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05-08-2009, 10.37.38 | #1 |
Cittadino di Camelot
Registrazione: 02-08-2009
Residenza: A casa mia, spesso
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L'inizio della fine
Una delle mie tante storie.
Avvertentenze: Se avete qualcosa contro relazioni tra persone dello stesso sesso non leggete, grazie. -------------------------------------- (Capitolo 1 di 6) Morgana e Ginevra Ginevra aveva solo quattordici anni quando suo padre aveva bussato alla porta della sua stanza, in inverno, le aveva baciato la guancia e le aveva annunciato con gioia: "Diventerai la sposa del Grande Re Artù." La giovane fanciulla, dall'aspetto più delicato di un fiore ed i capelli più rossi delle rose, era arrossita perché persino parlare di matrimonio la metteva in imbarazzo. Si era sentita felice perché suo padre era felice. Si era sentita orgogliosa perché sua sorella era orgogliosa. Si era sentita superiore agli altri perché è così che l'aveva fatta sentire la madre, dopo aver sentito la buona notizia. Ginevra aveva fantasticato per giorni sull'aspetto che avrebbe avuto il Grande Re, sulla sua pelle chiara, gli occhi blu e le sue braccia forti. Sul loro amore che non era mai veramente nato se non nelle fantasie di una bambina. Due mesi dopo l'annuncio, Artù era venuto a prenderla, circondato di cavalieri e dame. Il padre di Ginevra si era inchinato davanti a lui e, ancora prima di presentargli la figlia, gli aveva presentato la ricca dote in armi, cavalli, oro e gioielli. Ed una tavola rotonda. Poi era giunta Ginevra, tremante, davanti all'uomo più potente del regno. I capelli rossi erano raccolti e splendenti, lei era sottile come un giunco e tutti i cavalieri la osservarono ammirati ed invidiosi. Artù le aveva baciato la mano e la fronte e la bambina si era ritrovata davanti alla realtà. Artù non era un sogno. Artù era più basso della maggior parte degli uomini, tarchiato quasi, aveva gli occhi scuri, la pelle olivastra del popolo antico e le labbra troppo carnose per un uomo. Con il tempo Ginevra avrebbe imparato ad amare il profilo del marito ma tutto ciò che vedeva in quel momento fu l'orrore della delusione. Non ebbe modo di riflettervi troppo perché i due si sposarono e la bambina, ormai donna e moglie, venne portata a Camelot. Artù la trattò con il massimo riguardo e rispetto. Le comprava sete e gioielli, faceva l'amore con lei con gentilezza e delicatezza. "Vi amo, mia regina." Ginevra si accorse di essere diventata una donna quando vide negli occhi del marito il desiderio e la devozione e capì di avere il controllo su di lui. Lei aveva il controllo. Lei, che aveva sempre pensato a sé stessa come un oggettino carino da mettere sopra un mobile, aveva il potere dell'amore sul Grande Re. E con il potere anche la coscienza di averlo perché lei non provava amore per Artù. All'inizio si era costretta a far sussultare di gioia il proprio cuore alla vista dell'uomo che avrebbe dovuto amare. Si era costretta ad insinuare nella propria mente il desiderio di lui. Ma non si può andare contro il proprio cuore e tutto ciò che Ginevra riusciva a provare per il potente marito era una sorta di affetto fraterno e di orgoglioso senso di dominio, Ginevra non sapeva nulla dell'amore vero, dell'amore che fa stare male e tremare, che fa stare svegli notti intere, sdraiati sul pavimento per calmare il caldo di una febbre di odio e passione. La regina non ne seppe nulla fino a quel momento, durante la primavera del suo diciottesimo compleanno, in cui due delle sorellastre di Artù giunsero a corte. La madre di Artù, Igraine, aveva avuto tre figlie dal precedente matrimonio: Morgause, Morgana ed Elaine. La prima era la sposa del re Lot, uno dei più infidi alleati di Artù, l'ultima era monaca in un convento e la seconda era la Strega. I cavalieri e le dame raccontavano di come Morgana fosse stata allieva del mago Merlino e di come lo avesse ingannato molte volte per rubare i suoi segreti. I popolani bisbigliavano e spettegolavano sulle iniziali pretese di Morgana sul trono, come volevano le antiche tradizioni celtiche ai tempi delle leggende della grande regina Boadicea. Artù l'aveva tenuta lontana dalla corte costringendola a sposare Uriens ma, quando il vecchio re era morto, Morgana aveva deciso che si era assentata da Camelot troppo a lungo e che era il momento di passare a salutare il suo piccolo fratellastro. Ancora una volta Ginevra aveva lasciato che la propria fantasia facesse il suo corso e si era immaginata la Maga Morgana come una donna severa, austera e terribile, con lunghe dita d'artiglio e denti marciti dall'odio. Ancora una volta la regina si era sbagliata. Morgana era bassa, poco più bassa della stessa Ginevra, ed aveva lo stesso colorito quasi olivastro del fratello. Le labbra carnose che stonavano tanto sul volto d'Artù, erano perfette sul viso tondo e femminile di Morgana. Niente dita arcuate e niente aspetto austero, quello che Ginevra trovò fu una donna con una risata cristallina e gli occhi d'ebano più caldi di braci ardenti. Durante il banchetto serale ed i festeggiamenti, Ginevra ebbe modo di sedere accanto alla sorellastra di suo marito e poté notare da vicino il naso leggermente storto della donna ed i capelli lucenti raccolti in intricate treccioline. "Mia regina," la salutò Morgana. E sorrise. Ogni sorriso di Morgana sembrava una beffa verso il mondo, ogni suo sorriso pareva urlare So cosa vuoi ma non lo avrai mai. Io invece l'ho già. Ho tutto. "Sorella," rispose Ginevra, baciandole una guancia. Morgana sorrise ancora e accennò una risata. Sento il suo respiro sul mio collo, pensò inorridita e turbata la regina, ritraendosi immediatamente. "I racconti sulla vostra bellezza non vi fanno onore," la lodò Morgana, "Ed i racconti su di voi mentono," aggiunse Ginevra. "Non siete poi così bassa." L'altra donna la guardò sorpresa ed inaspettatamente iniziò a ridere, di una risata vera, scevra di tutta la maliziosità dei suoi gesti precedenti. Quando riuscì a riprendere fiato, Morgana prese una delle mani di Ginevra e l'appoggiò sulla propria guancia, con una naturalezza ed una freschezza degni di una bambina. "Nessuno parla mai della vostra ironia, nei racconti," replicò. "Perché non la mostro a nessuno." "Ah," sospirò Morgana, con aria scherzosa, "e così mi considerate nessuno?" "State iniziando a diventare qualcuno, ve lo assicuro," sorrise Ginevra e nello stesso momento in cui quelle parole uscirono dalla sua bocca si accorse di essere immersa in un gioco. In un gioco di sguardi e sussurri che spesso aveva origliato in discussioni da una delle sue dame ed uno dei cavalieri del marito. In un gioco di seduzione. Non c'erano dubbi. "Ne sarei onorata, ve lo assicuro," la nota di maliziosa soddisfazione era tornata a far capolino nella voce della sorellastra di Artù. "Anch'io." E così era stato. Artù, così innamorato della moglie da non sospettare nulla, era rimasto piacevolmente sorpreso dal modo gentile ed amichevole con cui Morgana la trattava ed aveva chiesto alla sorellastra di rimanere come dama della regina. Nessuna dama era così amata, riverita e riempita di attenzioni come Morgana. Ginevra aveva occhi solo per lei. Accoglieva irritata le altre dame di corte ed aveva cacciato Lynette per un commento malevolo fatto sulla donna che tanto adorava. Morgana era l'unica che sapeva farla ridere e che le parlava da amica e non da adorante suddita. Era anche la sola che sapeva far crescere dentro di lei la più profonda delle paure e dei terrori e la più pura delle gioie. Ginevra tentò, provò, ad accantonare quei sentimenti e si dedicò con più passione che mai a suo marito Artù, ai tentativi di avere un figlio, allo studio ed al ricamo. Ma dopo ogni notte passata con Artù, Ginevra sentiva il vuoto della solitudine e la nausea di un errore. Ogni ricamo sembrava non portare da nessuna parte ed ogni studio diveniva noioso se non vi era Morgana a farle compagnia. "Morgana, vi devo chiedere-" La sua dama di compagnia alzò lo sguardo dal tomo che stava consultando. Un qualche libro sulle spade e le armi leggendarie del passato. "Vi devo chiedere," provò ancora Ginevra, "di- voi vi volete sposare?" "Un marito come Uriens ti basta e avanza per tutta la vita," sorrise la Strega. "Sì, ma- non volete andare via da Camelot?" "Non ne provo alcun desiderio. Tutto ciò che ho e voglio avere è qui." "Io-" Morgana chiuse il libro e lo appoggiò sull'enorme tavolo di mogano della biblioteca. "Chiedete, regina, non vi negherei nulla. Nemmeno me stessa." Ginevra finalmente si costrinse a guardare l'altra donna negli occhi, sentendosi le gote in fiamme e le pupille dilatate dall'agitazione. "Temo di amarvi troppo." "Non si ama mai troppo." "Temi di- volere voi. Non andatevene." "Non me ne andrò," le promise Morgana prima di raggiungere la propria regina ed inginocchiarsi davanti a lei. "E' questo che temete?" le chiese e le prese le mani, le baciò. Poi si alzò e baciò il naso di Ginevra, la sua fronte, le sue ciglia e le sue labbra. Più delicatamente di quanto Artù avesse mai fatto. "Morgana." "Non me ne andrò," ripeté la Strega, in una promessa che sarebbe stata costretta ad infrangere. Come sempre, prima di una tempesta, vi è un breve momento in cui il sole sembra più splendente del solito ed in cui il cielo è così chiaro e leggero che ci si sente angeli. Ginevra si sentiva un angelo tutte le notti, tra le braccia di Morgana. Ginevra si sentiva leggera e splendente mentre osservava i propri capelli rossi mescolarsi alla chioma nera dell'altra e sentiva il corpo soffice dell'amata contro il suo. Per mesi le due avevano ignorato il mondo che le circondava e quando Artù partì in guerra in aiuto di re Ban, Ginevra e Morgana si isolarono nel loro piccolo nido d'amore, incuranti di ciò che la gente nemmeno sospettava. Ginevra provò il primo amore. Provò la passione ed il desiderio e Morgana, per la prima volta nella sua vita, trovò qualcuno a cui dare senza sentire la necessità di chiedere qualcosa in cambio. Ma purtroppo, come ogni idillio che si rispetti, anche questo finì. Gli amanti fanno in fretta a scoprirsi a vicenda ed a scoprire che, spesso, l'amore che li tiene uniti non è abbastanza per affrontare tutto il resto. Ginevra amava come se potesse morire da un momento all'altro, amava con tutta se stessa, continuando a dare e dare e chiedendo in cambio altrettanto amore ed altrettanta dedizione. Egoista nella sua incomprensione verso altri tipi di amore. Morgana però non poteva darle nulla perché lei amava Ginevra ma amava anche molte cose. Amava il potere, amava l'idea di tornare in un mondo in cui poter essere alla pari di un uomo, amava il trono. Fu solo un anno dopo che tutto cominciò a crollare. Morgana incontrò Accolon e tentò di uccidere Artù. Si servì del giovane cavaliere, rendendolo suo amante perché quello era l'unico modo che conosceva per usare gli uomini. Rubò Excalibur perché nulla le bastava più. Lei aveva bisogno. Lei voleva. Vedeva il trono che sarebbe dovuto essere suo, vedeva i sudditi e vedeva se stessa come una regina più giusta ed intelligente di quanto Artù non lo sarebbe mai stato. Ma non vide quanto fosse totale l'amore che Ginevra provava per lei e non vide il fallimento di Accolon e la morte del giovane. Quando Accolon morì, Ginevra venne a conoscenza della relazione tra la sorellastra di Artù ed il giovane. Artù, furioso