16-05-2013, 21.34.47 | #141 | |
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20-05-2013, 17.11.24 | #142 |
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SICHELGAITA: LA DUCHESSA GUERRIERA.
Dalle antiche cronache tropeane risulta che molto fiorenti sono sempre state le relazioni tra i Duchi e i Re della dinastia normanna con i Vescovi di Tropea. Alla venuta dei Normanni in Calabria nella sedia vescovile tropeana si era insediato un uomo molto illustre, Calociro, protosincello imperiale nonchè ultimo vescovo di rito greco, al quale Roberto il Guiscardo concesse dei privilegi, come si evince da un diploma pervenutoci in traduzione latina, rogato da tal Giovanni, regalis clericus, nel gennaio del 1066. Il medesimo Calociro nel 1062 avrebbe accolto con grande ospitalità, tributandole solenni onoranze, la profuga moglie del Guiscardo, Sichelgaita, la quale, a quanto racconta Goffredo Malaterra, s'era rifugiata a Tropea in seguito alla notizia (falsa) che il marito era stato assassinato a Mileto ( G. Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris eius, a. c. di E. Pontieri, Bologna 1927). Detto vescovo seppe così bene accattivarsi la riconoscenza del Guiscardo, che questi, col diploma del 1066, confermò ed accrebbe i domini che il Vescovado di Tropea possedeva. Calociro in questo ampio diploma è detto Protosincello, posto più illustre fra i Sincelli e loro capo e fu in quell'occasione che la stessa Sichelgaita fece dono al suo ospite benefattore del famoso pastorale, il pezzo più pregiato d'alta oreficeria facente parte del tesoro della Cattedrale di Tropea. Successivamente, il vittorioso Roberto si dice avesse ancor più arricchito l'illustre Vescovo Protosincello, suo Consigliere. Anche il Duca Ruggero Borsa con diploma del 1094 accrebbe le donazioni fatte dal padre suo al Vescovo di Tropea, Iustego, unendovi la sedia di Amantea, allora soppressa, e poi Guglielmo il malvagio, trovandosi a Messina, ne estese ampia conferma nel 1155. Le cronache sostengono anche che in quel tempo Sichelgaita avesse delle pertinenze in quel di Tropea e precisamente la località di Bordila (Parghelia) e della sua tonnara (<<tonnaria in territorio Tropeae loco qui Bordella vocatur>>). Tonnara che fu poi dal Duca Ruggeri concessa al monastero di Montecassino e all'abate Oderisio, proprio nell'anno della morte di Gaita (1090), la quale era stata assidua benefattrice di Montecassino, cui la legava il vincolo di parentela con l'abate Desiderio, poi Papa Vittore III. E non a caso, le sue ultime volontà furono quelle di essere sepolta nel suddetto monastero. Ma vediamo chi fu veramente questa donna, affascinante e sapiente, che, giovanissima, a ventidue anni divenne sposa del gigante dagli occhi azzurri, Roberto il Guiscardo, il più grande guerriero del suo tempo, ma rude analfabeta e come la sua discreta e assennata opera diplomatica, presso la corte normanna, sia risultata vincente. La principessa Sichelgaita visse in un periodo di eccezionale rilevanza storica, che vide il processo di rinnovamento della Chiesa di Roma, nel segno della riforma gregoriana, la lotta delle investiture, l'espansione dei nuovi barbari nella Longobardia minore, il declino dell'antico principato di Salerno, il trionfo dello Stato normanno. I protagonisti furono: Gregorio VII, Enrico IV, Desiderio di Montecassino, Alfano I di Salerno, Roberto il Guiscardo e Sichelgaita, figura che Amato di Montecassino descrive "nobile, bella e saggia" e Romualdo, arcivescovo e storico salernitano "onesta, pudica, virile nell'animo e provvida di saggi consigli". Sichelgaita nacque a Salerno nel 1036 dal principe Guaimario IV, della dinastia dei longobardi spoletini, e da Gemma, figlia del conte Landolfo di Teano. Guaimario volle dare alla sua terza figlia il nome di sua nonna, donna di altissimo lignaggio longobardo. Gaita trascorse l'infanzia e la fanciullezza nel monastero di S. Giorgio, contiguo al Palatium; da un documento del 1037 risulta che in quel prestigioso monastero vi era una infermiera nel cui laboratorio si preparavano i medicamenti. Gaita conobbe perciò l'arte medica sin da fanciulla (fu discepola di Trotula De Ruggero, la celebre medichessa) e subì una grande attrazione per lo studio, la bellezza dei classici latini e greci e la sapienza delle Sacre scritture. Fu circondata dall'affetto del padre, che era l'uomo più potente dell'Italia meridionale, principe di una Salerno detta, universalmente, "opulenta"; purtroppo il suo potere gli procurò ostilità ed isolamento politico ed il 3 giugno 1052 fu barbaramente trucidato da congiurati di palazzo, che avevano cospirato con i ribelli amalfitani. Ad ereditare l'ingegno paterno fu Sichelgaita ma, per la sua condizione di donna, dovette dare spazio al fratello Gisulfo II, di lei più giovane; ebbe però il suo ruolo di guida e di governo del Palatium, talché divenne subito famosa per le sue opere sociali e culturali. Gli storici raffigurano Sichelgaita come un personaggio imponente e forte, più affascinante che bello: longilinea e slanciata, dall'incedere regale, sguardo penetrante e un'indole autoritaria non priva di personalità e misticismo. La fama delle sue virtù giunse sino al potente Roberto il Guiscardo e ne fu affascinato. Questi colse l'occasione per chiedere la mano della principessa longobarda allorquando Gisulfo II gli inviò suo fratello Guido, per chiedergli aiuto contro le continue invasioni del principato ad opera di Guglielmo il normanno. Roberto così si rivolse a Guido: "annuncia al principe Gisulfo che chiedo in sposa Sichelgaita, principessa di Salerno, sorella sua e tua. E' giunto a me ed alla mia gente la fama di donna avvenente, saggia, pudica e religiosa. sarà grande onore e gioia per il popolo normanno vederla sposa e signora del suo duce". Aggiunse che avrebbe divorziato da Alberada, da cui aveva avuto Boemondo. Per motivi politici Gisulfo II tentò di ostacolare le nozze ed addusse che l'erario del principato non era, allora, in condizione di sostenere le spese totali. Il Guiscardo, per tutta risposta, venne a Salerno, affrontò Gisulfo, gli confidò che prendere in sposa Sichelgaita significava il suo massimo ideale e gli gridò che avrebbe provveduto lui stesso ad assegnarle in dote le più ricche terre ed i più splendidi castelli di Calabria. La fiaba diventava storia. Gaita compiva allora 22 anni, conservava il