14-11-2009, 13.54.21 | #121 |
Dama
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^__^ ah l'Amore....quindi Ardea conferma di avere un lato tenero
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16-11-2009, 02.52.12 | #122 |
Cavaliere della Tavola Rotonda
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ARDEA DE' TADDEI
XXXVII “L’aria era infestata dal fetido e dagli ingrati grugniti dei maiali. Nella melma e nel fango i docili servi attendevano l’arrivo del padrone, che avrebbe scelto l’animale più grasso.” (I Racconti della Pallida Luna di Settembre, VII) “Dove siete diretti, signori?” Chiese l’oste. “A Caivania.” Rispose Biago. “Eh, fossi in voi cambierei i miei piani.” “E perché mai?” Chiese incuriosito Biago. “Caivania non è un buon posto per voi, miei signori.” Rispose quasi addolorato l’oste. “Un oste tanto enigmatico non l’ho mai incontrato…” Disse ironico Biago. “Miei signori” riprese a dire l’oste “Caivania è ormai da tempo dimenticata da Dio. Sarebbe bene che la dimenticassero anche gli uomini.” “Di cosa parlate?” Chiese Ardea. “Ogni cosa esistente in natura” rispose l’oste “da frutti solo se è benedetta dal Cielo. E Caivania invece sembra aver perso la Grazia Divina. Come tutti i suoi sfortunati e miserabili abitanti.” “Ma insomma” sbottò Biago “cosa c’è a Caivania? Una rivoluzione? Una pestilenza? O una carestia?” L’oste osservò i due e dopo un momento di silenzio rispose: “A Caivania è giunto il male...” Ardea e Biago si scambiarono un rapido sguardo. “Noi abbiamo affari importanti da svolgere in quella contrada” iniziò a dire Ardea “dobbiamo recarci assolutamente in quel luogo.” “Capisco” rispose mestamente l’oste “anche se non capisco cosa può ancora dare quella terra maledetta.” Pagato il loro pernottamento, i due, poco dopo, si rimisero in viaggio. Di nuovo attraversarono il bosco, seguendo l’irregolare sentiero, fino ad avvistare Caivania. Il Sole era alto e la campagna ridente. Eppure una strana atmosfera dominava quel luogo. Come un senso di apatia. Ad un tratto, prossimi alla meta, Ardea e Biago iniziarono a sentire un maleodorante odore diffuso nell’aria. Un fetido che sembrava penetrare fin dentro i polmoni, rendendo impossibile respirare. Più si avvicinavano al centro abitato più l’aria risultava infestata da quel disgustoso e nauseabondo odore. “Dove siamo giunti?” Chiese disgustato Biago. “Sembra che in questo luogo tutto stia marcendo, appestando l’aria!” “Si” rispose Ardea “è quasi impossibile respirare.” Anche i loro cavalli accusavano quest’aria ammorbante. Strapparono allora alcuni lembi dai loro mantelli e li usarono per coprirsi la bocca ed il naso. “In questo luogo non troveremo più nessuno” disse Biago “saranno tutti fuggiti. E’ impossibile sopravvivere a questo fetore!” A stento i loro cavalli riuscivano a proseguire, mentre l’aria tutt’intorno si addensava sempre più di quell’appestante tanfo. “Ma cosa può mai generare tanta puzza?” Chiese Biago. “Solo arrivando a Caivania potremo saperlo!” Rispose Ardea. E poco dopo i due giunsero finalmente a Caivania. Le strade erano deserte e tutte le case avevano porte e finestre inchiodate o barricate. Nemmeno un cane osava attraversare le vie di quel luogo. “Questo posto è morto!” Disse Biago, contenendo a stento un fortissimo senso di nausea. Tutto infatti sembrava aver abbandonato Caivania. Persino il vento era assente. E ciò rendeva ancor più densa e pesante quella fetida aria. (Continua...)
