22-01-2013, 17.25.50 | #101 |
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LA VERGINE MARTIRE CAGLIARITANA:
BARBARA A CAPOTERRA. Il culto di Santa Barbara, Vergine e Martire Cagliaritana, ebbe inizio o rinnovato impulso a partire dal 1620. In quell’anno, infatti, durante gli scavi nella Cripta di Santa Restituta a Cagliari, ordinati dall’allora arcivescovo Francisco Desquivel (1605-1624), il 23 giugno fu ritrovato un loculo terragno con la seguente iscrizione: S(ancta) Barbara V(irgo) et / M(artyr) q(uae) vixit an(n)is / XXX. In traduzione italiana: «Santa Barbara, Vergine e Martire, che visse trent’anni». Il padre Cappuccino Serafin Esquirro, uno tra gli studiosi maggiormente impegnati nelle ricerche seicentesche dei Cuerpos Santos, che all’epoca interessarono tutta la Sardegna, parlando della scoperta nel suo libro Santuario de Caller, pubblicato nel 1624, spiega come questa gli avesse dato modo di intendere certi riferimenti di antiche tradizioni locali, rimasti sino a quel momento alquanto misteriosi. Secondo tali racconti, una Santa di nome Barbara sarebbe stata decapitata non molto lontano da Cagliari, sulle montagne di Capoterra, in un luogo chiamato La Escap(i)sada a causa appunto di questo martirio. L’Esquirro, inizialmente, aveva ritenuto ridicola questa tradizione (cosa de risa, dice testualmente), perché l’unica Santa Barbara nota al Martirologio Romano, venerata il 4 dicembre, era stata uccisa a Nicomedia di Bitinia (oggi Ismid, in Turchia) e con Cagliari non aveva mai avuto niente a che fare. Alla luce di questo ritrovamento, però, egli dovette ricredersi e ammettere un caso di omonimia, cioè che un’altra cristiana di nome Barbara fosse stata martirizzata in odio alla Fede anche a Cagliari. Durante il medioevo, con lo spopolamento e l’abbandono subito dalla città a causa delle invasioni islamiche (de los iniquos Sarraçinos, scrive l’autore seicentesco), la documentazione storica relativa a questa Santa locale sarebbe dunque andata dispersa, la sua figura dimenticata e progressivamente confusa con quella, ben più famosa, della Martire nicomediense. A questo primo quadro ricostruttivo aggiunse nuovi elementi Dionisio Bonfant, nel suo Triumpho de los Santos del Reyno de Cerdeña, pubblicato a Cagliari nel 1635, avendoli a propria volta raccolti sia dalla tradizione orale sia tramite sopralluoghi personalmente effettuati. Poiché le reliquie di Santa Barbara e quelle di Santa Restituta erano state ritrovate a breve distanza le une dalle altre, egli ipotizzò che le due fossero state compagne anche nel martirio. Riferendo l’Esquirro, anche il Bonfant accolse la tradizione del martirio della Santa avvenuto sui monti di Capoterra, aggiungendo che la sorgente detta Sa Scabiçada sarebbe scaturita proprio nel momento in cui la testa di Barbara, recisa, cadde al suolo. Interessantissime notizie furono quindi da lui fornite su certi monaci che avrebbero edificato, a protezione della fonte, la cappillica (cioè la cappellina) ancora esistente, e sugli Eremitani di Sant’Agostino che, nel XIII secolo, eressero poco più a valle la chiesa che tuttora si conserva. Bonfant ricorda inoltre come quei religiosi custodissero una cabeça de marmol desta Santa, ad ulteriore memoria del suo martirio. Proprio quest’ultimo elemento consente importanti osservazioni. Al contrario di quanto pensavano Esquirro e Bonfant, il toponimo La Escap(i)sada / Sa Scabiçada potrebbe non essere molto antico, ma risalente a dopo l’arrivo in Sardegna dei catalano-aragonesi, nel XIV secolo. Tale toponimo, dunque, sarebbe stato coniato in età abbastanza tarda, probabilmente nel momento in cui i monaci Basiliani, nel 1335, poterono entrare in possesso della chiesa di Santa Barbara grazie alla generosità del re d’Aragona e di Sardegna Alfonso IV il Benigno. Questi religiosi, insediandosi nel romitorio, dovettero probabilmente trovarvi la testa marmorea e, dal tentativo di spiegarne la presenza, potrebbe essersi ingenerata in loro la convinzione che il supplizio della Santa fosse avvenuto proprio in questo luogo. Dai costruttori romanici