titolo di principessa longobarda, acquisiva quello di duchessa normanna, diventava sposa di Roberto il Guiscardo, il biondo gigante dagli occhi azzurri, il più grande guerriero ed il più abile ed astuto statista del suo tempo, ma "rude analfabeta". Pur rimanendo nel suo ruolo, ella apporterà un concreto e fattivo contributo al successo di tutte le tappe politiche di Roberto, grazie alla sua cultura, alla sua rara saggezza, al suo sincero affetto coniugale. I loro rapporti furono di una certa conflittualità: da una parte lei con la sua tenace longobardicità, a cui non abdicò mai, dall'altra lui, rozzo, con l'asprezza e l'inflessibilità dei vichinghi, sterminatori e privi di pietà. Fu un freddo duello tra razze e civiltà diverse, una a suo sorgere, l'altra al suo tramonto; riuscì sempre a prevalere il garbo, il fascino personale, l'eleganza e la nobiltà di Gaita. Nell'aprile 1059, con papa Nicolò II, ebbe luogo in Laterano, uno dei più rivoluzionari concili della storia, in cui furono sancite le norme che travolgeranno il tradizionale assetto della Chiesa. I riformisti erano attenti alle possibili reazioni della corte tedesca e non potevano non pensare di coinvolgere i normanni, quali possibili difensori della strategia indipendentista della Chiesa. Questa valutazione politica non sfuggì a Sichelgaita, la quale pensava ai vantaggi che poteva portare al marito l'avvio di un processo di pacificazione e di revisione degli antichi rapporti di conflittualità con il papato. Cominciò allora un'abile opera per persuadere Roberto e favorire opportune intese ed alleanze: per quanto fiero, autoritario ed arrogante, il normanno accettò l'ingerenza di Gaita nelle sue determinazioni e manifestò al nuovo papa Nicolò II, il quale, forte dell'incoraggiamento degli ideologi riformisti, approfittò per indire subito un nuovo concilio a Melfi. Sichelgaita volle provvedere all'intera organizzazione, riservando al pontefice un'accoglienza maestosa. Roberto e Gaita si inginocchiarono dinanzi a lui con sentita umiltà e lui li abbracciò e benedisse: era questa una importante tappa della scalata dei normanni alla completa conquista del Mezzogiorno. Furono confermate le norme appena sancite dal concilio lateranense, e, nella giornata conclusiva, il papa consacrò ufficialmente Roberto, duca di Puglia e Calabria, con la possibilità della conquista della Sicilia. In cambio il Guiscardo si impegnò a difendere la Chiesa contro l'impero bizantino e germanico ed a garantire l'elezione del Papa secondo le norme del concilio. Sichelgaita era felice di aver contribuito alla grande riconciliazione. Alla fine del 1059, nacque Ruggero, il primogenito; verranno altri sette figli, due maschi e cinque femmine. Gaita seppe coniugare brillantemente il ruolo di donna politica con quello di madre. Purtroppo, i rapporti tra il papa Gregorio VII e il Guiscardo si incrinarono perché quest'ultimo aveva rifiutato di combattere i normanni che devastavano i territori della Chiesa negli Abruzzi. Il Guiscardo mirava alla conquista di Salerno e ragioni politiche imponevano tale atteggiamento. Fu perciò raggiunto, nel 1074, dalla scomunica, con grande dolore di Gaita che ne rimase profondamente sconvolta. L'esercito normanno mosse alla volta di Salerno nel maggio 1076. Sichelgaita, per evitare spargimento di sangue, escogitò ogni possibile tentativo e riuscì persino a convincere suo cugino, l'abate Desiderio di Montecassino a intercedere presso Gisulfo II per una risoluzione diplomatica della vicenda, ma inutilmente. Alfano, vescovo di Salerno, dinanzi a tanta follia del suo principe, si rifugiò presso Roberto nella speranza che il suo gesto avrebbe fatto precipitare gli eventi. Gaita era tormentata dalla sorte del fratello Gisulfo e si adoperò presso il marito affinché avesse il massimo rispetto del suo dramma e della sua dignità; Roberto, seppure con riluttanza, ne raccolse l'appello. Donò a Gisulfo II mille bisanti d'oro e gli concesse di rifugiarsi da papa Gregorio VII, che lo nominò governatore delle terre della Chiesa. Il 13 dicembre 1076 i normanni entrarono in Salerno e l'occuparono: alla notizia dell'arrivo di Gaita accorsero i vecchi longobardi, gli amalfitani del vico di Santa Trofimena, gli ebrei del quartiere di Santa Maria de Dommo, gli schiavi saraceni, i profughi bizantini, tutti plaudenti a lei, loro speranza. Era lei la vera grande trionfatrice e, nel vedere sgretolarsi la Longobardia Minore, giurava a se stessa di farla rivivere in suo figlio Ruggero. Gaita tornò nella sua vecchia reggia e da consigliera abilissima, spinse il Guiscardo ad essere prodigo ed a ristrutturare chiese e conventi. Nel 1080 si dava anche inizio alla costruzione del Duomo; tanta dimostrazione di profonda devozione da parte di Roberto, indusse il Papa a liberarlo dalla scomunica. Sichelgaita riprese anche a frequentare la scuola medica, in cui, dominava la figura di un gigante della medicina, Costantino l'Africano, profugo dalla nativa Cartagine, uno dei massimi veicoli della scienza araba nell'occidente. Roberto volle donare a Gaita una nuova reggia, Castel Terracena, che, per merito suo, divenne un centro politico e sociale, culla del mecenatismo dei sovrani, all'attenzione dell'Europa: Salerno assurse così a mediatrice tra l'oriente e l'occidente. Purtroppo un pesante pensiero tormentava da sempre Gaita: era interiormente angosciata per la sorte della figlia Olimpiade, che era stata inviata alla corte di Costantinopoli quale promessa sposa. L'evolversi degli eventi, nel 1078, comportò, però, la deposizione dell'imperatore Michele Dukas per cui Olimpiade, poi divenuta Elena, fu relegata in un convento. Tale situazione portò Sichelgaita ad appoggiare il progetto di Roberto di volgere contro Bisanzio; fu una spedizione che assunse il carattere di una "precrociata". Venne allestita una flotta imponente sulla quale si imbarcò anche Sichelgaita. Dopo Corfù, l'esercito normanno volse alla conquista di Durazzo. Lo scontro fu di inaudita violenza, un'ala delle colonne normanne, guidata da Roberto e Boemondo, ebbe la meglio sulle truppe greche e veneziane, alleate, mentre un'altra ala stava per ripiegare. Sichelgaita sentì cadere su di lei la responsabilità del momento: saltò a cavallo ed alla testa dei suoi uomini si lanciò impavida nella mischia. Una freccia la colpì alla spalla sinistra e rischiò di essere fatta