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18-11-2009, 02.45.14 | #123 |
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XXXVIII “Desolata ed infelice terra, vergine di eroismi e generosità, solo quando il tempo frantumerà queste tue mura, per mano dei liberatori, i tuoi figli torneranno a cantare alla luce del Sole.” (Le Geometriche, libro V) Biago, accortosi di una fontana proprio al centro di una piazzetta, preso dal senso di sete, si avvicinò per bere e pulirsi la bocca che il fetido dell’aria sembrava aver reso amara e vischiosa. L’acqua però era opaca, densa e aveva un odore disgustoso. “Anche l’acqua è marcia in questo infelice luogo!” Gridò ad Ardea. Ardea si avvicinò per controllare quell’acqua. Infatti nemmeno i cavalli osavano berla. Ad un tratto si udirono delle grida. Un momento dopo un uomo, grassoccio e di bassa statura, giunse correndo ed ansimando nella piazzetta. Appena arrivato a pochi passi dalla fetida fontana, cadde a terra, rotolandosi nella polvere e nel terreno. Subito da una delle abitazioni che si affacciavano sulla piazzetta uscì disperata e fuori di sé una donna. “Giuspo! Giuspo!” Gridò la donna. “Figlio mio, come stai?” Lo raggiunse e lo abbracciò forte. Dopo alcuni istanti, come tante pecore, uno dopo l’altro, iniziarono ad uscire dalle loro case gli altri abitanti della contrada. La donna stringeva a se quell’ometto ancora steso nella polvere. “Giuspo! Come stai?” Chiedeva in lacrime la donna. Tutti gli altri restavano muti e quasi assenti davanti a quella scena. Giuspo affannava e non riusciva a parlare, mentre quella donna lo scuoteva e lo chiamava per nome, come a volerlo destare da un grande spavento. “Sto…sto bene, madre…” Rispose con un fil di voce all’ennesima invocazione della donna. Questa guardò la fontana e disse: “Aspetta, ti prendo dell’acqua.” “Quell’acqua è marcia.” Intervenne Ardea che aveva osservato da vicino quella confusa scena. “Prendete questa che è invece pura e limpida.” La donna ringrazio con un cenno del capo per quel nobile gesto e passò la borraccia del cavaliere al suo malridotto figliolo. In quel momento uno dei presenti chiese: “Allora, come è andata, Giuspo?” L’ometto buttò giù, avidamente, diversi sorsi di quell’acqua pura, fino a prosciugare l’intera borraccia. Bevve tanto velocemente da essere colto da una profonda tosse quando finalmente staccò la bocca dalla borraccia. “Dicci Giuspo, come è andata?” Chiese ancora quell’uomo. Giuspo lo fissò, con la bocca bagnata dall’acqua appena bevuta e gli occhi rossi, fuori dalle orbite, come se stessero per esplodere. “Come vuoi che sia andata?” Rispose scuotendo la testa. “Ero a circa cento passi da una delle pecore, quando quel suo mostruoso cane mi ha visto, cominciando ad abbagliare e ad inseguirmi!” “Perché ti sei avvicinato tanto, figlio mio?” Chiese sua madre. “Madre…” rispose Giuspo “eravamo io e Plino. Ormai Caivania è ridotta alla fame e quest’aria infestata finirà per ucciderci tutti. Non potevamo restare a guardare…” “Plino?” L’interruppe una delle donne presenti. “C’era anche lui? Dov’è ora? Non l’ho vedo da stamani!” Giuspo la guardò per qualche istante. Poi, senza dir nulla abbassò il capo. “Dov’è Plino?” Chiese ancora la donna. “E’ mio marito! Dovete dirmi dove sta! Ditemelo, maledetti! Maledetti!” “Era con me…” iniziò a dire Giuspo “…quando quel cane infernale ci ha inseguiti…fuggivamo ma poi Plino è caduto…non ho avuto il coraggio di fermarmi… mi sono salvato perché…perché quella belva si è fermata a fare scempio del corpo di Plino...” La donna gridò ed inveì contro tutti e tutto. Si strappò i vestiti ed iniziò a graffiarsi. Ci vollero quattro persone per evitare che si strappasse lei stessa le carni per la disperazione. Sentendo quel racconto, la madre di Giuspo strinse ancor più forte il proprio figlio a sé. Pian piano poi, tutti rientrarono nelle proprie case. La madre di Giuspo, fermatasi sulla soglia della porta, si voltò verso Ardea e Biago dicendo: “Non restate all’aperto, miei signori, o quest’aria imputridita vi avvelenerà i polmoni. Vi prego, entrate dentro.” Ardea e Biago accettarono senza nessuna esitazione quel cortese invito, bramosi com’erano di trovare riparo da quel fetido infernale che dominava ovunque nell’aria. (Continua...)