la testa marmorea doveva essere stata raccolta tra le rovine di Cagliari o della vicina Nora, assai verosimilmente, per essere utilizzata quale elemento decorativo di reimpiego, secondo un gusto antiquario tipico delle architetture medievali di norma pisana, alla quale per stile si assegna anche la chiesa di Santa Barbara. Niente esclude, beninteso, che i monaci Agostiniani avessero voluto collocare nella loro chiesa questo pezzo d’antichità anche per avvalorare una tradizione - quella del martirio di Santa Barbara - connessa al sito già prima del loro arrivo. Certo è, in ogni caso, che nel 1365, quando la chiesa di Santa Barbara e le sue pertinenze fondiarie erano divenute proprietà dell’arcivescovo di Cagliari, il loro affittuario era tenuto a corrisponderne il relativo censo in due rate: la prima a settembre, per la festa di San Michele, che anticamente rappresentava l’inizio dell’annata agricola; la seconda il 4 dicembre, giorno della festa di Santa Barbara di Nicomedia, segno che, già all’epoca, la confusione tra le due sante omonime era già cominciata. Chi storicamente sia stata questa Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana, ormai, non è più dato sapere, ma la conoscenza precisa della sua età, da parte di chi realizzò l’epigrafe funeraria trovata nel 1620, parrebbe poterne suggerire l’ipotetica identificazione con un personaggio locale (o comunque distinto dalla Martire di Nicomedia, che, secondo la passio, morì giovinetta) di cui, per un certo tempo, la Chiesa cagliaritana avrebbe conservato una qualche memoria storica, andata poi disgraziatamente perduta. Nel presente caso, ammettendo che non si sia comunque trattato di un falso realizzato nel medioevo, l’iscrizione avrebbe quindi potuto essere stata compilata ex novo, sulla base di fonti a carattere letterario, o rifatta sulla base di un’epigrafe preesistente ormai distrutta. tratto da: www.capoterra.net Il cosiddetto Carcere di Santa Restituta nel quartiere di Stampace, a Cagliari. Si tratta di un vastissimo ambiente ipogeico, scavato nella roccia calcarea, all’interno del quale, in un loculo sotto il pavimento, il 23 giugno 1620 furono ritrovate le reliquie di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana. Nato in età punica come cava di blocchi e poi trasformato in magazzino di anfore, in età romana, alla metà circa del XIII secolo fu adibito a luogo di culto cristiano dedicato al culto di Santa Restituta e di vari altri Martiri. L’iscrizione di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana negli Actas Originales, cioè nell’atto notarile ufficiale redatto al momento stesso della scoperta delle reliquie. Essendo andata disgraziatamente smarrita la lapide originale, descritta in lingua catalana come una loseta de marbre y en ella el letrero esculpit en lletras maiuscolas entre reglas (cioè «una lastrina marmorea con l’iscrizione incisa in lettere maiuscole, entro linee di guida»), questo documento è l’unico a restituirci il preciso aspetto grafico dell’epigrafe, notevolmente semplificato nelle successive trascrizioni a stampa pubblicate dall’Esquirro e dal Bonfant. La sua testimonianza risulta dunque della massima importanza, perché il formulario dell’epigrafe non può essere paleocristiano, come impropriamente ritenuto dagli scopritori seicenteschi, ma ben più tardo: questo spiega come mai nella sua rappresentazione manoscritta compaiano, assieme alle maiuscole capitali classiche, di tradizione romana, anche varie lettere di tipo indubbiamente successivo, cioè in maiuscola onciale, come la M puntata alla riga 2. Una simile commistione di caratteri potrebbe appunto riportare in piena età medievale, trovando confronti strettissimi in numerose altre epigrafi sarde risalenti ai secoli XI-XIII. Altri importanti indicatori cronologici per l’iscrizione di Santa Barbara sono i segni di interpunzione triangoliformi, sistematicamente apposti a separare non le diverse parti del discorso ma le singole parole l’una dall’altra, ancora secondo l’uso medievale. Altro indizio di datazione tardiva, infine, potrebbe