prigioniera, ma il suo coraggio risvegliò talmente l'ardire dei normanni che li portò alla vittoria. Durazzo, il 18 ottobre 1081, era conquistata: Roberto corse incontro a Sichelgaita e l'abbracciò tra l'esultare e le acclamazioni dei soldati. L'atto di coraggio fu così commentato da Guglielmo Appulo: "Dio la salvò perché non volle che fosse oggetto di scherno una signora sì nobile e venerabile". Purtroppo Roberto non poté continuare la spedizione verso l'Illiria perché, su invocazione di Gregorio VII, dovette muovere verso Roma, contro Enrico IV. Giunto a Roma, nel maggio 1084, con un esercito di seimila cavalieri e trentamila fanti, compì massacri di inaudita ferocia, talché Gregorio dovette partire in esilio al seguito del Guiscardo, perché il popolo lo riteneva colpevole elle sue disgrazie. Fecero tappa a Montecassino: il Papa, benedettino, sperò di ritrovare lì la sua pace, ma l'ambizione di Roberto lo voleva nella capitale normanna, a Salerno, per cui dovette subire, quasi prigioniero, la volontà di chi era il vittorioso protagonista di una immane tragedia. Sichelgaita fu felice di poter ricevere il Papa con accoglienze trionfali e subito organizzò la consacrazione solenne della splendida cattedrale che, con Roberto, aveva fatto costruire in onore di S. Matteo. Era infatti necessario ripartire con urgenza per l'Oriente, ove l'esercito del Guiscardo era allo sbando. Ai primi di ottobre del 1084 salparono da Brindisi, con una flotta di 120 galee, Roberto, Boemondo e Ruggero; li accompagnava Sichelgaita per stare accanto al suo sposo, ormai settantenne, e per nostalgia della figlia Elena . L'anno 1085 fu un anno funesto. La gloria, per Salerno, di ospitare, tra le sue mura, quel gigante di pontefice non durò a lungo: il 25 maggio del 1085, nel cenobio di S. Benedetto, esalò il suo spirito. La sua morte lasciò attonito il mondo intero; intorno a se, negli ultimi anni del suo supremo pontificato, si era svolta la vita di tutte le nazioni ed aveva tenuto testa a tutti e contro tutti, per tutelare i sacrosanti diritti della Chiesa. Sichelgaita, lontana da Salerno, non pose mai freno alle lacrime e lo pianse come un padre. Le reliquie del patrono S. Matteo e quelle di S. Gregorio sono state sempre il maggior orgoglio della basilica salernitana, che per averlo ospitato nel suo esilio ebbe l'onore di diventare "Chiesa Primaziale". Dopo meno di due mesi, moriva in Cefalonia, colpito da malattia epidemica, il Guiscardo: cedeva alla natura il 17 luglio 1085, nel settantesimo anno di vita; Sichelgaita, Boemondo e Ruggero, immersi nel più straziante dolore, sciolsero le vele verso la Puglia, con le sue spoglie mortali, che furono sepolte nella chiesa della Badia della SS. Trinità di Venosa. L'autorevole cronista Guglielmo Appulo descrive con vivo realismo la commozione di Sichelgaita: "oh dolore ! che arò io sventurata? dove potrò andarmene infelice? Quando apprenderanno la notizia della tua morte i Greci non assaliranno forse me, tuo figlio e il tuo popolo, di cui tu solo eri la gloria, la speranza e la forza?". Henric von Kleist, nella tragedia "la morte del Guiscardo" di cui fu pubblicato un solo atto, rappresenta Sichelgaita mentre cerca di ristorare il marito bruciato dalla febbre e la figlia Elena, presente purtroppo solo nella rappresentazione tragica, che stringe sul petto la madre. Dante Alighieri non dubitò di collocare il Guiscardo in paradiso, tra le anime di coloro che avevano ben amministrato la giustizia. Il nove ottobre ancora di quell'anno, la morte colpì un altro personaggio non meno interessante per la storia di Salerno, l'arcivescovo Alfano I, medico e letterato. Fu sepolto accanto alla tomba di Gregorio VII, suo amico, affinché la morte non valesse a separarli. Fu un ulteriore dolore per Gaita, perdeva l'ultima sua guida, un amico di sempre, a lei congiunto in parentela, un longobardo cui aveva sempre confidato i suoi più intimi pensieri. Ormai sola, si ritirò in Castel Terracena e continuò a prodigarsi in favore del figlio Ruggero Borsa. Con illuminata intuizione attuò un antico "istituto longobardo": decise di associarlo nel governo del ducato, fin quando non fosse sopita ogni polemica sulla successione. La soluzione fu ben accolta a corte, dal patriziato, dal clero e dal popolo, i quali erano certi che l'esperienza e la saggezza della madre si sarebbero integrate con la giovanile intraprendenza del figlio. A Boemondo furono assegnate le sue conquiste in Grecia e varie città pugliesi, quali Bari, Otranto e Taranto. Anche questa volta fu Gaita a trionfare, fu il suo carisma che si impose. La scelta del "bicefalismo ducale", come fu definito dagli storici, fu il modo più intelligente per scongiurare le lotte intestine ed assicurare il rilancio di un forte governo del ducato. Sichelgaita, pur senza Roberto, riuscì, in forza delle sue possenti note caratteriali, a portare Salerno al culmine della sua potenza. Essa non fu più solo "opulenta" e potenza militare; dalla tomba dell'evangelista S. Matteo e da quella di Papa Gregorio VII si levava il potente richiamo ai valori del cristianesimo militante. Negli ultimi anni, Gaita si dedicò ad una vita di preghiera; frequentava con molta assiduità la Badia di Cava, alla quale aveva fatto donare, sin dai tempi del Guiscardo , molti conventi e fu assidua benefattrice di Montecassino, cui la legava il vincolo di parentela con l'abate Desiderio, poi Papa Vittore III. Sentì molto vivo anche il culto di S. Nicola di Bari. Fu questo un periodo finalmente tranquillo, in pieno ardore religioso, in cui poté sostenere l'opera di moralizzazione della Chiesa. In un momento di sconforto spirituale, rivelò a Gaitelprima, sua sorella, la sua ultima volontà: chiedeva d'essere sepolta a Montecassino. Sichelgaita morì il 27 marzo del 1090: i longobardi si sentirono privati di una madre, i normanni ebbero chiara coscienza che si dileguava l'ultima testimonianza del loro potere, gli umili la piansero affettuosamente. Mentre il Guiscardo si era fatto seppellire nella SS. Trinità di Venosa, nel sacrario dei duchi normanni, dove, più tardi Boemondo fece tumulare anche sua madre Alberada, Sichelgaita scelse, come sua ultima dimora, Montecassino. Fu l'ultimo gran gesto di una figura maestosa della storia a noi più vicina; volle farsi in disparte dando un forte segno d'umiltà, di quell'umiltà che connota i forti e che la pose nella leggenda. tratto da: www.tropeamagazine.it Taliesin, il Bardo
