27-10-2009, 16.03.10 | #101 |
Cittadino di Camelot
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[Egli si era dimostrato un figlio indegno, senza amore né onore ...]
Sono espressioni infelici di uno stato d'animo inquieto e tormentato.Ardea non merita di provare questi sentimenti,non merita di essere così severo con se stesso. Questo pensiero tormenta ogni uomo che ha dato valore alla vita e ha preso coscienza dei suoi errori,ma neppure il più vile tra gli uomini merita di condannare se stesso con tanta austerità. A Morris.Grazie,ma questa sensibilità di cui dite mi ha precluso l'ultima possibilità di poter continuare a credere in un sogno per il quale mi sono battuta lungamente,oggi mi rimane il rincrescimento dell'aver permesso a qualcuno di leggere nei miei occhi e "giudicarmi" solo attraverso di essi,decidendo le mie sorti future attraverso la mia carriera di studente. Perdonate questo inciso OT Ultima modifica di zaffiro : 27-10-2009 alle ore 16.53.39. |
27-10-2009, 19.25.27 | #102 |
Cavaliere della Tavola Rotonda
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Lady Zaffiro, la vostra pietà per il nostro Ardea è tanto nobile quanto condivisibile.
Ma purtroppo, come le grandi storie ci insegnano, ci sono alcuni valori, universali e naturali, che se smarriti causano immani tragedie. Cavalieri come Rinaldo, Lancillotto e Parsifal ne sono testimonianza con le loro storie. Io credo che le gioie ed i dolori nella vita di un uomo derivino solo ed esclusivamente dal suo comportamento. Come ci insegna la storia di Ardea, una volta commessa qualche colpa si perde la Grazia Divina e con essa la benevolenza della sorte. E allora, come scoprirà lo stesso Ardea, possiamo solo confidare nella Misericordia più alta ed assoluta.
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28-10-2009, 02.55.47 | #103 |
Cavaliere della Tavola Rotonda
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ARDEA DE' TADDEI
XXVIII “<<Volesse Dio>> disse poi Fitzurse a De Bracy, <<che qualcosa potesse ridarlo a lui, il coraggio! Il solo nome di suo fratello è per lui un tormento. Infelici i consiglieri del principe che pretende pari forza d’animo e perseveranza nel bene e nel male!>>” (Ivanhoe. XIV) Uscito quell’oscuro cavaliere, l’intera corte fu colta da agitazione e timore. Tutti si chiedevano chi si nascondesse veramente sotto quell’elmo. “Mai ho veduto un simile cavaliere!” “E nessuno altro l’ha veduto!” “Non è un uomo che si cela sotto quella corazza, ma un demonio!” “Nel vederlo battersi, ho davvero creduto si trattasse di un Ercole redivivo o del mitico Orlando tornato da Roncisvalle!” “Forse quel cavaliere è uno spirito giunto per tormentarci!” Queste ed altre mille frasi simili si rincorrevano confuse nella corte. Lo scempio compiuto da quel cavaliere sui migliori guerrieri di Afragolignone, aveva gettato tutti nella paura e nello sconforto. “Dieci come lui” disse il re “ed il regno sarebbe perduto! Nemmeno un esercito potrebbe fermali!” Ardea ascoltava senza rispondere nulla. “Apparite pensieroso, messere” gli domandò il re “siete già pentito per aver accettato la sfida?” “No, maestà” rispose Ardea “mi chiedevo solo chi sia veramente e cosa l’abbia spinto qui oggi.” Nella sala, in quel momento, entrò un vecchio monaco, da tutti ritenuto un santo eremita, che viveva nel bosco e solo di tanto in tanto veniva in città. “Vi chiedete chi sia?” iniziò a dire ai presenti. “Un angelo o un demonio? E che differenza farebbe per voi saperlo?” “Perché vieni a