anche essere considerata la parola an(n)is della riga 2, scritta con una sola N, la cui geminazione era probabilmente supplita tramite una tilde orizzontale, non rilevata dal redattore degli Actas forse perché confusa con le reglas, le righe, entro le quali risulta essere stato ordinato il testo originale. L’iscrizione di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana nel Santuario de Caller del cappuccino p. Seraffin Esquirro, ponderoso volume di oltre 500 pagine pubblicato a Cagliari nel 1624. Rispetto al disegno riportato nei documenti manoscritti seicenteschi, si può constatare come il tipografo avesse regolarizzato la forma del testo, eliminando tutte quelle particolarità grafiche che gli risultava difficoltoso riprodurre con fedeltà assoluta. Anche per questo motivo, non potendosi riportare il formulario dell’epigrafe ad epoca paleocristiana né potendosene intuire la reale datazione ad età medievale (quando ancora non era noto agli studiosi il manoscritto degli Actas Originales, conservato presso l’Archivio Arcivescovile di Cagliari), tutta la critica più recente, addirittura accusando di frode l’Esquirro e il Bonfant, la considerò una falsificazione, assieme a tutte le altre iscrizioni da essi pubblicate. La condanna più grave venne da parte di Theodor Mommsen, autorità indiscussa nel campo della storia antica e dell’epigrafia latina, dietro il quale perciò si disposero, sino a tempi ormai immediatissimi, quasi tutti gli altri studiosi. Effigie di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana, in legno intagliato e policromato, custodita presso la chiesa parrocchiale di Capoterra ed utilizzata per le processioni. Secondo la particolare iconografia diffusa a partire dall’età bizantina, la Santa è qui raffigurata nelle ricche vesti di un’appartenente alla corte celeste di Cristo Re dell’universo, con tunica di broccato verde pallido trapunta d’oro, cintura pure d’oro stretta alla vita e mantello di porpora elegantemente panneggiato sulle spalle e ripiegato sul braccio destro. La mano destra stringe il ramo di palma, simbolo del martirio, ed è portata verso il cuore a significare il dono della vita per amore di Cristo. Lo sguardo della Santa, illuminato di gioia, è infatti rivolto verso l’alto, a contemplare le realtà celesti, mettendo ancor più in evidenza il taglio sanguinoso che le segna la gola, a ricordo della decapitazione subita. Tutta pervasa di grazia settecentesca, sotto la lunga veste, la snella e leggiadra figuretta della Martire accenna palesemente un passo di danza, una movenza da minuetto, mentre il braccio sinistro si allarga con eleganza come per cogliere fiori: non si tratta di una semplice leziosaggine dell’anonimo scultore napoletano, di una sua scontata concessione al gusto del tempo, ma di un preciso richiamo alle figure contenute nell’inno liturgico Jesu Corona Virginum, attribuito a Sant’Ambrogio (339-397), che la Chiesa da secoli intona nelle ricorrenze festive delle Sante Vergini. In tale composizione infatti, con immagini tratte specie dal Cantico dei Cantici e dal libro dell’Apocalisse, viene cantato Cristo che, nel giardino del Paradiso, pergit inter lilia, «incede tra i gigli», (Cant. 2, 16) septus choreis Virginum, «contornato dalle danze delle Vergini» (cfr. Ger. 31, 13; Ap. 14, 4), elette sue compagne per tutta l’eternità. Taliesin, il bardo
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22-01-2013, 19.54.08 | #102 |
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Non conoscevo nessuna delle due storie.....ma avendo studiato la nascita del Castel Ursino.....adesso mi sembra piu' completa potendovi aggiungere la storia della Lavandaia.....
Grazie buon Bardo... |
23-01-2013, 13.52.01 | #103 |
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Grazie e voi Lady Elisabeth,
quella piccola lavandaia vi sta già sorridendo dalla sommità del Vulcano. Taliesin, il bardo
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23-01-2013, 14.16.48 | #104 |
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LA FIORAIA DELL'ETNA: BILLONIA DA CATANIA.