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"Io mi dico è stato meglio lasciarci, che non esserci mai incontrati." (Giugno '73 - Faber) |
21-05-2013, 11.24.29 | #143 |
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Il Buon Cavaliere della Carretta,
certamente perdonerà questo mio ennesimo sconfinamento temporale di circa centoottoaani, oltre quella riscoperta americana di cui vi narrai in un recente passato, ma il desiderio di far conoscere le disavventure di questa fanciulla che voleva divenire nei suoi sogni di bambina una stella lucente nel firmamento per essere così ammirata da un padre troppo distratto, era talmente forte da non poetere essere circoscritta dentro illogici confini di spazio e di tempo. A mio avviso, la famosa condanna da parte della Chiesa e la recente riabilitazione per volere del non mai abbastanza citato Karol il Santo, sono nulla a confronto della condanna eterna di non avere riconosciuto in vita, la propria Stella. Ma l'ufficialità della Storia è stata già riscritta. A voi il giudizio, Giovani Viandanti e buona lettura... Taliesin, il Bardo VIRGINIA GALILEI: SUOR MARIA CELESTE. Virginia Galilei, primogenita di Galileo, nacque il 12 agosto del 1600. Quello stesso giorno il padre stese di suo pugno un oroscopo, nel quale delineò i tratti principali del carattere della figlia e gli influssi dei pianeti che ne avrebbero segnato lo sviluppo. Lo zelo, la sensibilità e la devozione a Dio, predetti da Galileo, si manifestarono davvero nella personalità di Virginia, così come emerge dalle 124 lettere al padre pervenute fino a noi. Entrata in convento giovanissima, prese il nome di Suor Maria Celeste. La condizione della donna nel Seicento offriva poche alternative alle ragazze di buona famiglia: il matrimonio o il velo. Per Galileo, oberato dai debiti, la scelta che non gli avrebbe imposto il pagamento dell'ennesima dote matrimoniale fu obbligata. Grazie a conoscenze altolocate lo scienziato riuscì a far accettare entrambe le figlie prima del tempo, a soli 13 anni contro i 16 previsti, nel convento di San Matteo in Arcetri, dove Virginia prese i voti nel 1616 e Livia (1601-1659) l'anno successivo. Le suore di San Matteo in Arcetri appartenevano all'ordine delle Clarisse, fondato da Chiara d'Assisi nel 1212, la cui regola approvata nel 1253 si basava essenzialmente sulla scelta di povertà. La spiritualità francescana e la collocazione fuori le mura della città resero il convento di San Matteo particolarmente indicato per le esigenze di Galileo. Le nuove monache, infatti, erano accolte con una dote piuttosto bassa, rispetto ai più ricchi conventi cittadini. Virginia col tempo, a differenza della sorella minore, si rivelò adatta alla vita che le era stata imposta; dalle lettere, infatti, non trasparì mai un rimpianto o una rivendicazione: al contrario si rivolse sempre al padre con espressioni di grandissimo affetto. La prima lettera a Galileo, di cui è rimasta traccia, è datata 10 maggio 1623 e fu scritta in occasione della morte dell'amatissima zia Virginia, sorella di Galileo, dalla quale la figlia dello scienziato aveva preso il nome. Dal 1623 al 1634, anno della sua morte, Virginia ebbe con il padre una fitta corrispondenza, che fu di conforto per l'una e per l'altro. Galileo fu profondamente legato a entrambe le figlie, ma in Virginia trovò un riflesso del proprio carattere e non di rado le aprì il cuore, come quando nel 1623 le manifestò tutto il suo entusiasmo per l'elezione di Maffeo Barberini (1568-1644) al soglio pontificio, inviandole le lettere che il nuovo papa gli aveva scritto quando era ancora cardinale. Virginia era una donna intelligente e in convento divenne presto un punto di riferimento per le consorelle. Le frequenti richieste al padre di sostegno economico miravano quasi sempre a stemperare le misere condizioni di vita di tutte. La serenità del convento era talmente prioritaria per suor Maria Celeste che potendo chiedere al padre di domandare un qualsiasi beneficio a papa Urbano VIII, dal quale Galileo si sarebbe recato in visita nel 1624, scelse di pregarlo perché a prendersi cura delle monache fossero mandati frati degni, e non, come spesso accadeva, chierici dalla dubbia moralità. Virginia, anche se da lontano, si prendeva cura di Galileo in molti modi: con preparazioni speziali in cui era esperta, con dolci o frutti, cucendo per lui i colletti o rammendando gli abiti e anche facendosi copista delle sue lettere a terzi o dei suoi manoscritti, di cui era curiosa lettrice. Infine fu lei che, spinta dall'idea di avere il padre più vicino, riuscì a trovare quella Villa 'Il gioiello' dove Galileo spese gli ultimi anni di vita. Galileo, da parte sua, non rispose mai negativamente a nessuna delle richieste della figlia, fosse denaro, fosse inviare del buon vino, o fosse fare l'orologiaio e riuscire laddove il figlio Vincenzo (1606-1649) falliva: "Vincentio tenne parecchi giorni l'orivolo, ma da poi in qua suona manco che mai. Quanto a me, giudicherei che il difetto venissi dalla corda, che, per esser cattiva, non scorra; pure, perché non me ne risolvo, glielo mando, acciò veda qual sia il suo mancamento e lo raccomodi. Potrebbe anco esser che il difetto fossi mio per non saperlo guidare, che perciò ho lasciato i contrappesi attaccati, dubitando che forse non siano al luogo loro. Ma ben la prego a rimandarlo più presto che potrà, perché queste monache non mi lascerebbon vivere" (Ed. Naz. vol. XIV, p. 68). L'affetto e la stima di Galileo per la figlia trova eco nella descrizione che lo scienziato fece all'amico Diodati (1576-1661) dopo la morte di lei nel 1634: "donna di esquisito ingegno, singolar bontà et a me affezzionatissima" (Ed. Naz. vol. XVI, p. 115). Il dolore per la sua morte improvvisa e prematura fu immenso e gli provocò dissesti fisici, dai quali non si sarebbe più ripreso. Le lettere di Galileo alla figlia sono andate perdute, forse distrutte dalla madre superiora nel timore di una compromissione del convento di San Matteo, a causa della condanna di Galileo da parte del Santo Uffizio. tratto da:www.portalegalileo.it Taliesin, il Bardo
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21-05-2013, 11.34.29 | #144 |
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ANTONIA ALIGHIERI: SUOR BEATRICE DA RAVENNA.