tormentarci, monaco?” Chiese il re, come destato da quelle parole da un qualche profondo pensiero. “Non io e nemmeno quel cavaliere” rispose il monaco “ma le vostre colpe vi tormentano!” “Cosa ne sai tu delle nostre colpe?” Gridò uno dei baroni presenti. “Per mettere alla prova Giobbe” continuò il monaco “Iddio non liberò forse il demonio per tentarlo?” “E l’angelo della morte” aggiunse voltandosi verso il trono “non fu mandato dall’Onnipotente per punire gli egizi, uccidendo loro i primogeniti?” “Tu sei pazzo!” Gli gridò il re. “Angelo o demone” disse il monaco guardando il cielo “non fa alcuna differenza! Egli è per voi un castigo divino!” “E di cosa si sarebbe macchiata questa corte?” Chiese indispettito il re. Il monaco sorrise amaro e, appoggiandosi al bastone, si avvicinò al trono. “Un re” iniziò a dire “conosce la fedeltà dei suoi uomini e la loro abilità con le armi, ma non cosa cela il cuore di ognuno di loro.” Detto questo, iniziò a recitare alcune orazioni, poi si incamminò verso l’uscita e sparì dalla corte. Le parole del monaco suscitarono nei presenti un angoscia che andò a sommarsi all’inquietudine che albergava già precedentemente nella sala, rendendo l’atmosfera ancora più cupa. In Ardea però quelle parole avevano ridestato un pensiero che ormai da ore l’affliggeva. Così decise di partire all’istante. Salutò tutti a corte ed omaggiò il suo re. Poi, preparata ogni cosa, lasciò prima il palazzo reale e poi la città, per fare ritorno alle Cinque Vie. Sul sentiero che, attraversando il bosco, conduceva verso le sue terre, fu assalito da innumerevoli pensieri. L’immagine di suo padre solo e malato l’affliggeva, come una lama che gli lacerava le carni. I mesi passati senza scrivergli ora gli sembravano come un lungo periodo di perdizione, in cui aveva maturato vizi e pensieri che minavano i suoi valori ed ideali più alti. Più si avvicinava a casa, più il senso di inquietudine cresceva. Il suo animo si tormentava, afflitto dal rimorso e dal rimpianto. Tutto ciò che prima gli dava gioia, tutti i suoi sogni, le aspettative per il futuro, il suo destino di cavaliere, ora gli apparivano senza senso e valore. Così, come a volersi liberare da questi rimorsi, da queste inquietudine, lanciò in un furioso galoppo il suo cavallo, affondando nel ventre del veloce animale, i suoi speroni lucenti. Le briglie tirò forte e con la voce incitò il suo destriero a divorare la via che lo separava dal suo amato padre. Così, lanciato in quella furiosa corsa, come a voler fendere l’aria, in breve avvistò il castello delle Cinque Vie. Un mare di ricordi lo raggiunse in quel momento. E mentre una fresca brezza gli accarezzava i capelli, il suo viso fu rigato da amare lacrime. (Continua...)
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28-10-2009, 22.46.29 | #104 |
Dama
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....ero certa che in cuor suo...avrebbe voluto fortemente tornare dal padre...aveva bisogno solo di un incitamento...bravo Ardea
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28-10-2009, 23.40.15 | #105 |
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Ardea sta crescendo, ora il cavaliere sta imparando a conoscere la voce dell'anima...........e umilmente le lacrime gl solcano il viso, bravo ...sta costruendo il suo tempio interno........
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29-10-2009, 00.33.58 | #106 |
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Lady Llamrei, Ardea ha commesso un grande peccato.