per l'attentato, non notò quanto la cosa sembrò aver colpito Ginevra o, se lo vide, lo interpretò come un segno della preoccupazione della regina nei confronti del marito. Senza pensarci troppo, il re decise di cacciare Morgana dalla corte ed i cavalieri attorno a lui gli ricordarono di quante altre volte la Strega si era mostrata ostile nei suoi confronti. Artù bandì la sorellastra ma, nella sua magnanimità, le lasciò prima raccogliere i suoi averi e le donò una piccola scorta per il viaggio verso il palazzo delle Orcadi, castello in cui aveva deciso di rinchiuderla. Fu nella sua stanza, mentre raccoglieva le proprie vesti ed i propri gioielli, che Morgana si accorse di aver ucciso Ginevra. Gli occhi della donna non sorridevano più. La ragazza che era stata si era trasformata in una Ginevra arrabbiata, pallida, tremante e spezzata. Avevano litigato altre volte ma mai Morgana aveva visto un viso così tradito e iroso. "Ginevra, cara, che cosa accade?" "Tu vuoi tutto. Vuoi me, vuoi Artù, vuoi il regno, vuoi Accolon!" urlò la regina e sentì l'improvviso impulso di rompere qualcosa. Desiderò essere un uomo, in quel momento, per poter avere in mano una spada ed uccidere la sua amante. La Strega la osservò confusa e sconvolta perché nemmeno lei capiva il modo totalizzante ed assoluto in cui Ginevra l'aveva amata. "Ti amo, Ginevra, perdonami," le sussurrò Morgana, inginocchiandosi davanti alla propria regina. "Accolon? Perché? Quanti altri?" "Ginevra! Accolon non è nulla. Mi sono servita di lui per avere ciò che mi spettava! Ciò che il destino doveva dare a me," sibilò la Strega, incapace di capire come facesse Ginevra a non comprenderla. "Il destino di ha dato me! Non ti bastavo? Non ti bastavo?" "Ginevra, amo te, ti amo, ma vedere Artù sul trono quando potrei esserci io- tu non capisci. Mi distrugge. Mia madre avrebbe voluto me a regnare e non quel debole." "Vattene, non voglio vederti mai più. Mi hai tradita." "Ginevra-" "Vattene." "Ti amo." Ginevra inclinò leggermente la testa ed i suoi capelli rossi le caddero da un lato. C'era un caminetto dietro di lei e per un terribile momento sembrò che la chioma della regina stesse bruciando. "Mi ami?" "Sì, più di qualsiasi altra cosa, ho fatto un errore, sono stata avida." "Hai fatto un errore," concordò Ginevra ed i suoi occhi sembrarono crudeli. Di una crudeltà tradita e vendicativa che Morgana aveva visto molte volte nei propri occhi, guardandosi allo specchio. "Ti distruggerò come tu hai distrutto me, ingannandomi. Ed ora vattene, non voglio più vederti." La sorellastra del re provò ancora una volta ad abbracciare la giovane regina, a farle capire, a baciarla almeno per l'ultima volta, per dirle addio. Ma Ginevra urlò. Urlò come non aveva mai fatto, a lungo e dolorosamente. Un urlo che gelò il sangue alle ancelle e che svegliò i cavalieri nei loro letti. Morgana fuggì quella notte dal castello, sentendo di aver perso tutto. Sapendo di non aver più ragione di sorridere perché lei stessa aveva ucciso l'unica cosa che la rendesse ancora umana. Non seppe cosa intendesse dire Ginevra durante il loro ultimo incontro fino a quando Morgause non le parlò della relazione segreta tra Lancillotto e la regina. E quella volta fu Morgana ad urlare, mentre il suo cuore andava in mille pezzi.
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[English Arthurian fandom] ❒ Single ❒ Taken ✔ In a relationship with arthurian legends |
05-08-2009, 18.43.58 | #2 |
Cavaliere della Tavola Rotonda
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Residenza: Piacenza
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Il vostro racconto fin qui mi sembra carino.
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"La Morte sorride a tutti... Un uomo non può fare altro che sorriderle di rimando..." Sito Web: http://digilander.libero.it/LoreG27/index.html Libreria on-line: http://www.anobii.com/people/gelo77/ |
05-08-2009, 20.43.22 | #3 |
Dama
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Messaggi: 3,842
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Concordo con Sir Hastatus: ci aspettiamo di leggere il seguito
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05-08-2009, 21.30.43 | #4 |
Cittadino di Camelot
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Grazie mille :*D
E' stato il mio primo racconto 'lungo' (non drabble, insomma) arturiano ;_; di qualche anno fa. Grazie ancora! Nel seguito altri avvertimenti, ahimè incesto perché Mhari mi ha plagiata (è la mia dea del fandom arturiano) ed Elizabeth weins mi ha incantata (è un'amica meravigliosa ed una scrittrice fantastica ;_ quindi... incesto, come è ovvio che sia nelle leggende. (Capitolo 2 di 6) 02. Morgause ed Agravaine Morgause Anne aveva solo quindici anni quando suo padre morì per mano di Uther Pendragon. Uther, al tempo, era considerato alla pari di un grande re e nessuno aveva osato chiedere giustizia per l'omicidio che era stato compiuto. Una volta morto Gorlois, Uther aveva avuto la possibilità di sposare Igraine, la donna che sembrava averlo fatto impazzire d'amore. L'uomo, spinto da immensa devozione verso la moglie che aveva rubato, portò Igraine e le sue tre figlie, Morgana, Morgause e Elaine, al proprio castello che aveva sede a Tintagel e fu lì che pochi mesi dopo nacque Artù. Fu solo nel momento in cui Uther si trovò tra le braccia il piccolo principe, che sorsero nella sua mente il sospetto ed i dubbi circa la lealtà di figlie che non erano sue. Senza farsi pregare contattò i suoi re e cavalieri più fidati, permettendo loro di scegliersi una delle fanciulle come se fossero ad un mercato. Morgause fu costretta a sopportare anche questa umiliazione. Morgana andò in sposa a Uriens, un vecchio che non sarebbe vissuto molto ma che l'avrebbe portata in Cornovaglia, lontano dal regno di Uther. Elaine, la più piccola, supplicò il re di lasciarla nubile e si ritirò in un convento poco distante da Tintagel. Morgause era la più bella delle tre ed aveva preso tutto dal padre, i suoi capelli castani e soffici, gli occhi verdi e le braccia lunghe ed eleganti. Il grande re Lot del Lothian la scelse in moglie. Ma Morgause conosceva il mondo, ormai, e non era più una bambina da tempo. Non si meravigliò quando, a pochi mesi dal loro matrimonio, il giovane Lot già si dedicava ad altre donne ed ad altri letti. Non che la cosa le dispiacesse. Giacere con quell'uomo era quasi meno emozionante di una serata di ricamo. La donna riuscì quindi ad appropriarsi del proprio tempo e non lo sprecò. Incontrò grandi dame, conobbe druidi e divenne amica della maga e strega Nimue, l'amante di Merlino. Le due passavano lunghe ore d'inverno a leggere libri di magia che a Lothian erano proibiti ma che Nimue riusciva comunque a far arrivare. Questo finché arrivò Gawain, il primo figlio. Con l'arrivo del piccolo Gawain, un bambino tranquillo ed educato, Lot si svegliò dal suo torpore battagliero e, come in una rivelazione, decise che un re dovrebbe avere una grande prole per impedire al proprio regno di rimanere senza regnanti. Lot tornò a far visita al letto di Morgause, non che lei notasse la differenza. Un anno dopo Gawain arrivò anche il piccolo Gaheris, un bimbo che somigliava in tutto e per tutto al padre. Noioso quanto lui. Con la rinnovata presenza di Lot, Morgause iniziò a trovare insopportabile l'aria segregata del castello di Lothian ed iniziò a sognare di Camelot, quel regno che il suo fratellastro mai visto stava iniziando a costruire. "Voglio vedere Camelot," aveva quindi annunciato Morgause. Lot aveva negato. Non aveva tempo di viaggiare fino a Camelot. Non ve ne era necessità. La morte di Uther fu una benedizione. Morgause, Lot e Gawain partirono quindi alla volta di Camelot con tanto di soldati e damigelle che erano più per il piacere di Lot che per la comodità di Morgause. Il re non era in città ma sul campo di battaglia, a vendicare il padre Uther con una strage di Sassoni, poco distante da Londinium. Solo una settimana dopo le truppe tornarono ed i soldati, stanchi, affamati, vincitori, si stabilirono nel castello, mescolandosi con gli ospiti per i riti funebri di Uther. Morgause si ritrovò sola. Aveva affidato il piccolo Gawain ad un'ancella e probabilmente Lot si era affidato ad un'altra ancella per la notte. Se può farlo lui posso farlo anch'io, pensò la donna, aggirandosi fra i soldati tornati dalla guerra. Un giovane catturò la sua attenzione. Era troppo buio per vederlo bene in volto ma sembrava affascinante con la sua armatura appena lucidata e gli occhi che brillavano. "Spero che la battaglia non ti abbia stancato troppo," sussurrò Morgause, porgendo al giovane guerriero un boccale di idromele. "Non sono mai stanco per conversare con una giovane donna come voi," sorrise lo sconosciuto, accettando l'offerta. Morgause rise, deliziata. Non aveva mai sedotto degli uomini diversi dal marito ma sapeva di averne le capacità. Era il momento di scoprire quel mondo fino ad ora così estraneo, il mondo del dominio della donna sull'uomo tramite i sensi. "Ma forse siete troppo stanco per far più che conversare?" provò Morgause, temendo però di essersi spinta troppo oltre. Ma il guerriero non sembrò dispiacersi della proposta e con un veloce inchino prese la mano della fanciulla e la baciò. La battaglia l'aveva lasciato in quello stato di febbrile agitazione che ha necessità di essere consumata con l'uccisione di altri uomini o con atti d'amore. E fu la seconda opzione che Artù scelse. I due si svegliarono il mattino dopo, l'uno tra le braccia dell'altra, soddisfatti, riposati. Fu solo quando aprirono gli occhi e si ritrovarono così vicini che Morgause notò gli occhi di Igraine. Gli occhi neri di Igraine sul volto dello sconosciuto. E le labbra carnose della madre, così come i capelli folti, la carnagione leggermente olivastra e le mani sottili, quanto quelle di Morgana. "Posso avere l'onore di sapere il vostro nome, madamigella?" Morgause aprì e chiuse la bocca, sentendo un improvviso bisogno di aria. Di urlare o di piangere. Ma una parte di lei trovò il manico di un'affilata spada di vendetta anche in quella situazione. Poteva modellare il viso di Artù in un volto di orrore. "Sono Anne Morgause," rispose, fingendo di non averlo riconosciuto. E come predetto, il volto di Artù si dipinse di orrore. Per lunghi ed insopportabili minuti, Morgause continuò a guardare il fratellastro finché questi, inaspettatamente, la abbracciò e così, nudi e colpevoli di una terribile colpa, pianse sulla sua spalla. "Perdonami, sorella," sussurrava, sommerso da ciò che non sarebbe mai dovuto succedere. Fu quello il momento in cui Artù ricordò le parole di Merlino, il suo mentore e maestro. La colpa che commetterai con tua sorella sarà la tua rovina. Quella sera, a cena, Morgause non si presentò. Con la scusa si un malore poté evitare al suo fratellastro Artù l'umiliazione di rivederla dopo la notte precedente. Il giorno dopo lei e Lot partirono. Le lacrime di Artù pesavano ancora sulle sue spalle. Pensava di provare solo odio per quel fratellastro che le aveva rubato la madre ed invece si stava insinuando in lei una pena ed una tenerezza che non aveva mai conosciuto. Decise di indurire il suo cuore e scoprì di esserci riuscita quando, nove mesi dopo, tornò a Camelot con il figlio che Artù aveva fatto crescere nel suo grembo. Nel momento in cui lo vide, Lot capì subito di non