Anche se temporaneamente distante dal cosidetto Medioevo, è mia intenzione presentare un sigolare personaggio popolare e pittoresco della Catania a cavallo tra i secoli, XIX e il XX. Era una donna minuta, tutt’altro che sgraziata, era la fioraia della Villa, sfiorita per conto suo, ma con la camicetta ostinatamente sfavillante di dorati lustrini. Andava anche su e giù per via Etnea con i fasci di fiori di campo, le margherite, le rose, che offriva alle coppiette di fidanzati sperando di ricevere una ricompensa, e di sera si piazzava davanti ai teatri. In fondo, era un’immagine gentile con i suoi coloratissimi costumi ricchi di nastri, un’immagine che sotto i lustrini tentava di nascondere un’immensa povertà. Ma c’era anche un pizzico di femminile civetteria in quello strano abbigliamento! Andava spesso in giro con la madre ma gli stenti le avevano rese uguali e sarebbe stato difficile capire, a vederle, chi di esse fosse la più vecchia. D’inverno trascorrevano gran parte delle giornate sui gradini della chiesa di San Biagio, in piazza Stesicoro, ma d’estate si trasferivano al giardino Bellini, sempre popolato di catanesi che accorrevano ad ascoltare i concerti della banda: e lì Billonia poteva raggranellare qualche soldino in più. Poi la madre morì, e poco dopo scoppiò il primo conflitto mondiale: e, mentre il mondo dava addio ai divertimenti e alle spensieratezze di un tempo, neanche Billonia, la semplice e inutile fioraia, travolta dai tempi e dalla guerra, ebbe più motivo di sopravvivere. Nessuno la vide più. tratto da: www.vocedelletna.com Taliesin, il bardo p.s. dedicato alla mia cara amica Marcella, depositaria di scienze perdute racchiuse all'interno del nostro cratere spento, antica e saggia alchimista di essenze fiori ed erbe preistoriche, dal carattere mite e socievole, dagli strani abiti dipinti a festa, forte scudo contro ciarlatanesche ugole di stolte e moderne civette di montagna.
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"Io mi dico è stato meglio lasciarci, che non esserci mai incontrati." (Giugno '73 - Faber) Ultima modifica di Taliesin : 23-01-2013 alle ore 14.45.07. |
23-01-2013, 14.48.44 | #105 |
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L'ULISSE DELL'ETNA: LA LEGGENDA DI JANA DI MOTTA.
Nel 1409 la vedova Bianca di Navarra divenne Vicaria del regno, e l’anziano conte di Mòdica, Bernardo Cabrera, avrebbe voluto prenderla in sposa, per aumentare il suo potere, dato che era già Gran Giustiziere del Regno. La regina Bianca, però, non voleva sentirne; e allora il conte la inseguì per tutto il regno; la regina esausta si rivolse al suo fedele ammiraglio Sancio Ruiz de Livori, che catturò il focoso Giustiziere, e lo fece rinchiudere mel castello di Motta; dove al danno della prigionia si unì la beffa che ai suoi danni ordì una giovane donna di Motta Jana, che era una fedele e astuta damigella di corte della regina Bianca. D’accordo con l’ammiraglio Sancio, e ottenuto il permesso dalla regine, Jana si travestì da paggio, e si fece assumere al servizio del conte, entrando nelle sue grazie, e convincendolo a tentare un’evasione per riprendere i suoi tentativi di sposare la regina Bianca. Il conte abboccò all’amo e una notte, fattolo travestire da contadino, la diabolica Jana lo fece calare da una finestra del castello, sostenendolo con una corda;ma ad un certo punto,Jana mollò la corda,e il povero conte cadde dentro una grossa rete,a bella posta preparata,dove rimase tutta la notte al freddo e al mattino fu beffato dai contadini, che lo presero per un ladro, e lo derisero. Jana, riprese le sue vesti femminili, e rivelatasi chi era, lo fece inviare prigioniero al Castello Ursino di Catania, dove sbollirono definitivamente i suoi ardori per la regina Bianca. tratto da: www.vocedelletna.com Taliesin, il bardo
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23-01-2013, 20.09.58 | #106 |
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Non conoscevo per nulla queste storie....attraverso voi, finiro' per conoscere parte delle storie che appartengono ai luoghi dove vivo........ grazie
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23-01-2013, 22.20.42 | #107 |
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...o semplicemente attraverso me ritroverete molto che vi appartiene, oltre i confini geografici e gli spazi temporali imposti dagli uomini.
