10-02-2014, 21.38.02 | #181 |
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Amato Bardo.......Ipazia e' una Danna di scienza......che e' spesso citata nel mondo femminile.......crudele la sua morte per mano dell'ignoranza....
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13-03-2014, 11.58.09 | #182 |
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IL TESORO DI BOLSENA: AMALASUNTA DA RAVENNA
Amalasunta, in gotico Amalaswintha, nacque a Ravenna, tra il 495 e il 500, da Teodorico e dalla franca Audofleda o Audefleda, figlia del re Clodoveo I. Alla morte del re Teodorico, nel 526, il figlio di Amalasunta, Atalarico, succedette al trono del regno ostrogoto in Italia, con a fianco la madre come reggente. Amalasunta viene descritta da Procopio e Cassiodoro, suo magister officiorum, come una donna colta e raffinata, profonda conoscitrice della cultura romana e delle lingue latina e greca. Seguendo la politica di pace di suo padre Teodorico, perseguì buoni rapporti tra Goti, Romani e Bizantini, restituendo i beni già confiscati ai figli di Boezio e di Simmaco, e favorendo la nomina di elementi moderati alle maggiori cariche dello Stato. Sorsero tuttavia conflitti con una parte della nobiltà ostrogota, che riuscì a sottrarle la cura dell'educazione del figlio, allo scopo di farne un futuro re che potesse governare secondo le tradizioni degli antenati. Alla morte del figlio, avvenuta il 2 ottobre 534, Amalasunta divenne regina a tutti gli effetti, associando al trono il cugino Teodato, influente duca di Tuscia, con l'intento di rafforzare la propria posizione. Negli auspici di Amalasunta, Teodato avrebbe dovuto essere un elemento di equilibrio tra gli elementi intransigenti goti sul fronte interno e l'Impero d'Oriente sul fronte esterno. Avvenne invece che Teodato, forse con l’appoggio dell’imperatore Giustiniano, imprigionò la regina sull'isola Martana, nel lago di Bolsena, dove nel giugno 535 Amalasunta venne trovata strangolata. L'assassinio di Amalasunta diede il pretesto all’imperatore Giustiniano di intervenire in Italia ed ebbe così inizio la lunga guerra greco-gotica. Miti e leggende vivono ancora oggi su Amalasunta e sulla sua tragica fine: dal suo tesoro mai ritrovato, alla storia con il pescatore Martano, “Tomao”, che nottetempo andava a trovarla portandogli cibo ed amore. tratta da una storia informale del Lago di Bolsena Taliesin, il Bardo
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17-03-2014, 13.41.38 | #183 |
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LA CORTIGIANA DELLA POESIA: VERONICA FRANCO.
«Io sono tanta vaga, e con tanto mio diletto converso con coloro che sanno per avere occasione ancora d’imparare, che, se la mia fortuna il comportasse, io farei tutta la mia vita e spenderei tutto ‘l mio tempo dolcemente nell’academie degli uomini virtuosi…». (Lettere familiari a diversi, Venezia, 1580) Poetessa, sì. Ma prima di tutto cortigiana. Veronica Franco viene quindi estromessa dalla storia ufficiale. Eppure a Venezia, nel 1509, secondo i Diarii del cronista dell’epoca Marin Sanudo, c’erano 11.654 prostitute su una popolazione di circa 150mila persone. Il 10% circa della popolazione. Anche a Roma, nella città dei Papi, erano circa il 10%: 6.800 nel 1490 e 4.900 nel 1526. Le prostitute non erano solo numerose: erano anche molto visibili. E su di loro si accaniva non solo il disprezzo pubblico, ma anche la legge: tra Quattrocento e Cinquecento, la Serenissima e il Papa (a cominciare dal feroce san Pio V) emisero un numero impressionante di norme per regolare, contenere, sfruttare, punire, utilizzare la prostituzione. Si diceva già all’epoca che, grazie alle tasse pagate dalle cortigiane, i Papi avessero messo a posto mezza Roma ed edificato quasi l’altra metà. Benché le misure riguardassero tutte le prostitute, il loro mondo era molto