essere il padre e chiese alla moglie di sbarazzarsene. Non aveva bisogno di bastardi che pretendevano di avere diritti su Lothian. Morgause partì quindi alla volta di Camelot e, per la seconda volta in tutta la sua vita, incontrò Artù. "Dobbiamo ucciderlo," sussurrò il re, improvvisamente spaventato alla vista di suo figlio. "E' un mostro, è un abominio." "Ha il tuo ed il mio sangue, è doppiamente re. Devi crescerlo come tuo figlio." "Come il mio bastardo." "Come il tuo bastardo," approvò Morgause. "No, Merlino ha predetto la mia fine per mano di questo bambino." Morgause abbassò lo sguardo sul figlio che aveva partorito e che aveva tentato, senza successo, di abortire. "Si è aggrappato alla vita come una piccola sanguisuga," spiegò, "probabilmente succhierà da noi tutto ciò che abbiamo, un giorno." "Merlino ha detto- un peccato che compirò con mia sorella. Devi ucciderlo, Morgause, ti supplicò. Distruggerà tutto ciò che io e mio padre stiamo costruendo." Ed improvvisamente si pentì di ciò che aveva detto perché quello che Morgause gli stava porgendo era solo un bambino. Il piccolo alzò le mani verso di lui ed aprì gli occhi, nerissimi. "Come si chiama?" chiese il re. Morgause fece spallucce, seccata per quegli improvvisi scoppi di sensibilità nel fratello, "Non ha un nome. Lot mi ha detto di sbarazzarmi di lui e Nimue mi ha parlato delle visioni. Quindi immaginavo che anche tu l'avresti voluto morto." "Che visioni?" La donna lo ignorò e avvolse completamente il bambino nel proprio mantello. "Morgause, così non respira," rantolò Artù, sempre più pallido. "Mi sbarazzerò di lui, non temere," decise Morgause ed Artù non la fermò quando questa lasciò il castello di Camelot, con la promessa dell'uccisione di loro figlio. Morgause aveva davvero provato a sbarazzarsi del bambino. L'aveva lanciato nel fiume, essendo in quel momento la donna che avrebbe sempre voluto essere. Una donna che distrugge il regno degli uomini. E nonostante questo seppe di averlo fatto solo per Artù perché quel re così forte e così debole, il suo fratellino, era l'unico per il quale lei poteva provare qualcosa di simile all'affetto. Quando tornò a Lothian, Lot fu pronto a perdonarla ed a tornare nuovamente nel suo letto. Da lui ebbe altri due figli: Agravaine e poco dopo Gareth. Mentre i bambini crescevano, Morgause li sentiva lontani, perduti nel regno degli uomini in cui lei non aveva accesso. Un regno di potere e guerre. Gawain, appena quindicenne, lasciò Lothian per diventare un cavaliere al servizio di Artù. Qualche anno dopo fu il turno di Gaheris. Morgause non pianse e non abbracciò i figli. In realtà non era mai riuscita a vederli davvero come i propri figli. Non avevano nulla di lei, erano figli di Lot, ed erano uomini. L'odio verso gli uomini, quegli uomini che avevano distrutto la vita della madre e separato le tre sorelle, era più forte di qualsiasi legame d'amore potesse avere per un frutto del proprio grembo. Lot non contribuiva a mitigare il rancore ed aveva iniziato a trattarla più come una serva ed una qualsiasi damigella che la sua regina e moglie. "Per un blando affetto verso Artù ho ucciso mio figlio," sussurrò un giorno Morgause, all'amica Nimue, "aiutami ora a distruggere Lot, per l'odio che provo per lui." "Non hai sofferto molto ad uccidere tuo figlio," le fece notare Nimue, "quei bambini sono nati e cresciuti succhiando la tua stessa essenza di donna. Hanno distrutto tutto di te, hanno prosciugato le tue energie così che tu non sarai mai una sacerdotessa dei Misteri," le spiegò la donna. "Riprenditi le tue energie. Succhia la loro energia, nutriti del tuo odio verso gli uomini e distruggi Lot, distruggi il sangue di Lot e la sua carne che si trova ora nei suoi figli, ottusi e stupidi quanto quel bruto." Quella notte, Morgause andò da Agravaine e distrusse suo figlio, peccato per la seconda volta allo stesso modo. L'anno successivo, Agravaine e Gareth lasciarono Lothian e divennero anche loro cavalieri. E ben presto giunse anche un'altra benedizione: Lot morì. Cadde da cavallo e dopo una lunga agonia di qualche mese, si spense. Morgause rimase accanto a lui tutto il tempo. "Muori, come tu hai ucciso tutte le mie speranze, serpe," gli sussurrò prima che l'anime dell'uomo lasciasse quel mondo. Per l'occasione, Artù la riammise a corte. "SOno contento che tu sia qui, sorella mia, spero che il dolore per la perdita di Lot non ti abbia indebolita troppo," la salutò il re, abbracciandola. Morgause si stupì nel gioire davvero, di una felicità pura e semplice, alla vista di Artù. "Mio re, la morte di Lot ha deperito solo i miei figli." "Parli molto duramente dei tuoi figli ed è proprio di loro che voglio parlare, però." "Di quale di loro?" domandò la donna. Sapeva che i suoi figli non erano angeli. Gawain era tranquillo ma tramava dietro la sua calma, Gaheris era violento ed amava le risse, Agravaine era irrequieto e sospettoso e Gareth era fin troppo ambizioso. "Mordred." "Non ho figli di nome Mordred." "Abbiamo un figlio di nome Mordred, salvato dalle acque." Non c'era accusa nel tono di Artù eppure la donna si sentì come se l'uomo la stesse incolpando di aver fallito quell'unica sua richiesta, uccidere il bimbo nato dal loro atto incestuoso. "Come sai che è lui?" "Dovresti vederlo. E'come nostra madre, è come Morgana e me. Tutti lo notano. Combatte come un Pendragon ed ha dentro di sé il tuo fuoco." "Fallo uccidere." Artù sospirò. "Non ho figli. Ginevra non ha figli. Mi rimane solo Mordred." "Ti rimane un bastardo incestuoso? Puoi ripudiare tua moglie e prenderne un'altra." Con una punta di rammarico, Morgause si rese conto che voleva essere lei. Lei voleva essere la moglie di Artù. Ma non poteva. "Amo Ginevra." "Voi uomini credete di amare qualsiasi sottana vi si presenti davanti. Fai imprigionare quel mostro, chiudilo nelle segrete, butta la chiave, se non lo vuoi uccidere." "Merlino si può sbagliare-" provò Artù, speranzoso. "Merlino è un uomo. Ma Nimue non si può sbagliare." "Non posso," sussurrò Artù e, senza riflettere abbracciò la sorella. Morgause incontrò Mordred il giorno dopo. Lui la chiamò zia e sembrò non sapere nulla della loro vera parentela. La donna lo osservò. Artù aveva ragione, chiunque avrebbe capito che era figlio del Grande Re. Era più alto di lei, slanciato, agile, nervoso. I capelli, identici a quelli di Morgause, erano tagliati male e troppo corti. Gli occhi sembravano bruciare. "Mordred, giusto?" "Giusto, zia Morgause." "Mi chiami zia, eppure non mi sembra che Artù ti abbia riconosciuto come suo bastardo." Con una nota di piacere Morgause sottolineò l'ultima parola, sentendo di nuovo la familiare sensazione di avere davanti un uomo, un estraneo, e non un proprio figlio. "Potrei chiamarti in altri modi, ma non ti piacerebbero," sorrise Mordred. Agravaine era nato in gennaio e per sempre si sarebbe associato a quel mese. Freddo ed arido. Era cresciuto con i fratelli, giocando con loro ed uscendo a caccia con il padre. Si era attaccato alla gonna delle ancelle quando Gaheris lo picchiava. Si nascondeva sotto il proprio letto quando il padre lo rimproverava. Ma quando la madre lo guardava, Agravaine rimaneva immobile, quasi incapace di respirare. Morgause era una donna bellissima ma sembrava portare sulle sue spalle una sete di sangue che nessuna battaglia avrebbe mai potuto soddisfare. Agravaine riusciva a sentirlo e la vedeva mentre camminava per il castello, alla ricerca di qualche stalliere da rimproverare o ancella da far punire. La vedeva mentre lei guardava i propri figli e pensava di non essere vista. Vedeva i suoi occhi estraniarsi da loro, velarsi di orrore per ciò che aveva messo al mondo. Perché nulla sembrava inorridire Morgause quanto gli uomini. "Gli uomini hanno portato via il trono a mia sorella. Morgana doveva divenire regina, non Artù," aveva detto una volta la madre al piccolo Agravaine. Ma era stata l'unica volta in cui lui l'aveva sentita criticare il grande re. La maggior parte delle volte Morgause malediva Lot ed i figli per la loro stupidità. "Agravaine, sei proprio come tutti loro," soleva dirgli la sera, "ottuso inseguitore di fanciulle, capace di tagliare la gola di tuo fratello per un paio di ciglia languide. Nessuno di voi può capire così si prova quando qualcuno che disprezzi ed odi ti ruba tutto ciò che hai." Agravaine aveva diciassette anni quando Morgause entrò nel suo letto e si prese la sua vendetta verso il figlio innocente. Il giovane fuggì presto da Lothian, tormentato dagli incubi e dai sensi di colpa di qualcosa che gli sembrava solo frutto di un terribile sortilegio. Si lanciò in battaglie, tornei. Divenne cavaliere. Divenne ancora una volta un uomo che sua madre avrebbe disprezzato. Quando Lot morì, Agravaine ebbe modo di incontrare nuovamente la madre. Non sapeva bene cosa aspettarsi ma di certo non si aspettava l'indifferenza che trovò. Hai fatto l'amore con me! avrebbe voluto dirle, Sono tuo figlio! Sei un mostro. Guardami, guardami, non ignorarmi.. Ma Morgause lo ignorò. Ignorò il peccato che aveva commesso, ignorò tutti i suoi figli e si concentrò solo su Artù. Divenne la sua consigliera, il suo braccio destro. Agravaine vedeva e capiva più di quanto Morgause avesse mai dato credito ad un uomo. Vedeva come Morgause guardava Artù e come con lui sembrasse in pace, finalmente. E dentro al giovane cavaliere bruciava qualcosa che non sapeva definire. Odiava la madre per aver piantato in lui quel seme di odio, disperazione, paura e bisogno. Ma ancora di più era geloso di Artù. Artù che dava gioia a Morgause solo con la sua presenza, in un modo in cui Agravaine non avrebbe mai potuto sperare. Nel frattempo, Morgana, damigella di Ginevra, e zia di Agravaine, provò ad uccidere il fratello ma fallì. Tutto ciò che ottenne fu l'ira di Morgause ed Artù e la cacciata da Camelot. Quasi nello stesso momento iniziarono a circolare voci sulla regina. Che stesse tradendo il re. Con Lancillotto, uno dei cavalieri più fidati. Artù ignorava ed ignorava, facendo finta di non capire. Ma Agravaine sapeva delle notti in cui Lancillotto lasciava l'accampamento per intrufolarsi nelle stanze più interne del palazzo di Camelot. Agravaine sapeva anche da chi andare per avere l'appoggio di cui aveva bisogno. Mordred, il bastardo reale che Artù non aveva mai riconosciuto. "Cugino, ho bisogno del tuo aiuto per salvare l'onore del nostro re." Mordred, che sembrava trafiggerlo con lo sguardo ogni volta che lo incrociava, si affrettò a sorridere. "Quale onore?" "Parlo di Lancillotto e Ginevra, i traditori. Stanno infangando il nome del nostro re." "Sei malato quanto tua madre," gli sussurrò Mordred, sporgendosi verso di lui. "Marcio come tutta la sua cucciolata di cani fedeli, solo a lei, non ad Artù." Agravaine si scostò violentemente dall'uomo, sentendosi piccolo come quando si trovava di fronte a Morgause. Ma lui non era piccolo e Mordred non era Morgause, era un uomo e gli uomini sono stupidi ed ottusi. "Artù potrebbe decidere di nominarti suo erede se dovesse perdere la moglie. Ed in caso di adulterio ti assicuro che non potrebbe salvarla dal fuoco. Il nostro re potrebbe persino chiamarti figlio." Gli occhi di Mordred si allargarono ed Agravaine sentì di aver colpito le corde giuste. Se Morgause fosse stati lì, in quel momento, avrebbe riconosciuto che in Agravaine vi era più del suo sangue che in tutti gli altri suoi figli.