Felice di avervi regalato un altro affresco della vostra collina. Taliesin, il bardo
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30-01-2013, 09.54.43 | #108 |
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LA PASSIONE DEL CRISTO: MADONNA GIULIANA DI NORWICH
Di questa beata si ignorano il nome di Battesimo e quello della sua famiglia. Oltre al libro delle Rivelazioni, sulla sua esistenza ci è giunta solo un'altra testimonianza coeva, che è stata recentemente scoperta nella singolare autobiografia di Margery Kempe, altra santa donna del tempo. Ella, nel 1413, si era recata, nel romitaggio di Norwich, a visitare "Madonna Giuliana" per averne consigli e direttive spirituali. "Madonna Giuliana" o "signora Giuliana", è il nome sotto il quale la beata era conosciuta in vita e che poi le è rimasto; potrebbe averlo adottato in onore di s. Giuliano, patrono della chiesa presso cui trascorse gran parte della sua vita, chiesa che apparteneva al monastero di Benedettine dei SS. Maria e Giovanni a Carrow, dentro la città di Norwich. Si è avanzata l'ipotesi, ma senza prove valide, che Giuliana fosse una monaca di quel priorato. Tutto ciò che realmente è noto su Giuliana, che si dice "una semplice creatura che non conosce le lettere", simile in ciò a s. Caterina da Siena, pure illetterata, sono le notizie che si possono trarre dal suo notevole libro, pervenuto in due distinte versioni: "testo lungo" e "testo breve". Attualmente si concorda generalmente nel considerare la versione "breve" come la piú antica, sebbene sia stata la "lunga" ad essere edita per prima, nel 1670, a cura del benedettino Serenus Cressy, dal ms. di Parigi. Tra le numerose riedizioni, seguiamo qui quella del 1901, annotata da Grace Warrack. Il "testo breve" è stato edito per la prima volta da D. Harford nel 1911, da un ms. del British Museum, ed è stato riedito da A. M. Reynolds nel 1958. In questo secolo sono stati scoperti altri due mss., uno per ogni versione. In tempi recenti sono stati pubblicati molti studi sulle Rivelazioni di Giuliana, alla quale si riconosce universalmente una personalità fuori del comune. Ella è la prima scrittrice che usi il volgare, cosa questa che aggiunge uno speciale interesse linguistico al suo libro e, come mistica, Giuliana occupa davvero un posto eminente. Preliminarmente meritano di essere ricordate le sue continue dichiarazioni di lealtà verso l'insegnamento della Chiesa. Per misurare adeguatamente ]a sua statura, è fondamentale la conoscenza degli autori che hanno scritto di lei in questi ultimi tempi, soprattutto il gesuita Paolo Molinari (1958). La data cruciale nella vita di Giuliana fu l'8 o il 13 maggio 1373: i mss. non concordano sul giorno del mese. Della sua vita precedente, sappiamo solo che ella era teneramente devota alla madre e che era una donna molto pia. Questa seconda caratteristica si delinea in rapporto alle affermazioni della beata secondo cui, in un tempo non specificato, ma anteriore alle sue "visioni", ella aveva chiesto a Dio tre doni e cioè: una "veduta materiale" della Passione di Cristo, cosí da partecipare alle sue sofferenze come Maria e l'esperienza di una "malattia del corpo", perché fosse purificata da ogni amore per le cose terrene. La terza grazia concerneva tre "ferite" (wounds): di dolore per il peccato, di sofferenza con Cristo e di brama di Dio. Le prime due grazie erano chieste con la condizione "se questa è la volontà di Dio", ma la terza senza alcuna riserva. Tutto ciò presuppone una insolita disposizione dell'anima, preparata a ricevere straordinarie grazie mistiche. La malattia che aveva chiesta la colpí quasi all'improvviso nel giorno cui si è già accennato. Non è detta l'esatta natura del male, ma che fosse molto grave lo prova il fatto che giunse in punto di morte. "Io giacqui tre giorni e tre notti e la quarta presi tutti i sacramenti della Santa Chiesa e pensai che non avrei vissuto fino all'alba. E dopo ciò, io languii per due giorni e due notti e la terza notte pensai di essere per morire e cosí pensarono quelli che erano con me...E essendo ancora giovane, pensai esser molto doloroso morire...ma consentii in pieno, con tutta la