variegato. Veronica Franco, in particolare, fu un’intellettuale completa: scrittrice, musicista, curatrice di raccolte poetiche, saggista. Non fu un caso isolato, anzi. Ma la sua è una storia esemplare. Veronica nacque nella città lagunare, allora una potenza mondiale. Era l’unica figlia femmina di Paola e Francesco Franco e aveva tre fratelli, Jeronimo, Horatio e Serafino. Questo le permise di condividere la loro educazione e di partecipare alle loro lezioni private. All’epoca, non si usava andare a scuola: la frequentavano soltanto il 4% delle ragazze e il 26% dei ragazzi, secondo dati del 1587. L’educazione dei ragazzi, laddove era prevista, era affidata a insegnanti privati, e soltanto il 10-12% delle donne sapeva leggere e scrivere. Veronica raggiunse un ottimo livello culturale: segno che dovette continuare a studiare per proprio conto e far tesoro di tutto quello che apprese nei circoli culturali veneziani nei quali fu ammessa. A cominciare da quello, importantissimo, di Domenico Venier, suo pigmalione e mecenate. La famiglia di Veronica apparteneva alla classe dei “cittadini originari”, un livello sociale a metà strada tra i nobili e il popolo. Ma lei faceva la cortigiana: era il mestiere della madre ed era stata istruita da lei. Non era una prostituta qualsiasi: in teoria aveva una clientela selezionata. Eppure, nelle sue Lettere, nel rispondere a una madre che intendeva avviare la figlia alla prostituzione, scrisse: «S’ella diventasse femina del mondo, voi diventereste sua messaggiera col mondo e sareste da punir acerbamente, dove forse il fallo di lei sarebbe non del tutto incapace di scusa, fondata sopra le vostre colpe». Il che fa pensare che nutrisse rancore verso sua madre: si cominciava da bambine a prostituirsi e non doveva essere una bella esperienza. Secondo la prassi, Veronica fu data in sposa, quasi adolescente, a un medico, Paolo Panizza. Si separò da lui a 18 anni, quando partorì il figlio avuto da Iacomo o Giacomo di Baballi, il più ricco mercante di Ragusa, oggi Dubrovnik. Sappiamo della separazione perché nel primo testamento, che le donne usavano fare prima del parto, chiese alla madre di riprendersi la dote. I clienti di Veronica erano nobili, prelati, intellettuali e artisti. Nel 1574 vi si aggiunse Enrico di Valois, che dalla Polonia, di cui era re, stava andando a Parigi, per salire sul trono di Francia con il nome di Enrico III. La Serenissima lo accolse con 11 giorni di festeggiamenti, organizzati da artisti come Andrea Palladio, Andrea Gabrieli, Paolo Veronese e il Tintoretto. La Franco non fu soltanto il “regalo” di una notte offerto dalla Repubblica a un prezioso alleato, ma anche, visto il suo acceso nazionalismo, una spia virtuale: le cortigiane potevano approfittare dell’intimità per carpire segreti di Stato a clienti e stranieri di passaggio. Benché Veronica Franco non si sia quasi mai mossa dalla sua città, se non per un pellegrinaggio a Roma, in occasione del Giubileo del 1575, e per qualche viaggio di “affari” in Veneto, la sua vita è stata ricca di eventi e colpi di scena. In particolare: la sfida con Maffio Venier; il processo davanti all’Inquisizione e la proposta di aprire un istituto per le ex-prostitute. La sfida con Venier è piuttosto singolare. Venier, poeta vernacolare di antica e potente famiglia, ma uomo inquieto e impulsivo, insultò Veronica in alcuni versi anonimi. La accusò di essere marcia di sifilide - in realtà fu lui a morirne nel 1586. In principio Veronica pensò che l’insulto venisse dal cugino di Maffio, Marco, il suo più celebre (e celebrato) amante che poi sarebbe diventato bailo, ossia ambasciatore, di Venezia a Costantinopoli. Scoperto il vero autore dei versi ingiuriosi Veronica lo sfidò prima a un duello d’armi e poi in una gara di versi. Maffio non accettò la sfida e quindi a noi rimane solo il ritratto di un uomo