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12-08-2009, 17.35.17 | #5 |
Viandante
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Quel che ho letto ora l'ho apprezzato, bene bene!
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12-08-2009, 18.21.38 | #6 |
Cittadino di Camelot
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Vi ringrazio immensamente, Moruadh :*
03. Mordred- parte uno perchè era troppo lunga Mordred aveva quattordici anni quando sua madre morì. La donna si chiamava Annette e non era mai stata sposata. Aveva passato tutta la sua vita a servire Dorottya Erzsebet, nobile e ricca dama ungherese. Nonostante la provenienza di Dorottya, le due donne trascorsero la maggior parte della loro vita in Britannia e non in Ungheria, perché la nobile donna, con il marito appena sepolto ed un bimbo di nome Sagramore tra le braccia, aveva accettato la proposta di matrimonio di Brandegoris di Estangore, un re della Britannia che necessitava vivamente delle ricchezze della donna. Dorottya sapeva di non andare in sposa per amore ma pagando profumatamente il futuro marito. Dorottya non credeva nella speranza o nei miracoli. Non vi aveva mai creduto fino a quel giorno in cui, durante una passeggiata con Annette e Sagramore, che aveva appena cinque anni, trovò un bambino. Il bambino era gelido, infreddolito e quasi annegato, sospeso nel fiume. Annette lo prese e le due lo portarono subito a palazzo. Dorottya non aveva mai avuto speranza ma ne aveva bisogno. Aveva bisogno di credere che i miracoli esistessero e per questo fece l'impossibile perché il bambino sopravvivesse. Passarono settimane prima che i medici, e le donne, potessero tirare un sospiro di sollievo per la vita salva del bimbo. Dorottya pregò la sua dama di allevarlo come se fosse suo figlio ed Annette obbedì per amore della sua padrona. Decisero di chiamare il bambino Mordred, salvato dall'acqua. Ignare di chi fosse veramente Mordred, Annette e Dorottya lo crebbero donandogli l'istruzione di cui privilegiava Sagramore ed i doveri a cui erano costretti i servi. Lo stesso Mordred crebbe confuso sul quale fosse il suo vero ruolo in quel palazzo ma non si fermò mai troppo per rifletterci perché c'era Sagramore, con cui giocare, c'era il maestro Eniko a cui sottostare, c'erano cose da fare e da scoprire. Mordred aveva quattordici anni quando sua madre morì ma già da tempo aveva capito che Annette non era la donna che l'aveva generato. Non lo aveva capito dal loro così diverso aspetto fisico ma dal modo in cui Annette lo guardava e lo trattava, come se fosse un delizioso cagnolino che le era stato affidato. Così, quando la donna non fu più, Mordred si trovò sempre più spesso a domandarsi chi fossero i suoi veri genitori. Si guardava ad uno specchio e si chiedeva se sua madre avesse i suoi stessi capelli scuri ed ispidi, o se suo padre avesse occhi neri come braci, gemelli ai suoi. Non vi era più Sagramore a distrarlo perché pochi anni prima il giovane aveva lasciato il castello per diventare cavaliere alla corte del famigerato re Artù. Non vi erano faccende da sbrigare perché, con la morte di Annette, sembrava che tutti si fossero dimenticati di lui o che tutti aspettassero che lui se ne andasse, quasi come era venuto. Gli altri bambini lo evitavano e lo credevano pazzo perché Mordred, fin da piccolo, sembrava essere incapace di vedere il mondo ed i colori come tutti gli altri. A sedici anni, Mordred decise di parlare con Dorottya e per la prima volta le chiese ciò che da tempo aveva sperato di poter fare. "Mia regina, per quanto compianga la mia perduta madre e per quanto io ami voi e vostro figlio, so che non è questa la mia vera natura. So che nelle mie vene non scorre alcun sangue vostro o della vostra gente." Dorottya lo aveva sempre trattato con adorabile distacco. Lo aveva ammirato, quando lui era piccolo, come si ammira un dono del cielo ma era rimasta profondamente delusa quando, crescendo, il ragazzo era diventato come tutti gli altri ragazzi. Nessun miracolo. Nessuna speranza. Solo Mordred. "Mordred, non ti nego di averti tenuto nascosta la tua origine per tutto questo tempo. Non eri davvero il figlio di Annette ma sei stato un dono del fiume. Eri quasi annegato, morto, quando ti abbiamo trovato." Tra tutte le risposte che il giovane si aspettava, quella era sicuramente l'ultima. "Ma mia madre non c'era?" A lungo Mordred aveva immaginato una madre che, tra strazianti lacrime, lo abbandonava in affido tra le braccia di Annette perché il terribile nuovo marito non accettava il frutto di un precedente matrimonio. O quando si ricorda di essere più modesto, il ragazzo immaginava la madre come una povera contadina che, affiancata da un marito affranto, era costretta a lasciare il bimbo perché impossibilitata a crescerlo. Ed invece nulla. Nulla di tutto questo. Solo un fiume. Dorottya lo guardò con compassione, non sapendo quanto quel sentimento bruciasse striature dolorose nel cuore del ragazzo. "Piccolo mio, temo che tua madre non abbia avuto la possibilità di crescerti e per evitarti una vita infelice abbia deciso di riportarti nel regno dei morti dal quale eri venuto." Per un attimo, Mordred provò l'impulso irresistibile di lanciarsi su Dorottya e distruggere il suo aspetto impeccabile come lei aveva distrutto le fantasie su una madre scomparsa. "Certo," riuscì solo a dire, sentendosi improvvisamente un estraneo davanti alle persone che aveva conosciuto per tutti quegli anni. "Qualcos'altro?" domandò Dorottya, implacabile nel suo egocentrismo. Mordred avrebbe voluto rispondere no. Avrebbe voluto inchinarsi ed andarsene da quella stanza troppo luminosa che quasi lo feriva per tornare ai suoi doveri. Avrebbe dovuto farlo. Ed invece parlò prima di riflettere. "Me ne vado. Vado a cercare mia madre." Dorottya lo osservò divertita e Mordred poté quasi sentire i pensieri della donna. Tua madre sarà stata una puttana, sarà morta a quest'ora. "E' una tua scelta, Mordred. Sappi che qui avrai sempre una casa." Meno di un mese dopo, il ragazzo lasciò la sua casa e partì per dirigersi ad Avalon. Scelse la famosa isola di Avalon perché, fin da bimbo, la gente parlava di quel luogo come di un'isola fatata in cui streghe, veggenti e sacerdotesse vivevano in pace, accettando tributi e pagamenti in cambio di magie o premonizioni. Con i pochi risparmi che aveva, incappucciato e stanco, Mordred raggiunse Avalon. La delusione lo sommerse e rischiò quasi di soffocarlo. Avalon altro non era che un piccolo castello su un promontorio, circondato da un lago che di magico e puro non aveva nulla. Le vele dei pescatori si distendevano sull'acqua e Mordred poteva vedere facilmente le loro capanne anche da lontano. "Sei deluso, ragazzo?" Mordred sobbalzò sul cavallo, e si voltò per vedere un'anziana donna con il viso rovinato dal vento e dal sole ed i capelli umidi e ormai bianchi. "Deluso? No. Mi sento tradito. Tutta la mia vita è una menzogna." "Tutte le vite sono menzogne," sospirò l'anziana donna. "Vorresti darmi una mano? La mia rete si è incastrata e non riesco più a tirarla a riva." Mordred scese da cavallo e seguì la donna fino alla riva del lago. "Grazie, caro. Guarda, la rete è laggiù." La rete era veramente impigliata. Era stesa sull'acqua ed un tronco quasi marcio vi galleggiava in mezzo, aggrovigliandola attorno a sé. Mordred dovette nuotare fino al tronco e trascinare tutto fino alla riva. "Non spezzarmela, ti prego." Mordred non rispose e si limitò a sbrigliare la rete il più delicatamente possibile. "Hai sciolto i nodi della mia rete," lo ringraziò la donna, quando il giovane riuscì nell'intento anche se ne ricavò un paio di mani sanguinanti, "se vuoi posso sciogliere i nodi della tua mente." "Non ho nodi nella mente." "Ne hai più di quanto tu creda." Mordred arricciò il naso, in una smorfia che aveva imparato ad imitare da Sagramore. "Vivi in un mondo strano," sospirò la vecchina. "Siete voi che vivete in un mondo diverso dal mio. Dimmi come fare per potervi raggiungere." La donna ignorò la sua richiesta e si sedette vicino a lui. "Siamo comunque nello stesso mondo, Mordred." "Voi sapete il mio nome, ditemi il vostro." "Ne ho avuti molti, sono stata una strega, sono stata una madre, una regina ed una guerriera. Ma ora sono solo vecchia e tutti mi chiamano Viviane." Mordred la osservò, cauto più che speranzoso. "Chi è mia madre?" "E' questo che vuoi sapere?" "Chi sono io?" "Mordred Pendragon." Il giovane, per un attimo, non capì. Aveva sentito quel cognome molte volte ma sempre associato ad Artù, alla regalità. Suonava sbagliato accanto al suo nome. Suonava marcio. "No, Pendragon è il re ed un re non avrebbe mai abbandonato il proprio figlio. Chi è mia madre?" "Ma lui non ti ha abbandonato, caro," sorrise Viviane, prendendogli le mani. "Lui ha tentato di ucciderti." "No, Viviane, no. Lui è il re, lui non avrebbe mai ucciso il proprio figlio. Io non sono suo figlio." Viviane scosse la testa e sospirò stanca. "Sei il figlio nato da un atto abominevole che Artù ha commesso con sua sorella Morgause. Sei il figlio di una notte di due giovani folli." "Se mi avessero voluto morto- se avessero voluto uccidermi-" "Pensi che non ci abbiano provato? Tua madre ha ingoiato qualsiasi veleno trovasse ma tu eri troppo forte." Mordred levò le proprie mani da quelle della maga, spaventato. Non era quello che si aspettava. Era sicuramente un altro inganno. "Ti stai chiedendo se mento?" "Menti," sussurrò il ragazzo ed improvvisamente si chiese se il brillare di mille colori avrebbe mai potuto mitigare ciò che stava crescendo dentro di lui, come un orribile mostro di fango che tentava implacabile di mozzargli il respiro ed uccideva il suo futuro. "Vorrei, caro, vorrei. Ma non mento. Quando sei nato si sono sbarazzati di te. Ma tu sei stato più forte, piccolo Mordred." Mordred la osservò. La guardò, per davvero. Viviane non sembrava così vecchia come gli era parsa qualche minuto prima. Le rughe del suo volto erano le rughe di una donna invecchiata precocemente e non davvero anziana. I