volontà del mio cuore ad essere alla mercè di Dio...Si mandò a cercare il mio curato perché assistesse alla mia fine. Egli mise la croce dinanzi al mio volto e disse: "Ti ho portato l'immagine del tuo Creatore e Salvatore; guardala e siine confortata"". Giuliana si sforzò di assecondarlo e vi riuscí, ma "non seppe come". L'immagine sembrò diventare viva, col sangue che gocciava giú dal volto del Salvatore. Poco dopo, quando ella pensava di essere proprio morta "tutto ad un tratto la mia pena fu rimossa da me e io fui cosí come ero prima". Quindi Giuliana ricordò il desiderio di sperimentare sul suo corpo le sofferenze della Passione di Nostro Signore (cap. XVII) "la quale visione delle pene di Cristo mi empí di pena. Perché io sapevo bene che Egli aveva sofferto una sola volta, ma era come se Egli volesse mostrarmelo e riempirmi col pensiero, come avevo prima richiesto. Cosí pensai: io sapevo ben poco che pene fossero quelle che io chiesi, e, come una disgraziata, mi pentii, pensando: se io avessi saputo ciò che era stato, ci avrei pensato a chiederlo. Perché mi parve che le mie pene avessero oltrepassata la pena corporea. Io pensai: c'è qualche pena come questa? E mi risposi nella mia ragione: l'Inferno è un'altra pena, perché non c'è speranza. Ma di tutte le pene che guidano alla salvezza, questa è la maggiore, vedere il tuo Amore soffrire...". Questa fu la prima delle quindici Rivelazioni, riferita quella mattina dopo la sua mi steriosa malattia e improvvisa guarigione. "La prima cominaò la mattina presto, circa le quattro, e continuò la visione con processo pieno, chiaro e netto, una di seguito all'altra fino a oltre le nove del giorno". L'ultima manifestazione ebbe luogo la notte successiva, e quando finí le tornarono i sintomi della malattia, e Giuliana cominciò a nutrire dubbi sulla realtà della sua esperienza e spesso desiderò "di conoscere che significato desse il Nostro Signore a tutto quello". Ella dovette aspettare quindici anni e piú prima di ricevere una risposta diretta: "Volevi conoscere il disegno del tuo Signore in questa cosa? Amore. Imparalo bene: Amore era il Suo disegno. Cosa ti mostrò? Amore. Perché te lo mostrò? Per Amore. Tienilo dentro e imparerai e conoscerai di piú insieme...Cosí fu che pensai che Amore era il disegno di Nostro Signore". Queste visioni dovevano essere per Giuliana come semi celesti piantati da Nostro Signore stesso nella sua anima e essi si svilupparono interiormente nel corso della vita. Tutto il libro non è altro che un commentario su ciò che le fu mostrato durante quelle poche ore nel suo letto di malata, nel trentunesimo anno della vita. Ella visse a lungo, chiusa nel suo romitorio presso la chiesa di S. Giuliano a Norwich, curata negli ultimi anni da due donne che provvedevano alle sue necessità. Là Giuliana fu visitata da molte persone di ogni rango e grado, che venivano a lei per aver un consiglio nelle loro pene. Il suo amore per Nostro Signore ispirò quello per i suoi evenchristians, come li chiamava. Il libro deve essere stato dettato a qualche chierico competente che, nel frattempo, deve averle reso familiari i migliori scritti spirituali dei santi Padri e Dottori cattolici. Ci sono anche ragioni per pensare che le lettere della sua piú giovane contemporanea, s. Caterina da Siena, debbano esserle state portate a conoscenza, ma nessuna influenza esterna adulterò l'originalità della sua sapienza "data da Dio" (God-given): il libro che alla fine ella scrisse, rimane la piú dolce esposizione clel. l'amore divino che sia mai stata scritta nella lingua inglese. Alcuni dei suoi capitoli possono essere descritti solo come "sublimi", con un messaggio per ogni generazione di devoti cristiani, in tutto il mondo. Non c'è alcuna traccia cdi una eventuale beatificazione di Giuliana, e nemmeno di culto pubblico: tuttavia ella è talvolta chiamata beata e ricordata il 13 o il 14 maggio. tratto da:"Enciclopedia dei Santi" di John Stéphan Taliesin, il bardo
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15-02-2013, 15.12.26 | #109 |
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LA FORZA DELLA RINASCITA DAL DOLORE: ARTEMISIA GENTILESCHI.