Ma non ha mai smesso di amare suo padre. Tra loro c'è un legame che va oltre ogni cosa. Anche io non ho mai dubitato che sarebbe tornato dal suo amato padre. Lady Elisabeth, diventare un uomo è forse la cosa più difficile. Ma Ardea cela nel suo cuore un immane peccato. E similmente ad altri uomini come lui, il prezzo da pagare, quando si pecca, è molto più alto. A volte, durante la notte, lo sento vagare dove nessuno può dargli conforto. Dove non troverà una spalla su cui piangere o qualcuno che gli tenda la mano. Ardea deve avere coraggio e dimostrare di essere forte. Se lo sarà veramente, il suo cuore rappresenterà la "Pietra Angolare" per erigere il suo tempio interno.
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29-10-2009, 00.39.15 | #107 |
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Ardea ha fatto il primo passo.....e trovera' il coraggio di confessare il proprio peccato......lo ha gia' fatto con se stesso, la consapevolezza lo rendera' forte, l'umilta' vincitore
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30-10-2009, 01.51.14 | #108 |
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ARDEA DE' TADDEI
XXIX “O padre, padre sventurato, con quale gesto o con quale parola potrei riuscire ad inviarti da lontano un prospero vento là dove ti tiene il tuo giaciglio? Alla tenebra è opposta la luce; sono anche un pianto datore di gloria i rendimenti di grazie per gli Atridi sepolti davanti al palazzo.” (Orestea, II) Giunto al castello sentì forte un’atmosfera di oppressione e un profondo senso di vuoto. Il cielo era grigio, coperto da gonfie nuvole scure che sembravano sul punto di vomitare sulla terra una collera senza fine. Di tanto i tanto i bagliori dei lampi squarciavano il cielo ed in lontananza si udivano i boati dei tuoni, segno che la tempesta era ormai vicina. Un forte vento, asciutto e freddo, soffiava tra le alte torri del castello, diffondendo nell’aria un suono simile ad un sofferto gemito. Sceso da cavallo, alcuni servitori gli andarono incontro, per accoglierlo come si conveniva. E sulla porta Ardea vide, avvolto in un nero mantello, Vico d’Antò che lo fissava. “Sei giunto, finalmente.” Disse il cavaliere. “Come sta mio padre?” Vico non rispose ed abbassò il capo. “Dov’è? Rispondetemi!” Gridò Ardea. Vico lo fissò e scosse la testa. Poi si incamminò fino ad un cancello di ferro battuto che dava ad un giardino posto dietro il cortile del castello. Ardea lo seguì e i due giunsero su una tomba di pietra che sorgeva tra gli sterpi. Sulla croce della tomba era posto il ciondolo con il gufo e la rosa. Ardea si gettò sulla nuda pietra di quella tomba e cominciò a piangere ed a gridare. Intanto i boati e le folgori erano sempre più minacciose e dal cielo sembrava sul punto di cadere una pioggia incandescente. Il vento soffiava forte, percorrendo in lungo e in largo la campagna, per finire poi contro le alte mura del castello. “Ha atteso il tuo ritorno fino allo stremo delle forze.” Iniziò a dire Vico. “Poi, alla fine, la malattia lo ha vinto.” Ardea intanto non smetteva quel pianto doloroso e sul viso, poggiato alla base della tomba, le lacrime si mischiavano al fango. Poi, alzato il volto al cielo, iniziò ad inveire contro se stesso e contro la sua follia, fino a quando, vinto dal dolore e dal rimorso, iniziò a sbattere il capo contro la croce di pietra della tomba. Occorsero Vico e tre servitori per fermarlo e portarlo in casa a forza. Ardea scacciava ed insultava quegli uomini, posseduto com’era dalla disperazione più profonda. Ma alla fine, con il capo sanguinante e senza più forze, cadde vinto ed