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20-11-2009, 03.51.26 | #124 |
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XXXIX “Quando Tristano senza terra arriva in Cornovaglia, subito apprende una notizia che gli è molto sgradita: dall’Irlanda è giunto il potente Moroldo che sotto la minaccia delle armi esige da Marco il tributo delle due terre di Cornovaglia e d’Inghilterra.” (Tristano, 10) Il tiepido fuoco del camino creava lievi aloni nella penombra della stanza. La luce, tenuta a freno dalle porte chiuse e sprangate, era quasi del tutto relegata all’esterno, permettendo al buio di dominare ogni angolo di quella casa. La legna secca si frantumava con fischi e schiocchi al contatto col fuoco. Quell’odore nauseabondo, a differenza della luce, non trovava ostacoli a penetrare ed aveva ormai impregnato ogni cosa si trovasse in quella vecchia abitazione. La donna mise una vecchia pentola, unta e grassa, sul fuoco del camino. In breve la brodaglia che conteneva iniziò a bollire. “Come è possibile mangiare con una simile aria?” Si chiedeva Biago mentre osservava quella donna intenta a preparare la cena. Giuspo era seduto accanto al fuoco e pian piano sembrava riprendersi dallo spavento che aveva vissuto poche ore prima. Ardea invece stava in piedi, accanto al fuoco. Ne osservava le fiammate, causate dalla legna troppo secca, perdendosi di tanto in tanto a fissare le strane ombra che il chiarore del camino proiettava sulle pareti. “E’ quasi pronto, miei signori” disse la donna “non è un granché, ma di questi tempi è già tanto.” “Cos’è accaduto oggi, Giuspo?” Chiese all’improvviso Ardea. Giuspo lo fissòl senza dire nulla. “Miei signori, questa terra è maledetta!” Intervenne la donna. “Se una terra è maledetta” disse Ardea “è perché qualcuno vi ha imposto una maledizione!” “Tutto sembra averci abbandonato” disse la donna “la fertilità della nostra terra, la protezione del duca e la misericordia di Dio!” “Il duca non vi ha abbandonato e come lui la Divina Misericordia!” Esclamò Ardea. “Il duca sa sempre cosa accade sulle sue terre!” “Sono ormai due anni che non passa più nessuno dei suoi a Caivania” disse la donna “mentre qui noi moriamo poco a poco.” “Raccontatemi tutto.” Disse Ardea. La donna smise di mescolare il contenuto della pentola e si sedette accanto al fuoco. Lo fissò per alcuni istanti, poi cominciò a raccontare: “La terra di Caivania è sempre riuscita a sfamare i suoi abitanti. Dai nostri raccolti abbiamo sempre ricavato il necessario per noi ed il tributo per il duca. Ma un anno e mezzo fa tutto è cambiato.” “Cosa è accaduto?” Chiese Biago. “Non sappiamo né da dove, né perché, ma il male giunse un giorno in mezzo a noi…” Sospirò con le lacrime agli occhi la donna. “Il male?” Chiese Biago. “Dal lontano nord un essere terrificante e potente decise di fare di Caivania il suo sacrilego asilo.” Disse la donna. “Egli prese possesso di tutta la nostra terra e ne fece l’immondo pascolo per il suo gregge.” “Chi è costui di cui ci parlate?” Chiese Ardea. “Un essere tanto malvagio quanto orrendo.” Rispose la donna. “Tramanto è il suo nome ed il suo aspetto suscita paura e disperazione!” “E’ gigantesco e grottesco nella persona, vile e rozzo nei modi, violento e sanguinario nell’indole.” Continuò la donna. “E nessuno di voi ha potuto opporsi?” Chiese Ardea. La donna lo fissò quasi come se fosse suo figlio. “Mio dolce signore” rispose “noi siamo contadini ed artigiani. Tra noi non vi sono guerrieri. E per tener testa a quel mostro occorrerebbe un esercito di cavalieri.” Ardea e Biago si scambiarono una rapida occhiata. “Inoltre quel maledetto ha posto a guardia del suo gregge un mostruoso cane.” Aggiunse la donna. “Ucante è il nome di quella feroce fiera e sbrana tutti coloro che tentano di avvicinarsi al gregge del suo terrificante padrone.” “Oggi io ed il mio amico Plino” intervenne Giuspo “abbiamo tentato di rapire una di quelle pecore. Avrebbe sfamato i nostri figli e le nostre donne. Ma sapete poi come è finita per il povero Plino…” “Quel cane sembra essere stato generato dal medesimo parto che diede la vita al suo padrone!” Esclamò la donna. “E’ grosso quanto un toro, veloce come un rapace e feroce quanto un lupo!” “E questo immane tanfo” chiese Biago “da dove arriva?” “Sono gli escrementi del gregge di Tramanto.” Rispose la donna “Quelle bestie pascolano sulla nostra terra, facendone scempio, sia nei frutti che nell’aria.” La brodaglia della pentola iniziò a bollire più intensamente e per un momento il suo profumo sembrò coprire il fetido dell’aria. “Ma voi chi siete, nobili signori?” Chiese Giuspo. “Costui è…” Cominciò a dire Biago. “Io sono un cavaliere errante.” Lo interruppe prontamente Ardea. “E questi è il mio scudiero. Siamo forestieri e capitammo per caso in questa desolata terra.” “E avete un nome, cavaliere?” Chiese Giuspo. “Ho combattuto in Terrasanta” rispose Ardea “e feci voto, per annullare la mia superbia, di non rivelare mai il mio nome ad alcuno.” “Un voto?” Chiese Giuspo. “Avete qualche colpa da estirpare, mio signore?” “Si” rispose Ardea “ecco perché il soprannome che ho scelto è cavaliere Ripudiato.” Madre e figlio restarono colpiti dal soprannome scelto da quel cavaliere. Il suo portamento ed il suo aspetto tradivano valore e bellezza e quel curioso epiteto sembrava fuori luogo. Tuttavia non chiesero altro. Intanto la cena era pronta e tutti si sedettero a tavola per consumare quell’ingrato pasto, mentre le lunghe ombre proiettate dal fuoco del camino sulle pareti sembravano disegnare inquiete ed arcane figure, animate dalla paura e dal terrore di quella infelice terra. (Continua...)