Artemisia Gentileschi nasce a Roma l'8 luglio del 1593, figlia primogenita del pittore Orazio Gentileschi (nato a Pisa) e di di Prudenzia Montone (morta prematuramente). Nonostante che all'epoca, l’arte pittorica fosse rigorosamente riservata agli uomini (in genere le donne erano escluse da quasi tutti i lavori non domestici), Artemisia impara nella bottega paterna, le tecniche pittoriche vivendo in un ambiente impregnato di pittori, spesso (come il padre) di scuola caravaggesca. Del resto pare che Artemisia abbia conosciuto personalmente Caravaggio, che sembra usasse prendere in prestito strumenti dalla bottega del padre, durante il periodo nel quale Caravaggio lavorava nella Basilica di Santa Maria del Popolo e nella Chiesa di San Luigi dei Francesi. La prima opera attribuita a Artemisia è “Susanna e i vecchioni” realizzata probabilmente con riferimenti “autobiografici”. L’episodio di Susanna è narrato nell’Antico Testamento (Libro di Daniele) e descrive la casta Susanna, sorpresa al bagno da due vecchi che la sottoporranno a ricatto sessuale per soddisfare i loro appetiti. Ma per Artemisia l’opera “Susanna e i vecchioni”, vorrebbe alludere allo stupro da lei subito ad opera di Agostino Tassi maestro di prospettiva, che frequentava la casa del padre, per gli impegni che aveva con Orazio Gentileschi, nella decorazione a fresco delle volte del Casino del Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma. Lo scandalo avviene nel 1611, quando Orazio inizia una causa contro Agostino Tassi, per “aver violentato Artemisia più e più volte”. Questa la testimonianza di Artemisia al processo: "Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch'io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l'altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne." Durante il processo Artemisia viene anche torturata, ma non ritratta le accuse, tanto che vince (cosa molto strana per una donna) la causa e il pittore Agostino viene condannato a scontare una pena di alcuni anni di carcere. La reputazione di Artemisia (per gli usi dell’epoca) è comunque altamente compromessa e abile è il padre Orazio, che riesce comunque a combinare per la figlia, un matrimonio (1612) con il modesto artista fiorentino Pierantonio Stiattesi. Artemisia dunque si trasferisce a Firenze, dove avrà 4 figli (tre tuttavia muoiono nei primi anni di vita) e solo la figlia Prudenzia accompagnerà la madre nei suoi viaggi a Napoli, Londra e naturalmente Roma. A Firenze, comunque Artemisia verrà accettata (prima donna in assoluto) all’Accademia delle Arti del Disegno. Il padre comunque non le farà mancare il suo appoggio, come dimostra la lettera scritta alla Granduchessa Cristina di Lorena (1612) “questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere”. A Firenze conosce dunque un lusinghiero successo, riuscendo anche a frequentare i più reputati artisti e personaggi del tempo (uno per tutti: Galileo Galilei) e a conquistare il favore della famiglia Medici. Negli anni Artemisia raffina e elabora la sua tecnica pittorica, prediligendo realismo, tinte violente e magistrali giochi di luce. Appartengono al periodo fiorentino le opere “Conversione della Maddalena” e “Giuditta con la sua ancella “ e la seconda versione di “Giuditta che decapita Oloferne” , la prima versione era stata dipinta con “rabbia” tra il 1612 e il 1613 ed è impressionante per la violenza che emana. Nonostante il successo, il periodo fiorentino è tormentato da problemi finanziari e dunque, un poco per sfuggire ai creditori e un po' per sfuggire alla convivenza con il marito, Artemisia