addormentato. Dormì tre, forse quattro giorni, nei quali sognò sempre suo padre. Quell’immagine gli appariva come una visione, uno spettro, che dall’aldilà, con il solo sguardo, lo tormentava. Quando si svegliò, il dolore fu ancor più intenso. Passarono così altri giorni, densi di dolore ed amarezza, dove Ardea ormai appariva come un vuoto sepolcro, senza ambizioni o scopi. Trascorreva il tempo stando accovacciato sulla tomba di suo padre o fissando l’orizzonte sterminato da una delle torri. E un giorno, mentre era presso la tomba, Vico lo raggiunse. “Non ti crucciare oltre” disse “o presto lo raggiungerai.” Ardea non rispose. “Egli ti volle qui” continuò Vico “perché tu potessi prendere un giorno il suo posto. E quel giorno è giunto.” “Io non sono degno di essere suo figlio” rispose Ardea “e meno ancora il suo successore.” “E’ il dolore che ti spinge a dire questo.” “No, è l’immagine che ho di me a farmi dire questo.” “Anni di sacrifici e allenamenti” disse Vico “gettati quindi al vento!” “Si” rispose Ardea “al vento. E proprio dal vento vorrei farmi portar via l’anima.” “Quindi tutto questo è destinato a perire?” “Perirebbe se io diventassi duca.” “Tuo padre è morto solo e povero” disse Vico “non togliergli anche l’onore!” “Povero?” Chiese sorpreso Ardea. “Si, povero. Poverissimo.” “Cosa dite mai?” “Ciò che gli è rimasto” rispose Vico indicando il castello “è solo questo.” “Siete pazzo? O forse sono io che ho perso il senno?” “Il duca ormai da due anni non riscuoteva più i tributi dalle sue terre. Malato e stanco non ha potuto più richiedere ciò che gli spettava ai suoi vassalli.” “E non vi era nessuno” chiese sconvolto Ardea “che potesse, in nome suo, riscuotere i tributi?” “Nessuno qui era capace di tali imprese.” Rispose Vico. “Solo lui era in grado di risolvere queste che amava chiamare Questioni.” “Questioni?” “Si” rispose Vico “e sperava che tu, una volta ritornato, le avresti risolte al suo posto. Ma il giorno del tuo ritorno egli non ha potuto vederlo, morendo così solo e impoverito.” In quel momento il vento soffiò ancora più forte, mentre ormai l’oscurità dal cielo era scesa sulla terra, avvolgendo ogni cosa come un manto spettrale. (Continua...)
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02-11-2009, 01.35.18 | #109 |
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ARDEA DE' TADDEI
XXX “E sventurato anche Esone: meglio sarebbe stato per lui se già prima, avvolto dentro un sudario, giacesse sottoterra e non sapesse di questa orribile impresa.” (Le Argonautiche, I, 253) Ardea fissava sconvolto Vico, quasi incredulo a ciò che udiva. “Sventurato padre mio” disse con un filo di voce “morto povero e solo.” Poi si lasciò cadere, pesantemente, ai piedi della tomba. “Non vi sono più uomini al servizio del duca.” Disse Vico. “Io sono l’ultimo rimasto.” “Fuggiti?” Chiese Ardea senza alzare mai lo sguardo da terra. “Fuggiti o morti.” “Morti?” “Si.” Rispose Vico. “Una squadriglia di suoi fedelissimi fu inviata a riscuotere i tributi, viste le cattive condizioni del duca. Ma quegli uomini non fecero mai più ritorno.” “Cosa accade loro?” “Nessuno lo sa.” Rispose Vico. “L’unica cosa certa è che qualcosa di oscuro si cela nelle sette contrade che formano le terre Delle Cinque Vie!” “Qualcosa di oscuro? Che cosa intendete dire?” “Quello che ho detto.” Rispose vico, fissandolo negli occhi. “Il male ormai dimora in queste terre!” “Siete pazzo!” “Guardati intorno” disse Vico, indicandogli tutto ciò che li circondava “in questo castello ci siamo solo io, te e qualche vecchio servitore. Gli altri sono morti o fuggiti, al soldo di chi