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20-11-2009, 12.26.04 | #125 |
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23-11-2009, 03.59.42 | #126 |
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XL “Fermati a pregare in questo cimitero di pietra, perché è l’ultima cosa santa che vedrai prima di attraversare la valle dell’Ade.” (Il sogno funesto, III) Dopo la cena, la pia donna pregò i suoi ospiti di restare a dormire. “Non vorremo recare disturbo” disse Ardea “abbiamo già approfittato abbastanza della vostra cortesia. Piuttosto, indicateci una locanda per trascorrervi la notte.” “Non vi sono più locande, né osterie né null’altro che possa dare ospitalità e riparo qui a Caivania.” Intervenne Giuspo fissando quasi ammaliato i giochi di fuoco del suo camino. “Mio figlio ha ragione, miei signori” disse la donna “la tragedia che stiamo vivendo ha spinto chiunque ne avesse le possibilità a fuggir via.” Ardea e Biago si fissarono per alcuni istanti. “Allora non ci resta che accettare la vostra ospitalità.” Disse poi Ardea. La notte trascorse lunga ed inquieta. Almeno per Ardea. Biago, nonostante si fosse lamentato pesantemente del fetido dell’aria e di come gli impedisse di chiudere occhio, appena fu su un discreto giaciglio cadde in un sonno profondo. Il cavaliere invece si rigirava nel letto, tra ansie, preoccupazioni ed un singolare senso di impotenza. “Ecco perché questi miserabili non pagano più il tributo” pensava “sono delle tristi vittime di un fato atroce!” “Cosa farebbe mio padre al posto mio?” Si chiedeva continuamente. Ad un certo punto, seguendo il tenue bagliore della luce lunare che entrava dalla finestrella, posò lo sguardo su Parusia, poggiata a capo del suo letto. La Luna la illuminava, generando straordinari giochi di luce colorati, frutto delle preziosissime pietre che intarsiavano quella favolosa spada. In un momento il cuore di Ardea fu invaso dai ricordi. Gli insegnamenti di suo padre, le loro chiacchierate, le passeggiate lungo la campagna delle Cinque Vie. E poi il sogno di diventare cavaliere e mostrare il suo valore a quell’uomo che dal nulla lo aveva chiamato ad un destino di gloria. Le ultime parole che Ardea udì da suo padre, il giorno della partenza verso Afragolignone, echeggiavano ora nella sua mente. Si alzò allora dal letto, vinto dagli insopportabili pensieri ed afferrò Parusia. La sfoderò e la mirò con attenzione. La solida e luminosa lama sembrava risplendere di luce propria in quella inquieta notte. “Questa spada è tutto ciò che mi resta di mio padre” disse “giuro che la onorerò a costo della mia vita!” E così tra mille pensieri trascorse quella lenta notte. Il gallo salutò l’albeggiare e di nuovo il Sole sorse su Caivania. Giuspo quella mattina annunciò a sua madre che sarebbe andato allo Spiazzo delle Pietre. Era questo un posto situato tra l’abitato di Caivania e la sua campagna. Incuriositi, anche Ardea e Biago chiesero di vedere quel luogo. Appena giunti, Giuspo mostrò loro dei piccoli tumoli di pietrisco posti l’uno accanto all’altro. Ad occhio se ne potevano contare più di un centinaio. “Cosa sono questi tumoli?” Chiese Ardea. “Sono ciò resta dei martiri di Caivania.” “Ciò che resta?” Ripetè stupito Biago. “Si” rispose Giuspo. “Non abbiamo tombe su cui piangere i nostri morti. E questi tumoli furono eretti in loro ricordo. Tramanto può toglierci tutto, compresa la vita, ma non il ricordo dei nostri cari.” “E non vi è un luogo in cui giacciono i corpi dei vostri morti?” Chiese Biago. “Non su questa terra.” Rispose Plino. “Essi marciscono nelle immonde viscere della feroce belva di quel mostro.” Detto ciò, Plino si chinò a terra e con delle pietre formò un altro piccolo tumolo, in memoria del suo amico Plino. I tre, in quel doloroso luogo, vivevano stati d’animo differenti: disperazione, paura, rabbia. E così fu per gran parte di quel giorno che trascorsero tra quelle anonime pietre. Ma quando il giorno morente iniziò a cedere il posto al crepuscolo, il silenzio di quell’austero luogo fu squarciato da un terrificante e delirante ululato. Giuspo nell’udirlo si portò le mani sulla testa e iniziò a piangere di rabbia e disperazione. “Quale aborto della natura può generare un simile verso?” Gridò Biago. Ma tutti e tre conoscevano bene la risposta a quella domanda. E per un momento il perenne fetido dell’aria fu coperto da un intenso odore di sangue e di morte. (Continua...)