torna nel 1621 a Roma, ma non coabiterà con il padre che in quel periodo vive a Genova. Molti sono gli amanti che si attribuiscono a Artemisia Gentileschi anche se pare che il suo grande amore fosse il musicista Nicholas Lanier al quale è forse da attribuire la paternità della figlia Francesca, nata intorno al 1627. A Roma intanto è crescente il successo del classicismo e delle ispirazioni barocche di Pietro da Cortona e Artemisia entra a far parte dell'Accademia dei Desiosi (Inaugurata nel 1624 da Agostino Mascardi e aperta a poeti e teorici del nuovo gusto barocco ). In questo periodo Artemisia conosce anche il collezionista Cassiano dal Pozzo, ma ciò nonostante le commesse non sono numerose, a lei sono comunque precluse le grandi opere e le grandi pale d'altare, così intorno al 1629 cambia nuovamente città, stabilendosi a Venezia. Risalgono al periodo veneziano le opere: “Giuditta con la sua ancella”, il “Ritratto di gonfaloniere”, “la Venere dormiente” e “Ester e Assuero”. Tuttavia la vita di Artemisia, come quella di tanti grandi maestri pittori, è caratterizzata da continui spostamenti e nel 1630, troviamo Artemisia a Napoli dove realizza “L'Annunciazione”, la “Nascita di San Giovanni Battista”, “Corisca e il satiro” e instaura buoni rapporti con il Duca d'Alcalà e un'ottima collaborazione artistica con il pittore casertano Massimo Stanzione. A Pozzuoli poi realizza per la prima volta il suo sogno di dipingere per una cattedrale, saranno i dipinti dedicati alla vita si San Gennaro. Intanto il padre Orazio si era fatto un nome presso la corte di Carlo I a Londra, era infatti riuscito a avere l'incarico di decorare il soffitto della “Casa delle Delizie di Greenwich” della regina Enrichetta Maria e dunque Artemisia pensa bene, nel 1638, di raggiungerlo. Tra i due, sarà un ritrovarsi breve, poiché nel 1639 il padre muore. Artemisia resterà a Londra probabilmente fino al 1641 ed è certo, come risulta dalle lettere intercorse con il collezionista siciliano Antonio Ruffo che nel 1649 è a Napoli. Le ultime opere che risultano realizzate da Artemisia Gentileshi in questo periodo sono la “Madonna e Bambino con rosario”, "David e Betsabea" , "Lot e le sue figlie" e “Lucrezia”, poi non ci sono ulteriori notizie, molti, forse troppi critici, hanno ignorato per anni la sua arte e così neppure la data della sua morte risulta certa 1652 o 1653. Di lei rimangono esposte al pubblico circa 40 bellissime e vibranti opere. tratto da: "Artemisia" di Alexandra Le Pierre - Oscar Mondadori p.s. nell'ipocrita ed osannata giornata della celebrazione dell'amore, San Valentino, assediato da tutte le sue sfaccettature e contraddizioni, possa l'esempio di Artemisia sconfiggere tutti i tipi di violenza sulle Donne di ogni tempo, specialmente quello attuale, civilizzato e moderno. Taliesin, il bardo
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"Io mi dico è stato meglio lasciarci, che non esserci mai incontrati." (Giugno '73 - Faber) Ultima modifica di Taliesin : 15-02-2013 alle ore 21.20.24. |
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Quanto riguardo c'e' nelle vostre parole......sapete peche' nella sua atrocita' Artemisia e' una donna fortunata ?.....perche' ebbe una famiglia che la sosteneva...che le credeva..........oggi cosi' moderni, cosi' aperti di mente....riusciamo a diventare cosi' ottusi e atroci che non riusciamo a supportare un'atrocita' cosi' grande......forse la parola piu' giusta e' che la famiglia....ha paura di reggere questo grande mostro che e' la violenza....
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