Figlia di Dante e di Gemma Donati, nata presumibilmente a Firenze tra gli ultimi anni del sec. XIII e i primissimi del XIV, quasi certamente minore di Pietro e Iacopo. Poiché le figlie non erano giuridicamente coinvolte nella condanna del padre, è da ritenere che restasse con la madre a Firenze anche dopo l'estensione del bando ai fratelli; ma non mancano autorevoli studiosi, come il Barbi, che ritengono probabile che Gemma seguisse in un secondo momento la sorte del marito, e quindi è altrettanto plausibile l'ipotesi che prima del 1315 Antonia fosse già presso il padre. Della sua esistenza abbiamo conferma in un documento del 3 e 6 novembre 1332, stilato dal notaio ser Salvi di Dino, nel quale Iacopo s'impegna, anche a nome di Pietro, a far avere entro due mesi il consenso della madre e della sorella Antonia a una vendita. Per antica tradizione s'identifica Antonia con la suor Beatrice, monaca nel monastero di Santo Stefano degli Ulivi a Ravenna, a cui il Boccaccio avrebbe dovuto recare nel 1350 dieci fiorini d'oro da parte dei capitani della compagnia di Orsanmichele. Il documento relativo era in un libro di entrata e uscita ora perduto, ma esaminato nel sec. XVIII da Domenico Maria Manni, un secolo dopo da Giuseppe Pelli. L'esistenza del documento era stata fortemente messa in dubbio, ad es. dall'Imbriani, che negò l'esistenza di una Beatrice Alighieri, ma a fine secolo il Bernicoli pubblicava un documento tratto dai memoriali dell'archivio notarile di Ravenna; in esso era detto che il 21 settembre 1371 maestro Donato (degli Albanzani), casentinese ma dimorante a Ravenna, consegnava, da parte di un amico che desiderava restare sconosciuto, tre ducati al monastero di Santo Stefano, in qualità (il monastero) di erede " sororis Beatrisiae f. cd. Dandi Aldegerii et ol. sororis monasterii antedicti ". Il Ricci ha avanzato l'ipotesi che l'amico sconosciuto fosse lo stesso Boccaccio, che vent'anni prima non avrebbe adempiuto all'incarico assunto presso la compagnia di Orsanmichele; ma l'ambasceria ravennate del Boccaccio oggi non viene messa in discussione. Per poter identificare suor Beatrice con Antonia non desta eccessiva perplessità la circostanza che nel documento del 1332 non si faccia allusione alla condizione religiosa di Antonia, essendo questa un'obbligazione all'interno della famiglia; anzi la proroga di due mesi si giustifica proprio con la necessità di provvedersi di un'autorizzazione da parte di persona lontana da Firenze. Né è pensabile che Dante potesse avere due figliuole, anche perché nel citato documento si allude solo ad Antonia. Del resto suor Beatrice, benché religiosa, doveva possedere ancora beni se il monastero sarà designato suo erede. E il nome scelto nell'entrare nella vita monastica chiaramente attesta il riconoscimento di Antonia per il simbolo fondamentale dell'opera paterna. La figura di suor Beatrice è stata nel sec. XIX tema di romanzi, come la Beatrice Alighieri di Ifigenia Zauli Saiani (Torino 1853), e di drammi, come quelli di Luigi Biondi (ibid. 1837) e di Tito Mammoli (Rocca San Casciano 1883), oltre a comparire in tutte le opere romanzesche e teatrali che hanno come argomento gli ultimi anni di vita di Dante. Nel muro esterno del monastero ravennate (che fu soppresso nel 1882) si legge una lapide, dettata da Filippo Mordani. tratto da:www.treccani.it (enciclopedia dantesca) Taliesin, il Bardo
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21-05-2013, 16.04.16 | #145 |
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Spero tanto che Sir Hastatus sia magnanimo......
La Storia di Suor Maria Celeste e' bellissima........il famoso Galileo Galilei.....era un tenero padre......e' una parte di lui che io non conoscevo.....Grazie Taliesin |
21-05-2013, 16.09.23 | #146 |
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Grazie a voi Madonna,
che puntualmente passeggiate tra queste vie della Storia, a volte dissestate, ma con la gioia di poterle riscoprire. Senza persone con il dono della vista, come siete voi, queste mie Donne del Medioevo, resterebbero relegate nel vortice di polverosi scaffali dimenticati costruiti dagli Uomini. Taliesin, il Bardo
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21-05-2013, 16.14.20 | #147 |
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Alla fine amato Bardo....le Donne vivono in piccoli spazzi lasciate dal tempo....poi avviene, che qualcosa cambia, e allora voi ...le avete ridato l'anima...riportandole in vita........i sono la Dama che viaggia nel tempo...lo avete dimenticato ?.......
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21-05-2013, 16.39.39 | #148 |
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MARGHERITA PORETE: LO SPECCHIO DELLE ANIME SEMPLICI.
La grande mistica nel 1310 fu bruciata con l'accusa di eresia in una piazza di Parigi alla presenza di una folla immensa e delle più alte cariche civili ed ecclesiastiche. Anche il suo libro era stato condannato alla distruzione, ma attraversò indenne i secoli e la sua dottrina illuminò tantissime anime. Che dolce trasformazione venir mutata in ciò ch'io amo più di me. Sono a tal punto trasformata da aver perduto il nome mio per amare, io che so amare tanto poco; è in Amore che sono trasformata, perché io altro non amo che l'Amore. (da Lo Specchio delle anime semplici annientate, di Margherita Porete) La trasformazione avviene quando l'anima è completamente libera di se stessa. Ritrova il suo essere essenziale ed originale, che è partecipazione di Dio. Questo è il grande tema dal Ritorno che Margherita rende con parole poetiche, vivide e profonde, al livello di altri grandi mistici del suo tempo, come Meister Eckhart. Questa è la storia di una donna mistica che visse nell'Alto Medioevo. Scrisse un libro che sorprese e spaventò le migliori teste teologiche ed ecclesiastiche dell'epoca: la donna finì sul rogo ed il suo libro fu bruciato con lei. Ma non tutte le copie del libro si ridussero in cenere. Alcuni manoscritti, redatti nelle più importanti lingue volgari, circolarono per i monasteri d'Europa superando le barriere geografiche, linguistiche e temporali. Le parole di Margherita Porete giunsero fino al Rinascimento ed oltre, influenzando teologi, filosofi, scrittori, uomini di Chiesa, i cui nomi si ricordano e si studiano più della per tanto tempo anonima e dimenticata autrice dello Specchio delle anime semplici annientate. Margherita Porete è tutta dentro il suo Libro. Lei e lo Specchio sono la stessa cosa. Lei è anche dentro gli atti dei processi che subì dall'Inquisizione. Fu condannata, ma molti teologi e sacerdoti che lessero il suo Libro e la conobbero diedero giudizi positivi sul suo pensiero. (Margherita di Valenciennes, nata intorno al 1250-60, fu beghina durante il regno di Filippo il Bello. Il vescovo di Cambrai, Guido II, già prima del 1306, aveva fatto bruciare pubblicamente nella piazza di Valenciennes lo Specchio ed interdetto Margherita minacciandola di scomunica. Anche il successore di Guido II, Filippo di Marigny, minacciò Margherita. La successiva accusa fu pronunciata dall'Inquisitore provinciale dell'Alta Lorena). Cosa dice di così tremendo e rivoluzionario lo Specchio? L'anima non deve desiderare più nulla per essere capace di volere esclusivamente il volere divino. Deve compiere un cammino regale verso il paese del non voler nulla. Madamigella Conoscenza, illuminata dalla grazia