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25-11-2009, 02.16.27 | #127 |
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XLI “Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso di eterno consiglio, tu sei colei che l’umana natura nobilitasti si, che ‘l suo Fattore non disdegnò di farsi sua fattura.” (La Divina Commedia, XXXIII, 1) Nulla seguì l’eco di quel delirante ululato. La Luna, che timida e meravigliosa si era affacciata dalle alte nuvole, in un momento rientrò nel suo giaciglio e pian piano il buio della sera ricoprì ogni cosa. I tre tornarono a casa. Nessuno di loro però toccò cibo. Ardea era in piedi accanto al camino, assorto nei suoi pensieri e forse tormentato dai suoi antichi demoni, che sembravano voler prendere vita dalle mistiche forme che assumeva il fuoco del focolare. Ma ora vi era un demone ben più reale. Che non tormentava solamente il suo cuore, ma la vita di innumerevoli persone. Un demone giunto da un lontano Inferno con l’unico scopo di perseguitare i vivi e spingerli nella disperazione più cupa. Perché, come gli ripeteva spesso l’abate Petrillus, suo maestro spirituale, il demonio ha come unica arma quella di portare alla resa l’uomo attraverso la disperazione. All’improvviso, Ardea uscì fuori. Passeggiò da solo nello spiazzo. Scrutava il cielo, reso opaco dall’aria sporca e pesante e cercava risposte ai suoi dubbi. Risposte che in realtà sapeva bene erano celate solo in fondo al suo cuore. “Se mio padre fosse vivo” pensò tra un impeto di viva rabbia “avrebbe già liberato questo sfortunato luogo dal suo flagello! E se io valgo anche solo la metà di quel grande uomo, allora Tramanto conoscerà davvero cos’è l’Inferno!” Dopo alcune ore, vista la prolungata assenza, Biago uscì in strada e trovò il suo amico seduto sotto un olmo. “Così ti seccheranno i polmoni!” Disse appena ebbe raggiunto il cavaliere. “Questo tanfo è malefico!” “Domani affronterò quel maledetto che tiene sotto il suo giogo questa gente!” Disse all’improvviso Ardea. “Non puoi farlo!” Esclamò Biago. “Tramanto ha reso cibo per il suo cane tutti coloro che hanno osato avvicinarsi ai suoi pascoli! E’ una follia!” “Devo farlo per mio padre!” “No, tu devi dare una discendenza al ducato, non farti ammazzare come uno sciocco!” “Discendenza?” Disse Ardea “Un figlio che porti nel suo cuore e sul suo onore l’onta di suo padre?” “Non c’è peccato in te, Ardea.” “Si, invece! E solo riassestando il feudo di mio padre potrò tentare di porvi rimedio!” “Ti prego, desisti!” “E per cosa?” Chiese Ardea. “Per vivere come un vigliacco ed un ignavo?” “Sei un nobile cavaliere, vivi come tale.” “Tra meno di un anno potrei essere già morto. Rammenti il duello con il cavaliere misterioso?” Biago non rispose nulla. “E’ deciso” disse Ardea “domani affronterò Tramanto.” Poco dopo, i due rientrarono in casa. Ardea chiese alla pia donna dove fosse una chiesa. Giuspo si offrì di accompagnarlo. Così giunsero in una bella chiesa posta al centro di Caivania. Nell’abside dominava un meraviglioso dipinto della Santissima Madre di Dio. “E’ la Madonna di Campiglione.” Spiegò Giuspo. “Da secoli dispensa grazie straordinarie al popolo caivanese.” Ardea allora recitò con pietà e devozione i Divini Misteri del Santo Rosario. Ad un certo punto, un prete salì sull’altare ed iniziò ad invocare, con una mistica litania, gli appellativi della Santa Madre di Dio. “Vergine Prudentissima…Vergine Venerabile…Vergine degna di lode…Regina della Speranza…Regina della Fede…” Ed ogni invocazione di quella misericordiosa litania sembrava scandire, come un inesorabile conto alla rovescia, l’avvicinarsi del momento in cui Ardea avrebbe affrontato il malvagio Tramanto. (Continua...)