di sorprendente volgarità (Veronica attribuiva il suo odio per le donne all’omosessualità), che invece la critica letteraria continua a esaltare come grande poeta. Nel processo davanti all’Inquisizione, che si aprì nell’ottobre del 1580, Veronica fu accusata dalla servitù, che forse cercava così di coprire alcuni furti, di praticare la stregoneria, di mangiare pollastri, uova e formaggi nei giorni di magro e di tenere una bisca in casa. Accuse così potevano condurre al patibolo. Veronica si difese da sola e fu assolta. Noi conserviamo gli atti del processo che oggi ci appaiono invece come un’accusa contro una società misogina e bigotta, che non considerava né peccato né reato, per esempio, che Maffio Venier si comprasse la carica di vescovo di Corfù e la sfruttasse per arricchirsi, o che Marco Venier fosse incaricato di uccidere un presunto traditore della Serenissima, senza sottoporlo a giudizio. Né che i nobili struprassero in gruppo le cortigiane. Ma trovava meritevole di morte una donna che mangiasse carne di venerdì. Quanto alla fondazione di un Ospizio del soccorso per ex prostitute, Veronica avrebbe voluto utilizzare parte dei patrimoni delle cortigiane più ricche, morte senza fare testamento, soprattutto durante la grande peste del 1575-76. L’ospizio di Veronica non si fece. Se ne crearono altri in cui le ex cortigiane furono di fatto recluse: per “salvarle” occorreva punirle. Ripescata dalla critica letteraria da oltre un secolo e apprezzata da Benedetto Croce, Veronica Franco sconta però ancora una condanna all’oblio che cancella non soltanto i suoi meriti artistici. Ma anche le sue moderne intuizioni: per esempio Veronica rivendicava la dignità di qualsiasi persona, perfino di chi vende il proprio corpo. «La vergogna - diceva - è nell’alterigia di chi compra». Taliesin, il Bardo tratto da www.enciclopediadelledonne.it
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17-03-2014, 16.50.34 | #184 |
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LA MUSA DEL RINASCIMENTO FIORENTINO: GINEVRA DE' BENCI.
Figlia di Amerigo, nacque nell'agosto 1457 e andò sposa giovanissima nel 1474, quando il padre era già morto, a Luigi di Bernardo Niccolini, di quindici anni più anziano di lei, portando in dote 1400 fiorini. Risulta da un protocollo del notaio Simone Grazzini da Staggia che il contratto nuziale fu stipulato a Firenze il 15 gennaio 1473: ma questa data, che segue lo stile fiorentino dell'incarnazione, corrisponde in realtà al 1474 (Camesecchi, p. 283): non è quindi la B. la "donna" di Luigi Niccolini morta il 17 agosto 1473, bensì la prima moglie di lui. Cade così la tesi del Ridolfi (p. 455) contraria all'identificazione dei ritratti di Ginevra eseguiti, secondo il Vasari, da Leonardo e dal Ghirlandaio. Luigi Niccolini, nel 1478 priore e nel 1480 gonfaloniere, aveva ricevuto in eredità dal padre nel 1470, insieme con i fratelli, una drapperia (Möller, p. 198); nel 1480 egli lamentava - ma è probabile che la dichiarazione sia senza valore specifico, dato che si tratta di una denuncia al Catasto - le sue cattive condizioni economiche, ricordando anche le spese che doveva sostenere per la moglie inferma. Egli, nel testamento del 31 marzo 15o5, scritto poco prima della morte, dava ordine che venisse restituita alla moglie la dote, clausola non eseguita, se non in minima parte con un'ipoteca sulla drapperia. Della questione si ha ancora notizia fino al 1521, anno in cui Ginevra era morta (Möller, p. 199). Una fonte ampia ed eloquente riguardo alla personalità di Ginevra è costituita da una lettera (ed. Carnesecchi, pp. 293-296), scritta da Roma in data 12 agosto 149o da un suonatore di viola che si sottoscrive "G. + H."; egli, che aveva conosciuto Ginevra molti anni prima a Firenze e che aveva mantenuto con lei una quasi regolare corrispondenza, racconta che in una