteri femminili in periferia fu ben compresa dai Cistercensi: nel Brabante, essi furono aiutati finanziariamente da Bartolomeo di Tirlemont. La figliola di questi, Beatrice, nata verso il 1200, dopo aver vissuto un certo tempo fra le beghine di Léau, preferì andare come novizia, intorno al 1218, a Florival, nei pressi di Archennes, dove un convento già esistente era stato restaurato a spese del padre e trasformato in monastero cistercense. Altri conventi cistercensi furono fatti costruire dallo stesso Bartolomeo a Maagdendaal, nelle vicinanze di Oplinter, nel 1222 circa, e a Nazareth, appena fuori le mura di Lierre, nel 1235. B. fu sempre tra le fondatrici, e a Nazareth, dove mori il 29 agosto 1268, ebbe anche l'ufficio di priora. A lei si deve, oltre l'autobiografia in latino, che si legge nel codice 4459-70 della Biblioteca Reale di Bruxelles, un trattato mistico scritto in fiammingo medioevale, dal titolo "Van seven manieren van heiligher minnen", cioè le sette maniere di amare santamente, una descrizione sperimentale dell'ascensione di un'anima verso Dio. Alle esperienze attive dei tre primi modi, amore purificante, amore elevante, amore sempre più divorante, seguono le passive degli ultimi quattro, amore infuso, amore vulnerato, amore trionfante e, finalmente, amore eterno. Beatrice scrisse anche altre opere, oggi perdute. Nel suo fervore mistico la beata usava sottoporsi alla flagellazione e alle penitenze corporali, attraverso le quali mirava alla compartecipazione della passione di Cristo. Le sue letture preferite erano la S. Scrittura e i trattati sulla S.ma Trinità. Il suo esempio, la diffusione dell'autobiografia e dei suoi scritti contribuirono a una fioritura di sante, scrittrici e mistiche fra le monache cistercensi belghe medievali. La festa di Beatrice si celebra il 29 agosto. Il suo corpo, sepolto nel chiostro di Nazareth, fu nascosto nel 1578 in un luogo sconosciuto, per sottrarlo alle profanazioni calviniste. Taliesin, il Bardo tratto da www.santiebeati.it
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"Io mi dico è stato meglio lasciarci, che non esserci mai incontrati." (Giugno '73 - Faber) |
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