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27-11-2009, 04.00.03 | #128 |
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XLII “Perché dovrei temere? La mia vita per me non val più di uno spillo. E quanto all’anima, che male potrà farmi, s’essa è immortale come lui? Ma ancora mi fa cenno. Io lo seguo.” (Amleto, I, IV) Il giorno seguente Ardea all’albeggiare era già in piedi. Con cura preparava il suo equipaggiamento, sistemandosi la corazza e indossando le armi. Per qualche istante strinse fra le mani Parusia. Né baciò la fredda e lucente lama, per poi legarla stretta al cinturone. In quel momento Biago rientrò in casa. “Ho sellato i cavalli” disse “quando vuoi possiamo andare.” “Grazie Biago” rispose Ardea visibilmente teso “ma tu resterai qui.” “Perché mai?” “E’ troppo pericoloso e non voglio altre colpe sulla mia coscienza.” “Io sono il tuo scudiero, ricordi?” Esclamò Biago. “Non sono qui per un pellegrinaggio, ma per assisterti!” “Ricordi la tua promessa, quando ti permisi di seguirmi?” Gli ricordò Ardea. “Dicesti che mi avresti obbedito sempre.” “Si, nel servirti! Ma così mi escludi dai tuoi ordini.” Ma la discussione tra i due fu interrotta dall’arrivo della madre di Giuspo. La donna non disse nulla e posò sulla brace spenta del camino alcuni rami secchi. “Oggi sembra farà più freddo” cominciò a dire dopo qualche istante “meglio preparare il fuoco.” Ardea riprese i suoi preparativi senza rispondere nulla. “Siete in partenza, messere?” Chiese la donna. “Si” rispose Ardea “affari urgenti mi impongono di andare. Vi sarò sempre grato per la vostra ospitalità.” “La donna si avvicinò al cavaliere, fissandolo con profonda tenerezza e dolcezza. “Ragazzo mio” disse accarezzandogli il volto “potrei essere vostra madre. E una madre e non baratterebbe la vostra vita con niente e nessuno. Perché fate tutto questo?” Ardea restò stupito. “Perché altri non possono?” Disse ancora la donna. “Quella corazza non può imporvi ciò che non potete compiere.” “Mia signora” rispose Ardea “le colpe si lavano in un solo modo…col sacrificio!” “A costo della vita?” Chiese la donna. “Una vita unta dal peccato non è più vita, ma solo una costante agonia.” Giuspo, che aveva origliato tutto da dietro la porta, entrò e disse: “Cavaliere, voi state sfidando l’impossibile! Desistete e vivete la vostra vita altrove, che è ancora lunga e gioiosa.” “Mio tenero amico” rispose Ardea “tra meno di un anno ho un appuntamento simile con un nemico non meno terribile del vostro Tramanto. Questa di oggi è solo una tappa che mi condurrà, se dovessi uscirne vincitore, verso quell’improrogabile impegno.” “Io non so niente di queste cose, mio signore” disse Giuspo “sono solo un contadino. Ignoro i fatti d’onore e di armi di voi cavalieri. Ma so che la vita è sacra per tutti, nobili e servi, fedeli e infedeli, cavalieri e villani.” “E infatti” rispose Ardea “è per la sacralità della vita che faccio tutto questo.” Poi, preso il suo elmo, aggiunse: “Uno di voi mi indichi la via dove quel fellone fa pascolare il suo immondo gregge.” “Vi ci condurrò io.” Disse Giuspo. “Ed io vi scorterò” intervenne Biago “almeno voi non mi scaccerete.” Giuspo sorrise. Di lì a poco i tre partirono. L’aria era umida e una velata nebbia copriva i contorni di quell’irreale scenario. Appena intrapreso uno stretto sentiero l’aria si fece ancor più irrespirabile, quasi a far perdere i sensi. Ad un certo punto un feroce ed allucinante ululato si diffuse nell’aria. “E’ quella bestia! Ha avvertito l’odore del nostro sangue!” Disse Giuspo. I tre avanzarono ancora lungo il sentiero, tra quella incantata nebbia e l’immondo fetido dell’aria. Ed ancora si udì quel delirante ululato. Stavolta più forte e vigoroso. “Si è avvicinato!” Esclamò Biago. “Temo che quella bestia sia vicina.” “Quella fiera non vi permetterà di avvicinarvi al suo padrone.” Disse Giuspo ad Ardea. “Occorrerebbe un modo per liberarsi di quella maledetta bestia!” Disse Biago. Poi, giunti davanti ad una fitta fila di grossi alberi, Giuspo iniziò a dire: “Dietro questi alberi, ai piedi della collina, vi è il gregge di Tramanto. Mentre la grotta dove egli ha trovato rifugio è posta sulla cima di quella collina.” I tre allora si accostarono presso degli alberi, posti tra il sentiero i piedi della collina. Qui poterono finalmente scorgere il gregge di Tramanto, composto da grasse e belanti pecore, ricoperte da bianchissima e soffice lana. Ce ne erano tante che era impossibile contarle tutte senza confondersi. E con il loro letame avevano insozzato tutta la vegetazione. Il tanfo che quel luogo emanava era insopportabile e quasi appannava la vista, mentre la nebbia, divenuta fittissima, sembrava avvolgere e separare quel posto dal resto del mondo. (Continua...)