conversazione con un gruppo di nobili dame, intorno a "quello che fa amare una donna", aveva portato ad esempio delle virtuose donne fiorentine proprio Ginevra, fra la generale approvazione. Ella era quindi ancora molto nota e apprezzata negli ambienti culturali e altolocati, non soltanto di Firenze, ma anche di Roma; era, oltre che bella ed attraente, notevolmente istruita, amante della musica e della poesia. Che fosse ella stessa autrice di versi, come alcuni vogliono ricavare da un passo della lettera, è dubbio; è più probabile che si faccia riferimento a versi scritti per lei (Carnesecchi, p. 286). Dalla lettera risulta che non aveva avuto figliuoli. "Alla Ginevra Benci" sono dedicati due sonetti di Lorenzo il Magnifico, "Segui, anima devota" e "Fuggendo Lot", che trattano entrambi il tema delle sue virtù. Il Möller mette la loro composizione in rapporto alla relazione di Lorenzo con Bartolomea Benci, moglie di Donato, zio di Ginevra, motivo di scandalo per tutta la città: il Magnifico avrebbe scritto i versi per calmare lo sdegno della virtuosa dama. Ginevra Benci fu inoltre cantata da Bernardo Bembo, al tempo della sua prima ambasceria a Firenze negli anni 1475-1476. Ella aveva allora solamente 18 anni ed era da poco tempo andata sposa a Luigi Niccolini; anche Bernardo Bembo era sposato (per la seconda volta) ed aveva condotto con sé a Firenze il figliolo Pietro, già adolescente. Ma il sentimento che legò Bernardo alla Ginevra era un tipico esempio di "amor platonico", come si legge nella dedicatoria di Cristoforo Landino alla Xandra e nelle elegie in Appendice dei suo Canzoniere, nonché nelle elegie di Alessandro Bracci, il quale dice di lei: "Pulchrior hac tota non cernitur urbe puella / altera nec maior ulla pudicitia" (Epistola IV, ed. A. Perosa). Una Ginevra Benci, detta la Bencina, compare anche in un aneddoto del Poliziano, da riferirsi al 1478, che la ricorda presente ai giochi di Piero di Lorenzo de' Medici: l'identificazione con la nostra Ginevra, negata dal Wesselski (p. XVIII), è sostenuta dal Möller (p. 200). Secondo questi dati, non vi sono ragioni ] "cronologiche" che contraddicano le notizie del Vasari a proposito dei ritratti eseguiti dal Ghirlandaio e da Leonardo. Del Ghirlandaio dice il Vasari (Vite, II, p. 116o) che riprodusse la B. nell'affresco della Visitazione della cappella del coro a S. Maria Novella: la sua figura non è oggi identificabileva tuttavia sottolineato che, poiché l'affresco fu eseguito dal Ghirlandaio intorno al 1488-90, è certamente inesatta la notizia del Vasari riguardo a una Ginevra "fanciulla". Quanto al ritratto di Leonardo, il Vasari (Vite, II, p. 16: "ritrasse la Ginevra d'Amerigo Benci, cosa bellissima") trae la notizia dall'Anonimo Gaddiano, che la riprende a sua volta da Antonio Billi: lo si è voluto identificare con il ritratto femminile della galleria Liechtenstein di Vienna per il quale non è certa né 11dentificazione del personaggio né la mano di Leonardo (per le diverse attribuzioni cfr. Möller, p. 209). Oltre che per l'identificazione dell'autore e del soggetto, anche per la datazione del quadro vi è discussione fra i critici: coloro che lo attribuiscono a Leonardo lo ritengono opera giovanile e lo considerano il ritratto di nozze di Ginevra, datandolo al 1474; il Castelfranco (p. 450) sposterebbe a più tardi la datazione; in questo caso Leonardo avrebbe dipinto Ginevra al tempo della sua lunga malattia negli anni 1478-1480. Si spiegherebbe in tale modo il "pathos" malinconico che si sprigiona da questo commovente ritratto. Taliesin, il Bardo tratto da: enciclopediatreccani
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17-03-2014, 16.54.26 | #185 |
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Ho letto con molto interesse la storia di questa donna..Veronica..di un mondo a me quasi vicino in fatto geografico.