capelli avevano ancora tracce di ramato, fra di loro e gli occhi erano così vivi da parer di fuoco. "Perché mi dici questo?" "Perché è giusto che tu sappia. Il nostro re è un assassino di innocenti e bambini. Di suo figlio. E quest'uomo governa il nostro regno. Suo padre ha distrutto il popolo di Avalon perché Merlino era geloso dei nostri segreti. Ed il figlio vive come un debole, lasciando i combattimenti ai propri cavalieri mentre lui amoreggia con la sorella e la moglie nel proprio castello." "Artù è un re giusto." "Non sono parole tue, sono parole che senti in giro. Sagramore morirà." Quelle parole giunsero come una condanna nel cuore di Mordred. Sagramore era come un fratello per lui. Era il suo migliore amico ed il ragazzo da ammirare ed imitare. "No, non è vero. Come fai a dirlo? Cosa- cosa c'entra?" "Sagramore morirà perché Artù lo manderà in una di quelle battaglie assetate di potere, contro i Sassoni, a Londinium. Il prossimo inverno." E Mordred non riuscì a mettere in dubbio le parole della donna perché lei sapeva. Lei era Viviane e sapeva, sembrava sapere o sapeva davvero. "Che cosa vuoi da me?" "Da te, niente? Eri tu che cercavi qualcosa da me ed ora l'hai avuto." E dopo quel momento la donna non parlò più. Si limito a qualche sospiro sul tempo e ringraziamenti sulla sua rete. Insistette perché il ragazzo accettasse un meraviglioso cavallo bianco che lei aveva legato poco lontano e le vesti che si trovavano sull'animale. "Sapevate che sarei passato?" "Passa sempre molta gente." Fu con queste parole che Viviane salutò Mordred, sapendo di averlo indirizzato a Camelot ed a Camlann. Mordred, in effetti, aveva proprio intenzione di raggiungere Camelot. Il suo piano iniziale era quello di parlare con Sagramore e farlo tornare a casa, impedirgli di partire per la battaglia. Ma più si avvicinava alla famosa cittadina, più sentiva nascere dentro di sé il desiderio di incontrare Artù. Mio padre. Artù era suo padre. Ed al solo pensiero una rabbia cieca cresceva nelle sue vene e sembrava soffocarlo. Più volte fu costretto a fermarsi e vomitare, tremando, nel tentativo di non rigettare anche l'anima. Ciò che voleva fare era umiliarlo. Sputargli addosso la sua colpa, l'incesto, e mostrarsi quanto più nobile e superiore potesse essere rispetto a quell'assassino di bambini. Voleva mostrargli che suo figlio, Mordred, era un uomo migliore di lui. Voleva che Artù fosse orgoglioso dell'uomo che quel bambino era diventato. E nel momento in cui l'orgoglio per il figlio e l'amore per lui sarebbero nati negli occhi di Artù, Mordred lo avrebbe rifiutato e disprezzato. Lo avrebbe abbandonato a se stesso ed avrebbe lasciato la Britannia per sempre. Mordred arrivò a Camelot con il cavallo e gli abiti che Viviane gli aveva donato. Il mantello gli permetteva di coprirsi dalla pioggia grigia e lo stemma della famiglia di Sagramore gli permise di entrare senza sospetti o domande. Vedere Artù fu più semplice di ciò che si aspettava. Chiese prima di Sagramore ma gli risposero che sarebbe tornato entro la settimana successiva. Gli offrirono un riparo, scambiandolo per un messaggero della madre di Sagramore e lui non fece nulla per far cambiare loro idea. "Avete un messaggio per Sagramore?" gli chiesero. E Mordred decise di approfittare. "Ho un messaggio per il re." Le guardie lo scortarono nella sala del trono e lo fecero sedere, rimanendo però subito dietro di lui. Mordred sentiva il proprio cuore e solo quello. Lo sentiva battere e battere e la sua testa iniziava a girare. La luce era troppo forte ma se solo il suo cuore avesse rallentato un pochino le cose sarebbero andate meglio. La porta che si aprì davanti a lui lo fece sobbalzare violentemente. Ed entrò Artù. Mio padre. Il mio assassino. Artù non era molto alto. Aveva una carnagione olivastra gemella a quella del figlio. I capelli erano scuri e ricciuti. Gli occhi scuri e qualche piccola ruga attorno a loro. Era adornato di gioielli e drappi, un lungo mantello, più scuro del resto degli abiti, volava dietro di lui rendendolo assolutamente magnifico. Per un momento, Mordred pensò che sarebbe dovuto fuggire perché Artù poteva essere un essere umano ma nei suoi occhi leggeva lo spirito di un dragone. E quel drago aveva tentato di versare il suo sangue già una volta. "Buongiorno messaggero," lo salutò il re, sedendosi sul suo trono. Mordred non riuscì a rispondere. Se ne stette immobile e chiuse gli occhi perché sentì di aver bisogno di fuggire, di nascondere quella vita. Mordred li riaprì, Artù si era alzato in piedi e si era avvicinato a lui. "Siete un messaggero?" le parole del re uscirono minacciose e sospettose. "No," rantolò Mordred, sentendo venire meno tutto ciò che si era programmato di sputare addosso a suo padre. Artù fece per estrarre la spada ma Mordred cadde a terra, davanti a lui e si aggrappò alla sua veste, appoggiando il viso sul fianco del re. "Non lo fate, vi prego, non di nuovo, vi prego, non vi ho fatto nulla," iniziò a sussurrare Mordred e presto si accorse di avere delle lacrime sul volto e di aver bagnato il vestito regale. Si maledisse per la propria debolezza. Si maledisse per il proprio bisogno. Il re estrasse finalmente la spada e costrinse il ragazzo a staccarsi da lui, puntandogli la lama alla gola. Mordred sentì che le due guardie, poco distanti, avevano anch'esse estratto le loro armi. "Chi sei?" Sono tuo figlio. "Mordred," riuscì a singhiozzare. Le lacrime sembravano non volersi fermare. Improvvisamente si chiese come apparisse agli altri il colore della tunica del padre e del suo mantello. "Non conosco nessun Mordred." "Figlio di Morgause." Artù sembrò sul punto di ribattere ma appena la sua bocca si aprì per farlo, i suoi occhi si spalancarono ed il re osservò il figlio inorridito. Notò l'aspetto del ragazzo. Notò la somiglianza. Notò il suo terrore, la sua solitudine, i suoi tremiti. "Sei vivo," riuscì a sussurrare il re e con un gesto ordinò alle guardie di uscire. Rimise la spada nel fodero. "Perdonatemi, perdonatemi," aveva iniziato a rantolare il ragazzo. "Mordred," assaporò Artù, spaventato. Quello era il bambino che aveva ordinato e chiesto di far uccidere. Quello era il suo unico figlio. Con un movimento fluido ed elegante, Artù si sedette a fianco di Mordred e gli toccò il volto, sperimentando la pelle del figlio, asciugando le sue lacrime. Quando le sue mani arrivarono al collo, Mordred pensò che sarebbe morto se solo Artù avesse deciso di strangolarlo in quel momento. Ma il re si limitò a trascinare il figlio nel suo abbraccio. "Mordred. Significa salvato dalle acque. Mordred." Ma mai una volta disse mio figlio. Mordred non ci mise molto ad entrare nelle grazie del re. Artù tentava di favorirlo il più possibile, di dargli abiti e denaro, di concedergli tutto. Ed il ragazzo accettava con rabbia riconoscendo quelle concessioni come nate da un senso di colpa più che dall'amore per un figlio. Erano due mesi ormai che Mordred si era stabilito a Camelot. Aveva una casa tutta sua, donatagli dal re, poco distante dal palazzo. La gente lo chiamava già 'il figlio bastardo di Artù' ma nessuno osava farlo davanti a lui o davanti al re. Solo Sagramore si rifiutava di accettare il soprannome dato a quello che aveva sempre considerato un fratello minore e solo lui lo trattò come aveva sempre fatto, con un'arroganza mista ad un affetto protettivo. Ginevra ignorava la sua presenza, ritenendolo un rifiuto ma non offendendosi più di tanto, perché troppo occupata a passare le sue giornate con Morgana, giunta da poco a palazzo. Mordred osservò con meraviglia l'arrivo della donna che tutti chiamavano Strega, ascoltando le dicerie che riusciva a racimolare, e beveva dall'immagine di Morgana così simile ad Artù, così simile a lui stesso. Morgana, doppiamente sua zia. Ben presto, Mordred si accorse che la zia non aveva nulla della strega. Più che dedicarsi ad incantesimi e magie, preferiva affiancare Ginevra in lunghe cavalcate o passeggiate, o parlare con i cavalieri sulla guerra, sulle armi e sulle battaglie. Non ebbe comunque molto tempo per lei perché Artù non lo riconobbe mai ufficialmente come figlio e Morgana lo ignorò, seguendo l'esempio di Ginevra. Nonostante tutto, Mordred si svegliava la notte, solo, freddo. Sognava, immaginava, il modo in cui suo padre aveva tentato di ucciderlo o il modo in cui sua madre, che non aveva ancora avuto il coraggio di incontrare, aveva provato ad annegarlo. Immaginava i loro volti indifferenti alle sofferenze di lui, solo un bimbo. Non chiese mai nulla al re del suo concepimento, né mai lo chiamò padre eccetto una volta. Una volta sola si umiliò, supplicando un favore e tentando di estorcerlo con il dovere del padre verso il figlio. "Non mandate Sagramore a combattere. Non mandate nessuno." Artù guardò Mordred sorpreso. Il ragazzo non si era mai interessato ai problemi politici di Camelot fino ad ora. "Perché? Non posso lasciare che i sassoni devastino Londinium. Se dovesse accadere avanzerebbero ancora e saremmo in pericolo." "Se mandate Sagramore, lui morirà." E' mio fratello. avrebbe voluto aggiungere. E' l'unico che fa veramente parte della mia famiglia. "Sagramore è un ottimo cavaliere, se la caverà." "No," insistette Mordred, "una dama ad Avalon mi ha predetto-" Inaspettatamente, Artù si alzò dal trono, sbattendo un pugno contro lo scranno e facendo sobbalzare il figlio. "Non credo alle predizioni! Non credo alle profezie!" "Sagramore morirà! urlò Mordred, riprendendosi dallo spavento. "No. Non discutere con me, Mordred." "Perché? Perché sei mio padre? Proprio perché sei mio padre me lo devi. Non togliermi Sagramore, è mio fratello." Artù impallidì e non disse nulla. Si limitò a chiamare le sue guardie ed a ordinare che il ragazzo venisse portato via dal suo cospetto. Mordred non capì che, per Artù, credere alla profezia su Sagramore avrebbe significato anche credere alla profezia su Mordred e doverlo uccidere per salvarsi. Così, Sagramore partì per Londinium e poche settimane dopo la sua partenza, giunse la notizia della sua morte.