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30-11-2009, 01.58.22 | #129 |
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ARDEA DE' TADDEI
XLIII “Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole carinamente latra sovra la gente che quivi è sommersa.” (La Divina Commedia, VI, 13) I tre si nascosero tra gli alti alberi che racchiudevano quel piccolo fondovalle, nel quale pascolavano le pecore del marrano. “Lì, in cima” disse Ardea “intravedo una grotta…” “E’ la tana di quel maledetto!” Disse Giuspo, con un tono che tradiva paura e rabbia insieme. “Devo raggiungere quella grotta!” Disse Ardea. “Appena tenterete di avvicinarvi” esclamò Giuspo “il suo feroce cane vi assalirà!” “Dopotutto è solo un cane…” Disse Biago. “Anche Cerbero lo è” intervenne Giuspo “eppure nessun dannato dell’inferno penserebbe mai di fuggire!” “Infatti noi non lo attaccheremo!” Rispose lesto Biago. “Cos’hai in mente?” Gli chiese Ardea. “Di liberarci di quella dannata bestia” rispose Biago “così che tu possa raggiungere quel fellone!” “E’ utopia credere di poter far fuggire quel cane!” Disse Giuspo. “Vedremo…” “Insomma, cos’hai in mente?” Chiese spazientito Ardea. “Una volta” cominciò a dire Biago “sua maestà aveva un bellissimo alano. Era robusto e fiero e nessun altro cane poteva stargli alla pari. Ma un giorno il cane accusò dei strani sintomi. Come se uno strano morbo l’avesse contagiato, rendendolo furioso e feroce. Gli stallieri decisero di abbatterlo, ma il piccolo principe, amando tantissimo quel cane, se ne rattristò molto.” “Arriva al punto, maledizione!” Esclamò impaziente Ardea. “Il re allora” riprese a raccontare Biago “ordinò che il cane fosse allontanato, ma non ucciso a corte. Allora uno degli stallieri adoperò un sistema adattissimo in queste situazioni, che disse di aver imparato dai nobili cacciatori normanni.” “Quale sistema?” Chiese sempre più impaziente Ardea. “Di fissare tra loro, tramite un foro su ciascuna” rispose Biago “due piastre di bronzo, per poi legarle sulla coda del cane! Le due piastre formano un aggeggio chiamato, in lingua normanna, Lamiera.” “Che curioso stratagemma!” Esclamò Giuspo. “Curioso ma efficacissimo!” Rispose Biago. “Io ero presente quando, proprio con l’utilizzo di questa Lamiera, dalla corte fu fatto fuggire l’alano del re.” “Si, ma in che consiste questo metodo?” Chiese Ardea. “Una volta legata la Lamiera” rispose Biago “il cane tenterà di liberarsene. Ma i movimenti della bestia faranno si che le due piastre di bronzo facciano rumore l’una contro l’altra. Allora il cane inizierà a fuggire spaventato. Il rumore renderà il cane pazzo, facendo si che non smetta mai di correre. Fino a quando, stremato, il cuore gli scoppierà.” “Ma niente riuscirà a spaventare il cane di Tramanto!” Esclamò Giuspo. “Quando gli avremmo legato la Lamiera alla coda allora vedrai come tenterà di tutto pur di liberarsene!” Rispose sicuro di sé Biago. “Vi è del buono in quel che dici” esclamò Ardea “val la pena tentare!” “Dobbiamo solo escogitare come legare la Lamiera alla coda di quella belva feroce!” Disse Biago. “Questo sarà compito mio.” Disse Ardea. “Tu pensa come costruire la Lamiera.” “Qui vicino vi è un vecchio mulino abbandonato” disse Giuspo “li troveremo del bronzo.” Biago e Giuspo allora si recarono al mulino abbandonato, mentre Ardea si allontanò, prendendo la via verso il cuore del bosco. Qui catturò un capriolo. Lo squartò e ritornò presso il luogo in cui pascolavano le pecore di Tramanto. Dopo un po’ lo raggiunsero Biago e Giuspo. “Abbiamo fuso le lamine di bronzo che rafforzavano le pale del vecchio mulino” disse Biago. “Ecco le nostre piastre. Credo dovrebbero fare al caso nostro.” Allora legarono una lunga e robusta corda alla Lamiera. Poi, con prudenza, Biago e Giuspo legarono ad un albero il capriolo a testa in giù. “L’aria fetida domina ovunque” disse Biago “spero che almeno un pò dell’odore di questo capriolo arrivi a quel dannato cane!” Ad un certo punto, da dietro alcuni spuntoni di roccia, emerse una nera e spaventosa figura. Era tutta ricoperta da un pelo nero e folto. Era grosso come un toro ed aveva il collo tozzo. L’aspetto ricordava quello di un grottesco cane, ma era quattro volte più grosso. Appena annusato l’odore del sangue del capriolo, l’orrida fiera si avvicinò all’albero dove era stato appeso. Ma, con un gesto preciso e fulmineo, Ardea lanciò la corda che si strinse con forza attorno alla coda del mostruoso Ucante. La belva, sentitasi toccata si voltò tre volte su stessa. E a questi violenti movimenti, le due piastre della Lamiera iniziarono a far rumore. L’orrendo Ucante tentò di scrollarsi da dosso quell’aggeggio, ma l’impeto e la rabbia, causati da quello snervante rumore, non permettevano a quella bestia di essere lucida. E più aumentava l’agitazione e la rabbia di quella fiera, più la Lamiera faceva fracasso. Allora Ucante iniziò a correre per la radura. Era una corsa folle la sua; sfrenata, senza sosta. Correva in circolo nella piccola radura, spaventando il gregge e disperdendolo. Più correva, più schiumava e ringhiava. E quella corsa si faceva sempre più incontrollata, sempre più irrefrenabile. Alla fine, come vinta dalla rabbia e dalla disperazione, l’orrenda fiera presa la via del bosco e corse via. Ardea, nel vedere la bestia fuggire via, lanciò un urlo di gioia. “Non credo ai miei occhi!” Gridò Giuspo. “A funzionato! A funzionato!” Esultò Biago. “Ma dove arriverà ora quel cane?” Chiese Giuspo. “Correrà fino a quando gli scoppierà il cuore nel petto!” Rispose esaltato Biago. “Presto” disse Ardea ai due compagni “radunate le pecore e conducetele a Caivania.” I due annuirono. “Io farò sì che il padrone raggiunga presto il suo cane all’Inferno!” Aggiunse Ardea fissando la cima della collina, mentre la nebbia si era fatta più fitta e l’umidità più pesante, come a voler arrugginire il ferro della sua corazza. (Continua...)