fosse in grado di pagare i loro servigi.” Ardea si accasciò sulla tomba e cominciò ad accarezzare quella nuda pietra, sotto la quale riposava l’amato padre. “Io stesso” riprese a dire Vico “implorai più volte il duca di inviarmi a riscuotere i tributi. Ma egli non volle mai affidarmi tale compito. Diceva che presto saresti tornato e che solo tu eri in grado di risolvere quelle che egli chiamava Questioni.” Il vento in quel momento iniziò a soffiare più forte, rendendo limpido e stellato l’infinito cielo della sera. Ardea allora, come destato da un improvviso impulso, baciò il medaglione del gufo con la rosa che pendeva dalla croce della tomba e si alzò di scatto. “Vico” disse voltandosi verso quel cavaliere “per domani fatemi avere una mappa delle Cinque Vie, con tutte le contrade che ne fanno parte.” “Cosa hai mente di fare?” “Quello che mio padre si aspettava da me.” “Non puoi partire per una simile impresa” gli intimò Vico “non ci sono più uomini che possano scortarti!” “Non ne ho bisogno.” Rispose sicuro Ardea. “Questo è un compito per me solo!” “E’ follia!” “Se valgo almeno la metà di mio padre” sentenziò Ardea “allora riuscirò in questa impresa!” “Guardati” gli disse Vico “sei stanco, confuso, stravolto fin dentro l’anima! Non sei in grado di partire per questa missione!” “Vico” rispose Ardea “negli ultimi tre anni ho combattuto in giostre, duelli e tornei. Il mio dardo aveva come bersaglio lo sguardo di qualche bella dama e la mia spada non ha bevuto altro che frigidi onori e illusori consensi.” “Ardea, non capisci…” “No, Vico” l’interruppe Ardea. “Non comprendete le mie parole. Io fui armato cavaliere per compiere grandi e nobili gesta. Non per fare bella mostra in una corte, per conquistare l’ammirazione dei miei pari e stappare un si ad una bella dama!” “Ardea, capisco cosa provi” disse Vico “ma parli così solo a causa del dolore che ora ti affligge.” “No, Vico” riprese a dire Ardea “non potete comprendere cosa provo. Solo mio padre, se fosse vivo, potrebbe capirlo. E' per lui che faccio tutto questo.” “Perché? Ormai egli è morto.” “Perché non si dica che sia morto povero e senza più il controllo sulle sue terre. Ha perduto un figlio, ma non perderà l’onore!” “Sei quindi deciso…” “Si, lo sono. E ho un anno di tempo per risolvere tutte e sette le Questioni.” “Un anno?” Chiese stupito Vico. “Si, un anno…” A quelle parole, sul volto di Ardea, calò un’ombra che oscurò il suo luminoso sguardo. Mentre in lontananza, il soffio del vento sembrava preannunciare ostili ed infausti auspici. (Continua...)
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04-11-2009, 02.07.53 | #110 |
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ARDEA DE' TADDEI
XXXI “Marcello Orazio dice ch’è una nostra ubbìa e non vuol lasciarsi prendere dall’orrida apparenza che abbiamo scorto già due volte. L’ho pregato perciò di starsene con noi stanotte, in modo che se l’apparizione tornasse egli possa parlarle e credere infine ai nostri occhi.” (Amleto, I, 1) L’oscurità avvolgeva, densa e spessa, l’alta torre. Le nuvole, dominate dal forte vento, si gonfiavano e si rincorrevano in un infinto vortice. La torre sembrava quasi voler arrivare in cielo, tanto era alta. Ma quel cielo, tormentato dalle inquiete nuvole e dal poderoso vento, pareva voler respingere sulla terra la maestosa costruzione. E su quella torre Ardea era solo, a fissare l’orizzonte sterminato e buio. Intorno a lui vi era solo un profondo silenzio, attraversato dall’impetuoso e tumultuoso soffio del vento. Ad un tratto udì delle grida. Provenivano camminamento di ronda. Si voltò per capire cosa