Venezia..era una città particolare, a sè...io la vedo come una dama capricciosa, allegra apparentemente ma dall'animo triste.
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"Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte". E.A.Poe "Ci sono andata apposta nel bosco. Volevo incontrare il lupo per dirgli di stare attento agli esseri umani"...cit. "I am mine" - Eddie Vedder (Pearl Jam) "La mia Anima selvaggia, buia e raminga vola tra Antico e Moderno..tra Buio e Luce...pregando sulla Sacra Tomba immolo la mia vita a questo Angelo freddo aspettando la tua Redenzione come Immortale Cavaliere." Altea |
19-03-2014, 13.38.50 | #186 |
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Milady Altea...
La vostra sensibilità ha colto la sfumatura della tristezza racchiusa nello sguardo di Veronica. Una tristezza comune a molte "fortunate dame" che abitavano castelli ingioiellati. Giudicate voi stessa... Taliesin, il Bardo
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19-03-2014, 16.39.00 | #187 |
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STREGHE DELLE PAURE, ANIME DEL PARADISO: BISSAGA DI BRIANZA
Storia idealmente dedicata al moderno e antico pupazzo di fuoco della Giubiana, eterna rimembranza di coscienze e di paure stregate e mai assopite, nel calore di una famelicità di sangue di donna mai domo.. Attingendo al termine latino striga, ovvero uccello notturno o arpia, l'avvento del Cristianesimo battezzò, ricoprendolo di fango, un ruolo sociale fino ad allora altamente considerato, al punto che in età pagana si parlava genericamente di maghe o sibille dai grandi poteri profetici. Nell' Europa religiosa e post-classica si assitse così ad una graduale escalation persecutoria, che raggiunge il suo climax in età medievale. La fervida immaginazione delle società contadine, attizzata sapientemente dalla Chiesa, si lanciò spesso in voli pindarici, associando alla figura della strega i peggiori tabù e vizi che le si potessero attribuire: fosse essa una vecchia dall'aspetto ripugnante o una donna attraente, ciò che la rendeva un pericolo agli occhi della comunità era la forte predilezione per le arti occulte, unita all'estrema licenziosità dei costumi sessuali. Era credenza consolidata che al calar della sera, quando gli abitanti del villaggio si ritiravano nelle loro case, la strega uscisse di nascosto per partecipare ai sabba, eredi moderni degli antichi rituali dionisiaci, sul modello dei baccanali dell'Antica Roma. Nel caso specifico della diocesi di Como, fu la bolla papale Summis Desiderantes di Innocenzo VIII, seguita nel giro di tre anni dal Malleus Maleficarum (1487) dei due frati domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer, a inasprire i provvedimenti contro le eresie. Testo profondamente misogino e privo di qualsivoglia onestà intellettuale (al punto che si attibuisce al termine femina la falsa etimologia di fe + minus = meno fede), il Malleus argomentava la maggior propensione delle donne a cadere nelle trappole di Satana con una presunta inferiorità intellettiva e debolezza caratteriale. Nella seconda parte del trattato i frati tedeschi illustravano la casistica in base alla quale l'inquisitore doveva modulare i suoi provvedimenti, come si riconoscevano i segnali di stregoneria e quali tecniche di tortura dovevano essere adottate per ottenere una confessione. Scrive Giuseppe Arrigoni in «Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe», documentando