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12-08-2009, 18.22.28 | #7 |
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03. Mordred (parte due) (capitolo 3 di 6)
Da quel momento la vita sembrò aver perso anche quei pochi colori che aveva avuto prima. Mordred iniziò a dedicarsi alle armi, all'addestramento, ricordando come Sagramore avesse sempre sperato, quando erano bimbi, di poter vedere Mordred cavaliere. Artù non gli negò la carica e, giovanissimo, Mordred divenne Sir Mordred. Molti cavalieri iniziarono ad essere gelosi di lui ed ad additarlo come un approfittatore. Bedivere, che fino ad ora era stato il sovrintendente di Artù, vide come una minaccia l'ascesa del giovane bastardo e tentò di convincere il re che sarebbe stato meglio rallentare quel ragazzo all'apparenza così cupo ed ambizioso. Artù non fece nulla, almeno finché non giunse Morgause. Mordred aveva già conosciuto i suoi fratellastri i quali lo temevano e lo odiavano perché, se un giorno Artù avesse riconosciuto Mordred come figlio, loro non avrebbero più potuto avere alcuna pretesa sul trono di Camelot. Da parte sua, il giovane cavaliere tentava di stare il più distante possibile da quei cuccioli irosi e litigiosi. Infine Mordred poté incontrare la madre. Nel momento in cui si guardarono negli occhi, entrambi capirono che l'altra persona sapeva. Mordred la chiamò Zia e Morgause ignorò il nomignolo e non impallidì nemmeno quando vide il figlio. Suo malgrado, Mordred si ritrovò ad ammirare quella donna di ghiaccio e sete di sangue che l'aveva generato ed a rammaricarsi del fatto che Morgause sembrava decisa ad ostacolarlo. Fu grazie a lei, diventata ormai braccio destro di Artù, che Mordred venne mandato a combattere contro i predoni irlandesi, a capo di un battaglione di cavalieri giovani ed inesperti. "Spero che tu muoia," gli disse Morgause, il giorno prima della partenza. "Siete rammaricata di non esserci riuscita la prima volta?" "Dovresti sperare di morire. Artù ti vuole morto." Mordred irrigidì la mascella, stringendo i denti per non colpire sua madre che con un singolo gesto ed una singola parola sembrava sempre capace di distruggerlo. "Non sapete nulla di me e di lui. Non siete mia madre." "Sono tua madre e tu sei uguale a me ed a lui. Sei meschino, infido e debole. Sei il peccato che si è fatto persona, per punire me ed Artù." "Non si tratta di voi e di Artù! Io sono Mordred e nient'altro. Si tratta di me!" "Artù mi ha chiesto di ucciderti perché Merlino e Nimue avevano predetto che tu un giorno avresti distrutto tuo padre." Mordred prese la spada e fece per uscire dalla stanza. Non voleva ascoltare quella vipera, non voleva sapere nulla. La donna lo prese per l'avambraccio e lo fece voltare, velocemente. "Artù spera ogni giorno che le gelosie degli altri cavalieri siano la tua morte. Dovresti ucciderti." "Morirò solo se sarà lui ad uccidermi," rispose Mordred, afferrando con forza la mano di Morgause prima che questa potesse accarezzargli il volto. Mordred ed i suoi cavalieri, combatterono contro i predoni irlandesi sulle coste ovest della Britannia per quasi due mesi. Si ricoprirono di sangue e tornarono a casa dimezzati. Ma contro tutte le speranze di Morgase, Mordred era ancora vivo ma nonostante questo aveva perso l'aria giovane che un ventenne dovrebbe avere. Aveva visto troppo ed in troppo poco tempo. Al suo ritorno, il giovane trovò Camelot cambiata. Morgause era ancora lì, pronta a consigliare Artù in tutto, a stargli vicino ed ad amarlo da lontano con un amore che non aveva nulla di fraterno. Artù però sembrava stanco, più vecchio, sommerso da un mondo che era completamente diverso e corrotto da come lo aveva immaginato e sperato da giovane. Le voci di un tradimento di Ginevra con Lancillotto, uno dei cavalieri più potenti e coraggiosi di Artù, giravano per Camelot, implacabili, rendendo ridicolo il re, che non faceva nulla né per fermarle né per fermare gli amanti. Da parte sua, Mordred trovò il re più distante e sospettoso e se ne andò dal loro primo colloquio con un'amarezza ed una delusione che non aveva mai provato prima. Agravaine arrivò in quel momento. Giovane cucciolo di Morgause, Agravaine era diventato un cavaliere ma ancora non era partito in alcuna missione e passava il suo tempo ad odiare il re per l'ottimo rapporto che questi aveva con la madre Morgause. Mordred capì subito che genere di affetto di celava dietro gli occhi del fratellastro. Con orrore si chiese se l'incesto, l'infamia ed il peccato non fosse una parte obbligatoria compresa nel sangue dei Pendragon e dei figli di Igraine. "Cugino, ho bisogno del tuo aiuto per salvare l'onore del nostro re." Mordred dubitò subito che si trattasse di qualcosa circa l'onore del re, ma trattò Agravaine con la solita cortese irritazione di sempre e sorrise. "Quale onore?" "Parlo di Lancillotto e Ginevra, i traditori. Stanno infangando il nome del nostro re." "Sei malato quanto tua madre," gli sussurrò Mordred, sporgendosi verso di lui, sperando di cacciare quel piccolo assetato di vendetta ed amore. "Marcio come tutta la sua cucciolata di cani fedeli, solo a lei, non ad Artù." Agravaine però non sembrava disposto a cedere, non quella volta. "Artù potrebbe decidere di nominarti suo erede se dovesse perdere la moglie. Ed in caso di adulterio ti assicuro che non potrebbe salvarla dal fuoco. Il nostro re potrebbe persino chiamarti figlio." Gli occhi di Mordred si allargarono ed Agravaine sentì di aver colpito le corde giuste. La sua vita non era stata nulla. Aveva vissuto con una donna che non era sua madre e che l'aveva amato per amore di un'altra persona. Solo Sagramore l'aveva davvero amato per ciò che era ma ora Sagramore era morto per sempre e non sarebbe mai più tornato a prenderlo in giro per la sua bocca troppo larga o per i suoi capelli sempre troppo arruffati. Era figlio del re ma non era veramente figlio di nessuno perché mai, mai, nemmeno una volta, qualcuno lo aveva chiamato figlio mio e le uniche parole che aveva ricevuto da sua madre erano stati auguri di morte. La sua vita era stata come il mondo che vedevano i suoi occhi, senza il rosso di tutto ciò che rappresentava la sua casata Pendragon: la forza, la vitalità, il coraggio, l'amore. Se Artù fosse stato costretto a riconoscerlo come figlio- in mancanza di un erede lo avrebbe fatto di sicuro. Ed in ogni caso il re gli sarebbe stato riconoscente per aver salvato davvero la sua reputazione ed il suo onore dalle grinfie peccatrici della moglie. "Accetto." Qualche giorno dopo la trappola agì. Agravaine aveva programmato tutto. Il momento in cui sorprendere i due amanti, come dirlo al re, che cosa fare. Erano in tre, lui, Mordred e Gaheris, trascinato dal fratello. Purtroppo le cose non andarono come sperarono. Quando i due amanti si incontrarono, Agravaine balzò fuori dal nascondiglio ed afferrò la regina, iniziando a trascinarla fino alla stanza di Artù, mentre Mordred e Gaheris furono costretti a battersi contro Lancillotto, per evitare di essere uccisi dalla rabbia del cavaliere. Artù accolse con ira il nipote ed abbracciò la propria consorte, in lacrime ed umiliata ed osservò con disprezzo Mordred, Gaheris e Agravaine, ora la suo cospetto. "Come hai osato trattare in questo modo la tua regina!" "Mio re, mio sovrano, Ginevra, la Regina, vi stava tradendo. L'abbiamo sorpresa mentre stava per darsi a Lancillotto, il vostro cavaliere traditore," rispose Gaheris. "Lancillotto è fuggito," spiegò Agravaine, "e se non vi bastano le vostre parole, questa è una prova della sua colpevolezza." "Non lasciate che l'amore di qualcuno vi accechi e vi impedisca di compiere i vostri doveri," intervenne infine Mordred, gelidamente. Artù ordinò loro di uscire e di lasciarlo solo. I tre vennero sorvegliati continuamente da guardie del re e non poterono lasciare le loro abitazioni o Camelot. Sembrava improvvisamente che l'atto dei tre fratelli, o fratellastri, avesse cancellato il tradimento di Ginevra e Lancillotto. Improvvisamente era molto più interessante pensare a Lancillotto ed a Ginevra come due casti amici tratti in inganno da tre serpi assetati di potere. Artù non fu da meno. Per amore di Ginevra, annunciò pubblicamente che non vi era stato alcun adulterio e che Mordred, Agravaine e Gaheris avevano fatto irruzione nelle stanze reali. "Sicuramente spinti dalla maldicenza di Sir Mordred," aggiunse Morgause. E subito Mordred seppe subito a chi dare la colpa. Provò ad incrociare lo sguardo di Artù ma questi lo evitò, severo. "Siete banditi," annunciò infine. E la condanna giunse come una liberazione nel cuore di Mordred. Ora aveva qualcosa da distruggere. Qualcuno da odiare. Ora poteva odiare Artù e Morgause, finalmente. Giurò che non avrebbe mai più sperato in loro e che non avrebbe mai più desiderato le braccia di Artù che lo abbracciavano. Eppure, mentre lasciava Camelot, era proprio al primo incontro con il re che Mordred pensava. A quel momento in cui tutte le loro debolezze erano venute meno. E decise che il modo più veloce per distruggere quel ricordo sarebbe stato distruggere Artù. Per chi se lo stesse chiedendo, Mordred è affetto da pronatopia (questo è il termine inglese), che è una forma di daltonismo. Ho pensato che, essendo Mordred figlio di una sorella e di un fratello, avesse più probabilità di essere affetto da una malattia genetica. http://colorfilter.wickline.org/ <= in questo sito potete selezionare 'pronatopia' e mette una pagina web per vedere anche voi come vede una persona affetta da questa malattia. Io non sono daltonica quindi ho sicuramente fatto degli errori nell'usare questa malattia che non conosco bene. Se qualcuno di voi li nota, vi prego di dirmelo e correggerò subito la storia. Hu hu, per amor di fanfiction e fandom ho fatto accadere le cose troppo velocemente, forse, perché Mordred ha solo 25 anni alla battaglia di Camlann. Dite che è poco?
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12-08-2009, 21.45.20 | #8 |
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Complimenti Mordred Inlè: siete molto brava a descrivere le emozioni dei personaggi. I vostri sono racconti molto intensi. Brava veramente
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12-08-2009, 23.06.44 | #9 |
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Vi ringrazio infinitamente ;_; quello che mi preme di più è descrivere le emozioni.