divina, insegna ai marris (desolati), come iniziare il cammino. Ha scritto Marylin Doiron: "La vita marrie è una vita bloccata o ferma ai primi stadi, a causa dell'attaccamento ad una ricerca egocentrica di virtù. Anche se l'anima dei marris è bloccata ai primi stadi della conoscenza, tuttavia è possibile innalzarsi ed arrivare ad un più alto grado di perfezione" E come si arriva a questo grado di perfezione? Si arriva grazie alla conoscenza di sé: l'anima comprende gli abissi di ogni povertà, e "vede sé al di sotto di tutte le creature, in un mare di peccato". L'anima si riduce a niente e a meno che niente, comprende che "solo Dio è, mentre lei non è". Così la volontà divina può operare "in lei senza di lei", ovvero senza l'intervento egocentrico dell'anima. Non si tratta di quietismo. Scrive Margherita: "Tali persone governeranno un Paese se sarà necessario, ma tutto verrà fatto senza di loro". Margherita Porete rifiutò di comparire davanti al tribunale dell'Inquisizione. Il rifiuto si protrasse per un anno e mezzo. Trascorse questo periodo in prigione, a Parigi. Non ritrattò neanche di fronte alla minaccia del rogo. Fu quindi dichiarata eretica e relapsa - cioè recidiva - e consegnata, il 31 maggio del 1310 - com'era prassi, dopo la condanna ecclesiastica - al braccio secolare, perché eseguisse la condanna. Il primo giugno del 1310 Margherita fu arsa viva in place de Greve, alla presenza di una folla immensa e delle più alte cariche civili ed ecclesiastiche. Nello Specchio, Margherita mette in scena un dialogo tra personaggi allegorici, com'è tradizione della letteratura cortese: Anima, Dama Amore, Cortesia, Intendimento d'Amore, si confrontano con Ragione, Intendimento di Ragione e con le Virtù. Il Fine Amour, l'amore idealizzato dei trovatori, conduce qui, nella sua trasposizione spirituale, a Dama Amore che rappresenta l'essenza di Dio. L'Anima deve lasciar perdere le norme esteriori dell'obbedienza che prima aveva osservato in maniera scrupolosa. L'Anima è interamente passiva e dipende dalla volontà divina che opera in lei senza di lei, cioè senza che l'Anima prenda alcuna iniziativa. Margherita, in largo anticipo sui tempi, intende che ci si salva con la fede senza le opere; questo è uno dei grandi temi della mistica renano-fiamminga, il tema del patire Dio. Anima e Amore tentano di convincere Ragione. Ma Ragione, stupita e scioccata, non regge a quelli che considera paradossi, e muore. La morte della Ragione lascia spazio ad una più profonda comprensione di Dio. L'Anima intanto abbandona le Virtù, e si innalza al di sopra di esse nella "sovrana libertà dell'Amore". L'ultimo, decisivo processo a carico di Margherita Porete fu istituito dall'Inquisitore generale del Regno di Francia, il famigerato domenicano Maestro Guglielmo di Parigi che era anche il confessore di Filippo il Bello, ed aveva presieduto in modo sinistro il clamoroso processo per eresia contro i Templari. Peter Dronke ha scritto sullo Specchio: "I passaggi lirici e quasi drammatici si integrano bene con l'insieme della composizione; una tensione drammatica spontanea può nascere dagli scambi e dai conflitti tra le proiezioni che Margherita fa delle forze interiori e delle forze celesti e tra questi è Dama Amore che dirige". Il cavaliere, simbolo dell'anima affrancata, abbandona tutto per seguire Dama Amore. Non si aspetta nessuna ricompensa, soltanto quello che Dama Amore gli donerà spontaneamente, cioè l'amore cortese. Tre chierici coltissimi - forse sollecitati dalla stessa Margherita - diedero un giudizio favorevole sullo Specchio che contrastava con la condanna pronunciata dai teologi dell'Università di Parigi . Si trattava di Giovanni, un frate minore; Franco, un cistercense dell'abbazia di Villers in Brabante; il famoso teologo Goffredo de Fontaines, originario delle Fiandre, ex rettore dell'Università di Parigi. E cioè: un rappresentante della tradizione monastica; un rappresentante dei movimenti spirituali più avanzati dell'epoca; un rappresentante della scuola teologica ufficiale e del clero secolare). Il cistercense apprezzò il libro senza riserve; Goffredo ed il francese manifestarono profonda ammirazione, ma avvertirono che il libro doveva essere mostrato a persone preparate, in caso contrario poteva essere pericoloso. Nella letteratura dei trovatori in lingua d'oc, Fin Amour è il frutto della fedeltà e del coraggio dimostrate dall'amante nelle prove che la Dama gli ha imposto: la sua caratteristica è la Gioia, entusiasmo conquistatore ed allo stesso tempo un sentimento legato al possesso completo dell'oggetto amato. Nello Specchio - ma non è l'unico esempio - c'è la versione spiritualizzata ed interiorizzata di questi temi. Un sacerdote si schierò dalla parte di Margherita. Guiard de Cressonessart, per aver aiutato e difeso Margherita, fu arrestato a Parigi nel 1308, per ordine dell'Inquisitore Guglielmo. Anche Guiard rifiutò, per un anno e mezzo - era il lasso di tempo legalmente accordato agli accusati affinché avessero modo di pentirsi e riflettere - di presentarsi davanti al tribunale ecclesiastico. Nel marzo del 1310, Guglielmo riunì un'assemblea di teologi e canonisti della facoltà di Parigi per deliberare sui due casi. Margherita e Guiard furono dichiarati colpevoli di eresia, e - ammenoché non abiurassero - sarebbero stati consegnati presto al braccio secolare perché eseguisse la condanna. Guiard abiurò e fu condannato alla sola detenzione a vita, mentre Margherita non ne volle sapere. L'Inquisitore Guglielmo riunì in Assemblea solenne i teologi più illustri dell'Università di Parigi. Lo Specchio e la sua autrice furono condannati. Il non volere è la chiave del non avere e del non sapere, del non pensare nulla nel Lontano-Vicino. Al di sopra della conoscenza razionale come del desiderio egoista, bisogna compiere un cammino lunghissimo per arrivare dal Paese delle Virtù - dove restano i marris - a quello dei dimenticati, dei nudi, degli annientati o dei glorificati, che si trovano nello stadio più alto, là dove Dio non è "conosciuto, né amato, né lodato da queste creature se non per il fatto che non si può conoscerlo, né amarlo né lodarlo. Ciò è la somma di tutto il loro amore e l'ultima tappa del loro cammino" Le persecuzioni giudiziarie dell'Inquisizione non si placarono con la morte di Margherita. Lo Specchio si diffuse nell'Europa del XIV e XV secolo. Superò le barriere geografiche, linguistiche e temporali, come non era successo a nessun altro scritto mistico medievale in lingua volgare. Sono pervenute versioni dello Specchio in francese antico, inglese medio, perfino in latino - si tramanda che Margherita avesse tradotto la Bibbia in volgare, era coltissima e forse collaborò lei stessa alla traduzione in latino del suo libro. A Vienne, nel Delfinato, nel 1311/12 si svolgerà il famoso concilio che condannerà la mistica nordica, specialmente quella di Meister Eckhart e dello Specchio: Margherita Porete e Meister Eckart saranno erroneamente indicati come appartenenti alla setta eretica del Libero Spirito. Il concilio di Vienne darà allo Specchio la patente definitiva di opera eretica, regolarmente confiscata da tutte le Inquisizioni d'Europa, fino al Rinascimento. Questo non gli impedì di godere di un grande successo, ma allo stesso tempo fu esiguo il numero dei manoscritti che scamparono alle confische. E' sicuro che fu un'opera di grande successo, che suscitò