stesse accadendo, ma fu raggiunto da due guardie che recavano torce ed armi con loro. “Milord” disse una di quelle “dovete rientrare, non è prudente stare qui in quest’ora.” “Che ora è mai questa?” Chiese Ardea. “L’ora in cui gli spiriti vagano per tormentare i vivi!” Rispose l’altra guardia. “Devo finire il mio giro d’ispezione!” “Ma, signore, non capite! Non è prudente restare qui!” “Non seccatemi!” Rispose irritato Ardea. “Ritornate ai vostri posti, è un ordine!” Le guardie, senza esitare, obbedirono a quel comando. Restato solo però, Ardea s’accorse che il vento era diventato di colpo più freddo. Sentì quindi il bisogno di stringersi il mantello sulle spalle, per cercare tepore da quell’improvviso gelo. Alla fine, vinto dal freddo, decise di rientrare. Ma un rumore di passi attirò la sua attenzione. Si voltò di scatto ma non vide nessuno. Una profonda inquietudine si impossessò di lui. Il sibilo del vento si fece simile ad un sinistro lamento. Udì in quel momento il canto del gufo che proveniva dall’oscurità che avvolgeva l’alta torre. Cercò di riconoscerlo tra il buio della notte, ma non vide niente. Ma ad un tratto, alzando gli occhi verso la sua destra, notò una figura alta e delicata, dai tratti spettrali e circondata da un pallido alone. “Chi è là?” Gridò Ardea, La figura non rispose. “Chi è che si nasconde nell’oscurità?” Gridò ancora Ardea. “Annunciati o assaggerai la mia spada!” La figura continuò a restare in silenzio e iniziò ad avvicinarsi ad Ardea. “Fermati!” Intimò il ragazzo. “Un altro passo e ti infilzerò!” Ma la figura, silenziosa, muta continuava ad avvicinarsi. Il vento cessò all’improvviso e con esso il suo lamento. Ardea estrasse rapido la spada. “Fermati, chiunque tu sia!” Gridò a quella misteriosa immagine. In quel momento un lontano ma straziante gemito si udì diffondersi nell’aria. Ardea avvertì un sordo dolore nel suo cuore. E improvvisamente, dalla porta che dava alle scale della torre, si sentirono dei passi. Passi pesanti, stanchi, che però echeggiavano tanto forte da far vibrare la porta dietro la quale provenivano. Ardea voleva aprire quella porta e scoprire chi stesse arrivando, ma temeva di dare le spalle alla spettrale figura bianca. I passi si facevano sempre più vicini e forti, tanto da far scricchiolare la porta di legno. Ardea si voltò verso la misteriosa figura simile ad un spettro, ma non c’era più. Allora corse verso il bordo della torre dove si trovava fino ad un momento prima e guardò in basso. E nel giardino sottostante vide la tomba di pietra sotto quale riposava suo padre. In quel momento un tonfo tentò di sfondare la porta di legno alle sue spalle. Un secondo colpo, ancor più vigoroso, riuscì a spaccare le cerniere che la fissavano alla parete di pietra. E da quella porta di nuovo si udì quel delirante gemito udito poco prima. Dalla soglia buia allora prese forma una ciclopica e nera figura, ricoperta da una spessa corazza. Ardea riconobbe il misterioso cavaliere comparso a corte e con il quale, tra un anno, l’attendeva un mortale duello. Immobile ed incredulo, il ragazzo non ebbe il tempo di capire che il cavaliere lo stava assalendo e solo all’ultimo, con uno scatto, riuscì ad evitare il fendente della sua spada. Ma quel passo all’indietro gli fu fatale. Perse l’equilibrio e dal bordo cadde nel vuoto. Si alzò di scatto e gridò. Il sudore gli copriva il viso e sentiva il cuore battergli come impazzito. “Era…era solo un sogno…” Disse fra se, mentre i primi raggi dell’alba iniziavano a dissolvere il buio della sua stanza. (Continua...)
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