(capitolo 4 di 6) 04. Artù - parte prima Artù non era ancora nato quando il suo destino venne deciso. Uther fu, al tempo, uno dei più grandi condottieri e re di Britannia e suo fratello Merlino, detto il Druido o il Mago, rimaneva un profeta e stregone temuto da molte genti. Dove Uther era irruente, spesso violento ed egoista, Merlino sapeva essere calmo, paziente e riflessivo. Ma nonostante questo, Merlino amava il fratello e non riusciva a negargli nulla, nemmeno un terribile incantesimo per ingannare Igraine, la donna di cui Uther si era invaghito. Igraine, si uccise, appena le figlie furono in salvo, sposate o in convento, ed il figlio fu nato. Artù aveva due anni. Ma quello di Uther non era stato un sentimento passeggero e, benché colmo di egoismo e rabbia, l'uomo aveva davvero amato Igraine. Fu così che, sommerso dal dolore per la morte di lei, l'uomo partì per battaglie sempre più pericolose, nella speranza di morire, e lasciò il suo unico figlio ed erede alle cure di Merlino ed Ector. Il giovane Artù riuscì quindi a crescere nell'atmosfera gioiosa del castello di Sir Ector, assieme al figlio sir Kay, di un anno più giovane del piccolo Artù. Merlino si occupava dell'istruzione del nipote e faceva tutto ciò che era in suo potere per renderlo un uomo migliore di Uther, per trascinarlo sulla via della riflessione e della giustizia. Ector, spesso e volentieri, prendeva il piccolo Artù dalle cure di Merlino e lo allenava per renderlo, un giorno non molto futuro, il condottiero ed il guerriero più famoso di Britannia. Tra giochi, allenamenti e studi, Artù crebbe ignaro della fine della madre e dei crimini del padre verso di lei, verso il popolo di Avalon e verso Viviane, una delle parenti di Igraine che si era mobilitata per salvarla. Artù crebbe anche ignaro di ciò che sarebbe diventato e di rado riusciva ad incontrare il padre. Si limitava quindi ad immaginare le volte in cui Uther sarebbe passato a salutarlo ed in ogni sua fantasia, il padre era un uomo giusto, calmo ed amorevole, costretto a rimanere da lui per difendere il proprio regno. Fu origliando una conversazione tra lo zio ed Uther, che Artù capì che si sbagliavano colore che dicevano che fantasticare non era doloroso. "Spero tu possa stare di più. Artù ha bisogno di un padre," disse la voce di Merlino, con il suo timbro profondo e dolce. "Artù ha già te ed Ector, non ha bisogno di me," rispose Uther, il padre, respirando affannosamente mentre si toglieva l'armatura. C'era odore di sangue nell'aria. "Ma forse tu hai bisogno di lui." Artù stette immobile, appoggiato alla porta, tentando di captare suoni ed immagini da un piccolo spiraglio. Sobbalzò quando Uther sbatté rumorosamente un pugno contro il tavolo di legno, facendo cadere delle ciotole. "Merlino! Non lo voglio vedere. Tu non capisci, ogni volta che guardo il suo volto vedo Igraine. La vedo che mi accusa, che mi insulta. La vedo ovunque-" La voce del padre si era fatta quasi un sussurro ed il bambino non riuscì a sentire cosa venne detto subito dopo. "Potresti fare ammenda ai tuoi peccati se volessi bene a tuo figlio ed alle sue figlie. "Le sue figlie sono delle streghe! Tu stesso mi parlasti della profezia. Una di quelle donne ed Artù compiranno insieme un terribile peccato. Era così che diceva? Un peccato che distruggerà mio figlio!" Merlino sospirò e si sedette su una delle sedie, stancamente. I suoi folti capelli rossi stavano iniziando ad ingrigirsi, qua e là, e la fronte, che un tempo era bella e liscia ed aveva fatto innamorare molte donne e uomini, aveva ora qualche lunga ruga. "Le profezie ci ingannano e spesso ciò che facciamo per evitarle ci porta ad esse. Ti dissi del mio sogno per fare attenzione non per mobilitare le tue armate contro Lot o tentare di avvelenare Morgana ed Elaine." Artù sapeva di avere tre sorellastre ma mai nessuno parlava di loro perché nessuno le aveva conosciute bene. Uther le aveva subito cacciate da Tintagel, poco dopo la nascita dell'erede. "Non mi interessa, sono figlie del demonio, sono figlie di Gorlois. Una prega perché io muoia, l'altra complotta con la tua amante Nimue e la terza tenta di sollevare armate per prendersi il mio trono. Merlino, sto costruendo grandi cose per mio figlio. Sto costruendo una città ed un castello e lui un giorno ne diventerà Grande Re," sussurrò Uther ed il suo tono iniziò a divenire sognante, appassionato. "Non vedi la scia di sangue che lasci dietro di te?" Il cuore del piccolo Artù sobbalzò alla vista del padre che sguainava la spada e la premeva contro la gola di Merlino, con un gesto fulmineo. "Sono stanco dei tuoi rimproveri," urlò, ma il fratello rimase immobile. Fu quello il momento in cui Artù non poté più resistere e, con il timore che il padre uccidesse l'unico uomo che lo avesse mai trattato da figlio, entrò nella stanza e si buttò su Merlino, davanti a lui, con l'intento di proteggerlo. "Artù," esclamò lo zio, sorpreso. "Preferisci Merlino a me, figlio ingrato e spione," gli sibilò il padre, altrettanto sorpreso. Uther rimise la spada nel fodero, sputò nel fuoco, che si stava quasi spegnendo e finì di bere da uno dei boccali sul largo tavolo. Infine uscì dalla stanza, in silenzio. Per tutto il tempo, Artù era rimasto abbracciato allo zio, con la testa nascosta nella sua spalla. Non voleva vedere lo sguardo ubriaco e carico di delusione del padre. Artù aveva quindici anni quando scoprì che, nonostante Uther lo ritenesse una delusione per il suo carattere troppo tranquillo e calmo, il padre lo considerava comunque come il suo unico e solo erede ed intendeva fare di lui il Grande Re della città splendente che aveva costruito: Camelot. Uther arrivò da Sir Ector un giorno di maggio, chiedendo che gli fosse portato il figlio. Urlando che era ora di fare di lui un Pendragon. Merlino aveva tentato di opporsi ma Uther era più forte e si portò via Artù, verso la prima battaglia del ragazzo contro i Sassoni. Artù ed Uther combatterono fianco e fianco per tre anni, contro i Sassoni, contro bande di mercenari stanchi che non avevano nulla da perdere, contro i pirati Irlandesi. Dove Uther era pronto a distruggere il nemico, Artù si prodigava in perdoni e ben presto quelle stesse bande senza capo che distruggevano le campagne, si aggrapparono a lui ed al suo comando pur di avere uno scopo nella vita. La Britannia iniziava ad avere un nuovo ordine ma sembrò che tutto dovesse finire, quando Uther morì. Non fu un assassinio, come il paranoico condottiero tanto temeva, ma un incidente in battaglia. Artù si ritrovò re, padrone di Camelot e di eserciti, portatore della temuta bandiera Pendragon, a soli diciotto anni. Temette di essere perduto ma fortunatamente Merlino tornò per soccorrerlo, ancora una volta, e guidarlo. Purtroppo giunse tardi. Di ritorno da una delle battaglie per arginare le orde Sassoni sempre più pressanti, Artù ed il suo esercito avevano trovato il castello di Camelot colmo di ospiti e di invitati, lì per celebrare la morte del grande Uther e per acclamare l'ascesa al trono del giovane figlio. Incapace di separarsi dai suoi uomini, il ragazzo era rimasto con loro, quella notte, a festeggiare la battaglia vinta ed a compiangere il re, a bere ed a ballare con damigelle che probabilmente non avrebbero mai più rivisto. L'errore di Artù fu quello di fare ben di più con una damigella che sarebbe stato costretto a rivedere ancora molte e molte volte. Merlino arrivò solo il giorno dopo e trovò il giovane distrutto, immobile nel suo letto, tremante. "Artù, Artù, cosa succede?" Il Mago era invecchiato. Era invecchiato troppo in quegli anni ed uno dei suoi occhi era diventato cieco. Una disputa con Nimue, avrebbe dichiarato successivamente, ma tutto ciò che gli importava in quel momento era tornare a vedere Artù sorridere come un tempo. Il giovane non rimase immobile ancora a lungo, si risollevò a fatica dal letto ed abbracciò lo zio, sentendo le sue energie venire meno. "Merlino, ho fatto qualcosa di terribile," sussurrò e non si preoccupò di fermare le lacrime perché con lo zio era al sicuro da tutto e da tutti, anche dal giudizio. "Sei così giovane, non hai ancora avuto tempo per commettere crimini." Ma la frase non consolò il ragazzo, anzi, gli ricordò quanto veramente fosse giovane e quante responsabilità avrebbe dovuto affrontare. Per un momento si sentì di nuovo come quel bambino che cercava disperatamente lo sguardo del padre, sperando di vedervi dell'orgoglio. "Ho giaciuto con Morgause," sussurrò il giovane re, tremando. Dirlo a voce alta lo rendeva tremendamente vero. Le braccia di Merlino, che in quel momento lo stavano abbracciando, esitarono solo per un momento che fu sufficiente per spingere Artù a giustificarsi con disperazione. "Non lo sapevo- no, non lo sapevamo, nessuno dei due. O dei, o dei, è questo il peccato? So tutto, è questa la mia fine?" "No, caro ragazzo, non temere. Non vedo come una cosa simile potrebbe ucciderti," tentò di consolarlo l'uomo e lo scostò un po' da sé per potergli mostrare un debole sorriso ed asciugargli le guance rigate dalle lacrime. "Esisteva un'antica società, in terre che né io né te abbiamo mai visto, in cui i re sposavano le proprie sorelle per mantenere pura la dinastia." "Te lo sei inventato," sorrise Artù. Sentire nuovamente le favole del vecchio Merlino, i suoi racconti forse immaginati, era come un raggio di luce nel suo cuore. I due parlarono tutta la notte e lo zio riuscì a distrarre il nipote, raccontandogli dei suoi viaggia per la Britannia ed in Irlanda, delle principesse meravigliose che aveva visto e dei nobili cavalieri che aveva incontrato. Gli parlò del magico calderone chiamato Graal ed infine, quando le lacrime del re si fermarono e quando la gioia di quella visita riuscì anche se solo un poco a consolare la tristezza, Merlino si alzò e porse al suo sovrano una lunga cassa di legno nero, con intagli argentei. "E' una spada," esclamò il ragazzo quando aprì la scatola e vi trovò un fodero di semplice pelle scura. Estrasse l'arma e ne ammirò la lama lucente e perfettamente affilata. Sarebbe sembrata una spada comunissima se non fosse stato per delle piccole parole intagliate nella superficie. Purtroppo era una lingua a lui sconosciuta. "E' leggera ma è lunga, non è una daga. Di cosa è fatta? Cosa c'è scritto?" "Non so di cosa è fatta ma so che è una spada sacra ed antichissima. Uther la rubò alla Dama Viviana, ad Avalon, dopo la rivolta. Guarda," aggiunse infine il Mago, toccando la lama, "rimane sempre affilata. Nessuno sa decifrare l'incisione ma c'è chi sostiene sia una formula magica per richiamare antichi dei di cui si è scordato il nome." "Perché mio padre non la usava?" "Gliela sottrassi. E' una spada molto potente e in mani sue avrebbe distrutto regni interi. Tu ne sei degno. Ti conosco e sarai un re giusto." Da quel giorno Artù non lasciò mai Excalibur e non la allontanò mai dal suo fianco. Voci iniziarono a girare per Camelot ed alcuni cavalieri superstiziosi, conosciuta l'esistenza della spada, si unirono ai già numerosi seguaci del re. Il ragazzo, con Merlino e l'amico Kay al fianco, riuscì ben presto a dimenticare ciò che accadde quella notte di mesi prima, immerso nelle proprie responsabilità, nella giustizia del regno e nelle battaglie contro i sassoni. Solo qualche volta, la notte, Artù si svegliava ansimando, febbricitante dopo sogni di orribili ombre che non riusciva a ricordare. Le ombre arrivarono a perseguitarlo nove mesi dopo. Morgause tornò a Camelot ma non era sola. Altera e bellissima, la donna non mostrò alcun timore o vergogna davanti al fratellastro e non perse tempo ad inchinarsi o a mostrarsi diversa da ciò che era. "Dimmi cosa ne devo fare." Furono quelle le parole di Morgause e nei suoi occhi non vi era altro che devozione mentre teneva alto il bimbo che era nato da quella fatidica notte. Le mani della donna artigliavano violente il petto del bimbo come se lei avesse già deciso quale sarebbe stata la risposta del re. Artù non riuscì a vedere le manine rosee e le piccole gambette del figlio, non riuscì a vedervi il proprio sangue ma solo l'oggetto che l'avrebbe distrutto e per un attimo si immaginò mentre scendeva nell'oltretomba ed incontrava nuovamente il padre. Nuovamente deluso di un figlio incapace. "Dobbiamo ucciderlo," sussurrò il re, improvvisamente spaventato alla vista di suo figlio. "E' un mostro, è un abominio." Tutte le rassicurazioni dello zio scomparvero alla vista degli occhietti neri del bambino e degli occhi terribili della sorellastra. Non ci mise molto, il giovane re, a convincere la sorella che non aspettava altro che essere convinta. Morgause sembrava non aver alcun rimorso nel proporre l'uccisione del figlio ed anche quando le lacrime iniziarono a