enorme scalpore, sia durante la vita dell'autrice, sia dopo - basti pensare all'impressionante spettacolarizzazione del suo processo, al quale parteciparono tutte le menti più eccelse della Sorbona. Notevoli furono gli sforzi dell'Inquisizione per fermare la circolazione del libro. Lo Specchio è il libro-fantasma le cui tracce si possono trovare in prestigiosi testi della letteratura spirituale successiva. Ma è nel Nord Italia, dove lo Specchio circolò nella versione latina ed in italiano, soprattutto nella prima metà del XV secolo, che creò maggiore scompiglio - questa però è un'altra storia. Per raggiungere lo stadio di perfezione bisogna seguire la Ragione e la Virtù e nutrirle - "consiglia" Margherita - "fino ad ingozzarsi": solo dopo si potrà dire, insieme ad Agostino, "ama e fa ciò che vuoi". Invita a superare il sapere dogmatico che lei conosceva benissimo - non a caso, in alcuni manoscritti, è chiamata "beghina sacerdotessa". San Bernardino da Siena si scaglia contro lo Specchio nei sermoni che tiene tra il 1417 e il 1437; a Padova, nel 1433 i benedettini bandiscono il libro dai loro conventi; i gesuiti di Venezia, accusati di aver fatto dello Specchio la loro lettura prediletta e di simpatizzare con l'eresia del Libero Spirito, sono dichiarati innocenti dai due inquirenti inviati nel 1437 da papa Eugenio IV, mentre l'Inquisizione agisce a Padova. La questione di Venezia in seguito si ritorce contro il papa che, deposto, viene accusato di essere favorevole allo Specchio. Ad accusarlo è Maestro Giacomo, probabilmente l'inquisitore padovano che aveva scritto sullo Specchio "numerose esecrazioni e riprovazioni". Giacomo parlò al concilio di Basilea, nel 1439, dei trenta capitoli dello Specchio giudicati eretici dai padri del concilio e chiese il rogo per i 36 esemplari posseduti, secondo lui, dalla commissione che aveva esaminato il libro di Margherita. Non si sa se le 36 copie siano state davvero bruciate). Bisogna passare attraverso tutte le Virtù prima di poterle superare. L'Anima, quando si trova nello stadio di "cieca vita annientata", fatta di distacco, morte dello spirito, aspira ad una capacità di comprensione alla quale non possono arrivare né Ragione, né Filosofia e neppure la Teologia. Vi si arriva in un istante o moment d'heure, grazie al balenìo del Lontano-Vicino, uno degli stadi più alti di perfezione, quello di "vita annientata illuminata". Perciò non si può speculare sull'Essere, lo si sperimenta in un patire: il meno dell'Anima lascia spazio al più di Dio, cioè alla trascendenza dell'essere increato. A questo punto il pensiero non ha più nessun potere sull'Anima, il suo pellegrinaggio si è compiuto, così il suo potere le viene reso, dal momento che non ne farà più un uso egoistico. L'Anima è arrivata nel punto più alto, l'Anima si allieta di non poter mai affermare tutta la ricchezza del suo amante. E' questo il tema della beata ignoranza, uno dei grandi temi della mistica fiammingo-renana. Nel 1473 l'eresia dei "sostenitori dell'anima semplice" è denunciata dal francescano Pacifico di Novara. In Francia Jean de Gerson, cancelliere dell'università di Parigi dal 1395 al 1425, ebbe fra le mani un libro sull'Amore di Dio scritto da una certa Marie di Valenciennes. Valenciennes è la città di Margherita: qui il suo libro fu bruciato per la prima volta. La descrizione dell'opera fatta da Gerson ha indotto i critici a pensare che si trattasse dello Specchio; il nome Marie poteva essere un errore del copista. Gerson riconosce che si tratta di un libro di incredibile acume, e mette in guardia contro di esso. Ma un secolo più tardi il libro sarà difeso e ammirato da Margherita di Navarra, sorella di Francesco I, in rapporti di amicizia con il convento della Madeleine, di Orleans, da cui proviene la sola copia accessibile della versione originale dello Specchio in francese antico, che si trova attualmente a Chantilly. Margherita di Navarra, la regina poetessa, nelle sue Prigioni afferma che lo Specchio delle anime semplici è fra i libri più affini alla Sacra Bibbia: "Ma fra tutti uno (libro, ndr) ne vidi di una donna/ che cento anni scritto e ricolmo di fiamme/di carità sì tanto ardentemente/ che nient'altro che amore era il suo dire/inizio e fine di tutto il suo parlare. La verità spirituale che l'autrice dello Specchio vuole far conoscere, se verrà capita, aiuterà l'Anima a diventare semplice. Così, mostrando i vari stadi del cammino dell'Anima, si arriva alla comprensione del tema centrale del libro: l'affrancamento dell'anima, che si ottiene annientandosi in Dio attraverso l'amore, arrivando perfino a trasformarsi in Dio. Margherita non ha contrastato il dogma. Spesso si muove nella tradizione dei Padri della Chiesa. Perché allora l'Inquisizione la condannò? Per la sua indifferenza nei confronti delle pratiche e degli avvenimenti esteriori - l'anima affrancata non desidera né rifugge messe e sermoni. Non si cura né del Paradiso né dell'Inferno, perché il Paradiso non è altro che "vedere Dio". La Chiesa avvertì un grande pericolo in Margherita e nella sua mistica: teorizzava e sperimentava - espressa per di più in lingua volgare - l'essenziale libertà dell'anima che abbandona le virtù e non è più al loro servizio, visto che l'anima non le pratica più. Ecco perché gli Inquisitori bruciarono Margherita ed il suo libro. Nello Specchio Margherita distingue tra le anime interessate e quelle che chiedono Fine Amour. Disprezza le anime interessate; per lei sono asini, montoni, "cercatori di paradisi terrestri": "Se si salvano è in modo assai poco cortese"… Ma quelli che chiama villani di cuore, mercanti, piccoli spiriti, non hanno connotazione sociale. Villani possono essere il clero dell'Università di Parigi che la condannò, o gli ordini religiosi che la disconobbero e perfino le stesse beghine che non la compresero. Perché Margherita Porete era anche un grande spirito polemico: "Coloro che non hanno nulla da nascondere non hanno nulla da mostrare". La sua coerenza fa coincidere la sua vita con i suoi scritti: ecco perché rifiuta di comparire davanti al tribunale ecclesiastico e di ritrattare per evitare il rogo. Questo scrupolo di coscienza l'ha portata anche a spiegare una contraddizione presente negli autori mistici: dicono che non si può dire e conoscere nulla di Dio, eppure scrivono a profusione sull'argomento. Margherita spiega semplicemente che scrisse il suo Specchio per una necessità provata prima della liberazione della sua anima, quando faceva ancora parte dei marris, quando "vivevo di latte e pappa ed ero sciocca". Ci congediamo da Margherita Porete e dal suo Specchio con le parole del teologo Longchamp sul tema medievale dello specchio: "Lo specchio rinvia la sua immagine all'uomo che vi si guarda; lo specchio evoca anche la conoscenza di sé, con l'idea di una purificazione, di un'assimilazione a un ideale morale. D'altra parte, il latino speculum designa in senso lato ogni pittura o rappresentazione; significa quindi quadro, ritratto, se non addirittura descrizione. Lo specchio diventa così strumento di conoscenza, ed è latore di un insegnamento, sia di tipo puramente informativo sia normativo. Questo senso lato del termine ha dato luogo, durante il Medioevo ed oltre, ad un'abbondante serie di Specula. tratto da:"iceblues" Taliesin, il bardo
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MARY AHMILTON: LA MADRE DI BIANCO VESTITA.