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ARDEA DE' TADDEI
XLIV "Dalla voce al rimbombo, ed all'orrenda Faccia del mostro, ci s'infranse il core." (Odissea, IX, 324) “Ardea…” Lo chiamò Biago. I due si fissarono negli occhi per alcuni interminabili istanti senza dirsi nulla. Poi, montato in sella al fedele Arante, Ardea cominciò a salire la collina, semiavvolta dalla fitta nebbia. La via che conduceva in cima era stretta e dissestata. Tra il manto di quella densa nebbia alti e incantati alberi di ulivo emergevano, quasi a simboleggiare la volontà della natura di liberarsi da quell’atmosfera maledetta. Il cielo era simile ad una tela opaca e di tanto in tanto il Sole, come un disco di tiepida luce, si intravedeva nell’atto di attraversare quell’irreale orizzonte. Giunto quasi in cima, Ardea vi trovò una vecchia nicchia abbandonata. In essa era custodito un quadro della Santa Vergine di Campiglione con il Bambino. “Ormai nessuno più mette piede su questa collina.” pensò Ardea. E sceso da cavallo, iniziò a pregare davanti a quella nicchia. “Vergine Santa” sussurro “veglia su di me come quando accompagnasti il tuo Figlio sul Calvario.” Poi, strappato un ramoscello di ulivo, lo pose accanto a quella sacra immagine. E rimessosi in sella, continuò la scalata verso la cima. L’aria era immobile e pesante e la collina non era abbastanza alta da permettere all’umidità di asciugarsi. Il ferro della corazza era ricoperto da un alone di goccioline e la tunica che la ricopriva era completamente bagnata. Poi finalmente, Ardea intravide uno spiazzo. Era la cima di quella desolata Collina. Qui la vegetazione era folta e verde e contornava alcuni spuntoni di roccia. E tra questi si apriva l’ingresso di una grotta: era l’antro di Tramanto. Ardea legò ad un albero il suo cavallo Arante. Poi si incamminò verso la grotta. L’ingresso sembrava un’enorme voragine scavata nella nuda roccia. Le pareti erano tutte annerite dal fumo del fuoco. Infatti, al centro della grotta, bruciavano grossi tronchi d’albero. Ed accanto a questa brace vi erano sparsi ovunque formaggi, salumi e casse ricolme di frutta. Mentre sulle pareti erano appesi diversi arnesi ed armi. Tutto era al di la della misura umana, come se tutto ciò presente in quella grotta fosse adoperato da un gigante. Ardea si avvicinò al rozzo tavolo, seminascosto da una rientranza della roccia, sul quale vi era una coppa riempita a metà con del vino rosso. La coppa era grossa come quei tipici calderoni bretoni, che i druidi adoperavano per i loro riti. Un uomo a fatica sarebbe riuscita a sollevarla. Ardea si fermò, quasi distrattamente, a fissare quel vino rosso e scuro. All’improvviso qualcosa lo destò dai suoi pensieri. Velate increspature iniziarono a formarsi nella coppa. Sempre più profonde nascevano dal centro e si spegnevano lungo i bordi. Poi tutti gli arnesi appesi alle pareti iniziarono a vibrare. Prima in modo impercettibile poi in maniera sempre più evidente. Ad un certo punto la grotta iniziò a scuotersi. Come se la terra stesse iniziando a tremare. Sordi boati si susseguivano, quasi ad intervalli regolari. Ardea, quasi temendo che la grotta potesse franare, corse verso l’uscita. E qui vide un’orribile e grottesco spettacolo. Un uomo alto almeno il doppio di uno comune, ritornava in quella grotta. Aveva i capelli folti e nerissimi, la pelle solcata da profonde rughe ed il corpo ricoperto da un’irregolare peluria. Aveva delle pelli come abiti e calzava dei sandali legati fino alle ginocchia. Sulle spalle portava due grossi e robusti cervi, che costituivano il suo avido pasto. E dalla cintura che gli stringeva le pelli lungo la vita, legata da una robusta catena, pendeva una grossa scure, ancora intrisa dal sangue vivo delle sue prede. (Continua...)
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