salire agli occhi di Artù, lei rimase ferma nella sua decisione. Prima che il re potesse replicare e volesse abbracciare quelle piccole braccette che si tendevano verso di lui, Morgause prese con sé il figlio senza nome e se ne sbarazzò. Non passò un giorno in cui il re non si pentì di ciò che aveva fatto. Ma ogni giorno, ogni notte, il pensiero di essere ancora vivo sembrava confortarlo e la memoria degli occhi di Morgause sembravano ricordargli di quanto quel gesto fosse stato necessario. O questo era ciò che aveva bisogno di credere per non impazzire. Non passarono nemmeno tre anni che Merlino consigliò ad Artù di prendere una moglie e non una moglie qualsiasi ma una principessa del nord così da unire anche le genti più lontane al dominio di Camelot. Scelse Ginevra, figlia di un potente duca nel nord del regno, duca che con immensa gioia gli donò figlia, cavalli, ricchezze ed una decorata tavola rotonda. Artù pensò di essersi innamorato di Ginevra a prima vista perché lei era dolce, delicata e bellissima e qualsiasi donna avrebbe sfigurato accanto alla principessa. Ben presto, il re scoprì che l'amore è tutt'altra cosa e lo scoprì con la risata della dolce Ginevra. Ginevra sapeva ridere in un modo unico, con uno sguardo sorpreso e la bocca aperta. Non era nulla di principesco ma qualcosa del modo in cui Ginevra sussultava tra le risate faceva gemere il cuore di Artù. Nessun'altra donna poteva farlo sentire così. I primi mesi di nozze con Ginevra furono senza dubbio i più gioiosi della sua vita. Durante le settimane tentava di lasciare il regno in mano a Merlino o a sir Kay e di trascorrere più tempo possibile con la sua dama, sognando di essere un semplice cavaliere e non un uomo che per tutta la vita sarebbe stato legato al suo trono ed al suo nome. L'idillio però terminò quando i sassoni ricominciarono ad avanzare verso Londinium ed Artù fu costretto ad indossare nuovamente le vesti del re guerriero ed a chiamare a raccolta i cavalieri e gli eserciti. Da quel momento tutto ciò che accadde sembrò nato da una terribile maledizione. Merlino scomparve. Svanì nel nulla e a niente servirono le ricerche dei cavalieri. C'era chi mormorava che la sua amante, Nimue, si fosse infine rivelata per la strega che era e l'avesse imprigionato in una grotta. Ma Merlino non se ne andò prima di aver fatto ad Artù un nuovo dono: un cavaliere. Lancillotto era giovane, molto giovane. Era il cavalieri più giovane che Artù avesse mai accolto nel suo castello ed anche il più straniero perché era il figlio dell'ormai defunto re Ban di Francia. La moglie, in fin di vita, l'aveva affidato ad una serva che, per fuggire agli aggressori romani, aveva navigato fino alla Britannia. Artù trovò in Lancillotto una scintilla di speranza. Vedeva in lui un nuovo se stesso, abbandonato dai genitori e senza madre ma abile combattente e assetato di giustizia. Lancillotto ricambiò con gioia l'amicizia che il re gli offriva e, con grande dolore di Kay, ben presto tutti conobbero il nuovo cavaliere con il soprannome di Braccio destro del re. Dopo la scomparsa di Merlino, Morgana iniziò ad inviare persistenti messaggi ad Artù, con la richiesta di vederlo e conoscerlo finalmente come fratello ed amarlo. Il re, ancora giovane ed ingenuo, accettò di accogliere la sorellastra a corte, sperando di trovare in lei dell'affetto ora che lo zio se ne era andato, forse per sempre. Il loro primo incontro fu banale e con banalità i due si trovarono l'uno di fronte all'altra e si guardarono. Erano identici, come due fratelli. Le timide speranze, alimentate dalla permanenza di Morgana accanto alla regina, vennero presto distrutte. La donna non aveva abbandonato le sue aspirazioni su quel trono ed insieme ad Accolon, un ingenuo amante, aveva rubato Excalibur. Artù era stato costretto a combattere con la spada dell'amico Lancillotto ed aveva sconfitto ed ucciso l'inesperto Accolon. "Mi ucciderai?" chiese Morgana, torreggiante sul cadavere dell'amante, senza provare la minima emozione. "Ti bandisco." "Debole, è un errore." "Se fossimo cresciuti assieme... tu mi avresti voluto bene, sorella?" "Non chiamarmi sorella," ringhiò Morgana, sputando per terra, "tuo padre ha ucciso nostra madre, il suo sangue di drago inferocito scorre nelle tue vene. Il sangue di un usurpatore di troni. Sarei stata una regina migliore di te." Furono queste le parole con cui la sorellastra lo lasciò. Con la fuga della Strega, l'umore di Ginevra sembrò diventare sempre più malinconico ed irritabile. Vi erano dei giorni in cui si chiudeva nella sua stanza a piangere o a guardare il vuoto, senza parlare nonostante le sue damigelle persistessero nel conversare con lei. Altri invece li passava a sgattaiolare fuori dal castello, a passeggiare in luoghi in cui nessun cavaliere riusciva a trovarla. Nessuno eccetto Lancillotto, che iniziò a sviluppare con la regina una forte amicizia. Artù tentò di allontanarsi leggermente da lei. La amava, profondamente, ma vedere la freddezza della regina gli spezzava il cuore e sapeva bene di non poter riuscire per sempre ad amare una donna incapace di ricambiare. l
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Dopo la cacciata di Morgana, Artù quasi si dimenticò di avere anche un'altra sorellastra, la bella Morgause. Le guerre contro i Sassoni e gli sforzi per tenere insieme pacificamente i cavalieri, occupavano tutto il suo tempo. Solo la presenza dei figli della donna sembravano ricordare ad Artù che anche lui aveva una famiglia.
La cucciolata di Morgause somigliava molto di più a re Lot che allo zio re o alla madre. Erano un gruppo molto unito, sempre pronto a spalleggiare quel o quell'altro fratello. Artù non vedeva di buon occhio il modo in cui i più giovani Agravaine e Gaheris tentavano di approfittare della loro parentela per fare successo mentre si accorse di aver trovato in Gawain un amico ed un fido cavaliere. Gareth invece era sicuramente il più originale. Arrivò fingendosi un lavapiatti per non permettere al nome della sua famiglia di interferire con ciò che voleva fare: farsi riconoscere come il miglior cavaliere di Camelot. Si fece chiamare Beaumanis, belle mani, e si offrì volontario nella pericolosa richiesta di Lynette che temeva per l'incolumità della sorella Lyonesse, tenuta prigioniera. Dopo che ebbe liberato la dama, Gareth tornò a Camelot e venne fatto cavaliere, sposò Lynette e rivelò a tutti il proprio vero nome. Artù spesso si ritrovava a pensare a Gareth come al figlio che Ginevra non era mai riuscita a dargli. Gawain era fedele ma Gareth era ingenuo, ambizioso quanto lo era stato lui un tempo e seguiva gli stessi miraggi di giustizia e fratellanza che tanto infiammavano in cuore di Artù. Nonostante la freddezza di Ginevra e le guerre, furono anni gentili ma vennero bruscamente interrotti in primavera, con l'arrivo di un messaggero dal regno di Sagramor. Sagramor era uno dei suoi cavalieri ed era figlio di una potente regina, quindi Artù non si stupì quando una guardia gli disse che un messaggero della regina Dorottya Erzsebet intendeva parlargli di persona. Si stupì invece quanto il giovane messaggero, appena un ragazzo, rimase immobile, a fissarlo, con una tale aria di paura e disperazione che Artù sentì il proprio cuore stringersi. "Siete un messaggero?" domandò, sospettoso ed incerto. "No," rantolò il ragazzo, con voce rauca e spezzata. Le guardie, dietro al messaggero, si rizzarono, allarmate ed anche Artù si preparò ad estrarre la spada. Non intendeva certo usarla prima di aver sentito cosa avesse da dire il nuovo venuto ma la precauzione non era mai troppa. Già molte volte erano giunti assassini a Camelot, con l'unico scopo di prendere la sua testa come souvenir. Appena la mano del re toccò l'elsa, il messaggero sobbalzò violentemente e sembrò accasciarsi su se stesso e cadere semplicemente ai piedi del re. Artù lo sentì tremare contro la propria veste ed impallidì, spaventato e preoccupato. "Non lo fate, vi prego, non di nuovo, vi prego, non vi ho fatto nulla," iniziò a sussurrare il ragazzo. "Di cosa stai parlando?" tentò di domandare il re ma la sua voce uscì troppo sottile, come un soffio e non fu sicuro che il giovane poté udirlo. Artù si schiarì la gola, tentando di ricomporsi e di ricordarsi che una volta Morgana aveva mandato da lui una damigella supplicante che aveva cercato di ucciderlo mentre piangeva tra le braccia del re, con un pugnale avvelenato. Come precauzione, staccò da se il nuovo arrivato e tentò di tenerlo sotto la minaccia della propria spada. "Chi sei?" domandò, tentando di sembrare rassicurante. Lancillotto gli diceva sempre che aveva il cuore troppo debole per i deboli. "Mordred." Ed ormai Mordred era in lacrime. Artù aveva visto piangere molte donne e molti uomini, ma solitamente non ne era lui la causa o se lo era sapeva perché. Trovarsi di fronte quel giovane ragazzo, piangente, lo fece sentire completamente spoglio ed a disagio. Si sentì terribilmente in colpa senza saperne il motivo. "Non conosco nessun Mordred," tentò di spiegare il re, sperando di avere in risposta qualche altro indizio sull'identità di Mordred. "Figlio di Morgause." Ed Artù capì. Lo capì subito e vide tutto. Vide i capelli scuri come i propri, vide Morgause e vide se stesso, vide qualcosa di Uther e vide Morgana. Ed infine vide qualcosa di nuovo: suo figlio. E capì il perché della paura. La prima cosa che gli passò per la mente fu anche ciò che disse. Sei vivo. Non sapeva se piangere o ridere, perché per anni, per notti intere, incubi di un infante morto affogato erano venuti a tormentarlo. Improvvisamente si accorse che tutto ciò che sembrava averlo soffocato in quegli anni era stato proprio la consapevolezza di aver messo a morte un innocente, il suo innocente, per una colpa di cui solo Artù era da biasimare. "Sei vivo." "Perdonatemi, perdonatemi," iniziò a rantolare il figlio. "Mordred," assaporò Artù, spaventato. Va tutto bene, non è colpa tua. Sei mio figlio. avrebbe voluto dire ma la bocca gli si inaridì. La sua bocca restò inaridita per molto tempo mentre piangeva abbracciato a quel bimbo, ora quasi uomo, che era sangue del suo sangue. Voleva parlargli, spiegargli ciò che aveva fatto e perché, ma non vi riusciva. Anche nei giorni e nelle settimane successive, quando fu chiaro che il ragazzo sarebbe rimasto, e Artù non avrebbe voluto che quello, il re non riuscì mai, nemmeno una volta, a guardarlo negli occhi. Temeva di leggervi disperazione, rabbia, accuse. E mai riuscì Artù a chiedere perdono perché la sua colpa era troppo grande ed il terrore di un rifiuto lo era altrettanto. L'unico modo che aveva, e conosceva, per far capire ciò che provava per il figlio era fare ciò che Uther aveva fatto con lui. Assicurargli un'adeguata istruzione e costanti allenamenti, dargli soldi e cavalli, stallieri, un titolo. Renderlo cavaliere. Sapeva che in questo modo gli altri cavalieri si sarebbero fatti domande, sarebbero stati gelosi, ma per Artù non vi era altro metodo che quello per raggiungere il perdono. "Quel ragazzo è una vipera avida di potere, non rifiuta nemmeno uno dei doni che gli fate," gli disse Bedivere, un giorno. Bedivere era un amico di vecchia data di Artù e Kay e qualche anno prima era stato nominato sovrintendente del castello. "Si merita tutto ciò che ottiene. Diverrà un grande cavaliere, lo è già." "L'amore per quel-" "Bastardo?" Bedivere arrossì. Voci nel castello spiegavano con vivaci colori come Mordred, in realtà, fosse uno dei bastardi di Artù, nato da chissà quale dama del nord della Britannia. Nessuno conosceva la madre di Mordred. "Lo mettete davanti a tutti i cavalieri che vi servono da anni. Agravaine ed i fratelli delle Orcadi iniziano a sospettare che voi vogliate nominarlo vostro erede." "Ed anche se fosse?" "Potete ancora avere dei figli legittimi con la regina," tentò di convincerlo Bedivere, vedendo minacciato così presto il proprio posto di sovrintendente. Ed aveva ragione. Artù decise quindi di non legittimare la propria paternità, lasciando credere a tutti ciò che volessero credere. Si disse che lo faceva per proteggere Mordred perché i giovani delle Orcadi, e gli altri cavalieri, avrebbero iniziato una faida contro il ragazzo pur di non avere rivali al trono. Ed in parte era vero. Ma una parte di lui non riusciva a chiamare il ragazzo figlio. Nemmeno una volta. Aveva troppo peccato per poter ricevere la grazia di un figlio. Il periodo di dolore ed incertezze mitigò un poco quando Morgause arrivò alla corte. Lot era morto e lei era libera di fare ciò che voleva. Nessuno dubitò che Morgause sarebbe rimasta ma nessuno capì davvero che la donna decise di rimanere per Artù e non per i propri figli.
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