La ricerca della Mary Hamilton storica si è rivelata appassionante, ma non ha portato ad alcun risultato concreto. Esisteva in effetti un gruppo di ancelle di Maria Stuarda, chiamato popolarmente "Le quattro Marie", ma non ne faceva parte alcuna Mary Hamilton. Il suo delitto ed il suo castigo, tuttavia, sembrano ricalcare uno scandalo avvenuto durante il regno di Maria Stuarda, che coinvolse una servitrice francese giustiziata per aver ucciso suo figlio appena nato. Non fu Darnley, il principe consorte (ovvero "il più nobile di tutti gli Stuart"), bensì il farmacista di corte (ovvero il capo della servitù) ad essere complice della francese, sia nell'amore che nel crimine. Il fatto accadde nel 1563. Nel 1719 una bella damigella d'onore alla corte di Pietro il Grande, scozzese di nascita e chiamata appunto Mary Hamilton, fu decapitata per infanticidio. Altre circostanze di questo fatto, oltre al nome, si rispecchiano nella ballata: ad esempio, la ragazza si rifiutò di salire sul patibolo vestita in modo sobrio. Il suo amante, poi, era anch'egli un nobile cortigiano. Saremmo tentati di considerare la ballata nient'altro che una rielaborazione degli avvenimenti russi del 1719, se non fosse per il non trascurabile fatto che essa era già stata udita in Scozia ben prima di quell'anno. Tale versione attribuiva probabilmente il delitto alla servitrice francese ad una delle "quattro Marie"; forse qui può aver giocato anche il fatto che, in Scozia, il termine mary indica genericamente una servitrice o una dama di compagnia. In effetti, esiste una versione di Mary Hamilton (Child, IV, 509) in cui la ragazza è chiamata semplicemente Marie ed il suo amante è un "erborista", ovvero il farmacista di corte degli annali criminali. Verosimilmente, le notizie provenienti da San Pietroburgo e l'intrepido comportamento dell'autentica Mary Hamilton sul patibolo della lontana Russia "catturarono" talmente l'immaginazione degli scozzesi, che l'antica ballata fu rimessa in auge ed adattata alla nuova eroina. Il "Ballad Book" di Cecil K. Sharpe (1823, p. 18) contiene il testo che qui presentiamo. Una versione più tarda della ballata, consistente nel solo "ultimo discorso" sul patibolo, è una delle più note "Last Goodnight Ballads". L'aria autentica è stata conservata da Greig, p. 109, ed è stata naturalmente utilizzata da Joan Baez per la sua versione (in The Joan Baez Ballad Book, II) nonché ripresa da Angelo Branduardi per il suo adattamento italiano intitolato "Ninna Nanna", nella quale però il nome della protagonista non è volutamente menzionato. MARY HAMILTON La voce è passata in cucina, La voce è passata in sala Che Mary Hamilton aspetta un figlio Dal più nobile degli Stuart. L'ha corteggiata in cucina, L'ha corteggiata in sala; Ma poi l'ha corteggiata in cantina Ed è la peggior cosa di tutte! L'ha avvolto nel suo grembiule E poi l'ha gettato in mare Dicendo, "Nuota o annega, bel bambino! Di me non saprai più niente." Allora scese la Regina Madre Con l'oro intrecciato nei capelli: "Mary, dov'è il bel bambino Che ho udito pianger così forte?" "Non c'era nessun bimbo nella stanza, E non ce ne saranno mai; Era solo un dolore al fianco Che ha colpito il mio bel corpo." "Mary, mettiti il vestito nero Oppure il vestito marrone; Stasera dobbiamo andare A visitar la bella Edimburgo." "Non mi metterò il vestito nero E neanche quello marrone; Mi metterò il vestito bianco Per esser splendida a Edimburgo." Quando salì sul Cannogate Rise forte tre volte, Ma quando scese dal Cannogate Le si empiron gli occhi di pianto. Quando salì lo scalone del Parlamento La scarpa le uscì dal calcagno; E quando ne ridiscese Fu condannata a morte. Quando scese del Cannogate, Il Cannogate così vivace, Molte dame guardavano alla sua finestra In lacrime per quella signora. "Non piangete per me", disse, "Non dovete piangere per me; Se non avessi ucciso il mio bel bambino Non sarei dovuta morire così. "Portatemi una bottiglia di vino", disse, "La migliore bottiglia che avete, Per bere alla salute dei miei carnefici E perché loro possan bere alla mia. "Un brindisi per i bravi marinai Che navigano per l'oceano; Non dite a mio padre e a mia madre Che a casa io non tornerò. "Un brindisi per i bravi marinai Che navigano per l'oceano; Non dite a mio padre e a mia madre Che qua son venuta a morire. "Certo non pensava mia madre Quando mi dondolava nella culla Alle terre che avrei attraversato Ed alla morte che mi sarebbe toccata. "E certo non pensava mio padre Quando mi prendeva in collo Alle terre che avrei attraversato Ed alla morte che mi sarebbe toccata. "Ieri sera lavavo i piedi alla Regina, E dolcemente la mettevo a letto; E la ricompensa che ne ho avuto stasera È d'essere impiccata a Edimburgo! "Ieri sera c'erano quattro Mary, Stasera non ce ne saranno che tre; C'era Mary Seton e Mary Beton, E Mary Carmichael, ed io." p.s. dedicato ad una bianca tomba di un camposanto di campagna su cui una dolce Maodnna d'estate posò la sua emozione. Taliesin, il Bardo
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