il clima di terrore che si respirò negli ultimi decenni del XV secolo lombardo: «Contribuivano a rendere infelice quell'età le superstizioni religiose, avanzi delle credenze gentilesche. Era persuasione generale che il diavolo patteggiasse cogli uomini e singolarmente con vecchie brutte, sì che avessero sovrannaturale potere di far bene e male, si convertissero in gatti e in altri animali, menassero “danze col demonio”, calpestassero l'ostia consacrata, scavalcassero i monti e gissero per l'aria a sollazzo. Molti maliardi, lamie, sortilegi, indovini, negromanti, fattucchieri, prestigiatori, eretici e sospetti furon vittime della superstiziosa credulità , furon messi alla tortura e arsi al rogo. Le cagioni di quelle immanità e barbarie stanno principalmente nel fanatismo di quei tempi; ma in gran parte però le rimote cause motrici di tanti incomprensibili processi di maghe e di giurate testimonianze di diaboliche seduzioni non sono preanco venute in chiara luce istorica, né vi verranno se prima non si pubblichino gli atti di tali cause magiche». Il fanatismo dei frati domenicani d'Oltralpe si scatenò sensibilmente, come attestato nel Malleus stesso, nel Nord Italia, e in particolar modo nei territori di Como, Bergamo, Brescia, Cremona, la Val Camonica, la Valtellina e il Friuli. Il ramo lecchese invece, come conferma il testo «I nostri vecchi raccontano: storie, leggende e fiabe del territorio lecchese» di Felice Bassani e Luigi Erba, era utilizzato come punto di raccolta e smistamento delle streghe provenienti dall'alto Lario e dalla Valtellina. Nel XV secolo, nel giro di un mese, ben trecento donne furono imprigionate e, dopo un processo sommario, mandate a morte; fra queste quarantuno furono rastrellate in un'unica retata, compiuta nel 1486 sulle direttive di un inquisitore locale. Secondo la consuetudine germanica, prima di essere bruciate, le streghe comasco-lecchesi vennero rasate integralmente, anche nelle zone più intime del corpo, in quanto gli inquisitori più incalliti credevano che sotto le ascelle le vittime potessero nascondere una “stregoneria” che le tutelasse dalle fiamme. A tal proposito il crudelissimo Sprenger era solito far rasare a zero i capelli delle vittime e in seguito versare in una tazza di acqua santa una goccia di cera benedetta, da far bere alle stesse per tre volte e a digiuno, allo scopo di liberarle dal demonio. Dopo un periodo di relativa clemenza dell'Inquisizione, motivato dalla necessità dell'alto clero italico di far fronte a ben altri problemi, originati dalla Riforma protestante, nella seconda metà del XVI secolo l'accanimento contro la stregoneria riprese con una violenza inaudita, come documentano numerose testimonianze rinvenute nel lecchese. Nel testo di Silvia Battistelli «Leggende e storie brianzole» si accenna a come lo stesso Carlo Borromeo, nel 1567, fu coinvolto in una feroce caccia alle streghe in risposta alle ripetute invocazioni dei parroci della zona, che credevano davvero nelle capacità di queste donne di compiere malefici e che le incolpavano di alcuni delitti perpetrati ai danni di alcuni nobili della zona. Recita la lettera del prevosto Rattazzi, assai allarmato per la situazione ingestibile della sua parrocchia: «E una fu presa fra le altre che confessò senza nessun mortorio, che aveva uccisi venti fanciulli col succhiare il sangue loro e come trenta ne salvasse dando al diavolo un membro di bestia in luogo di quello dei fanciulli, dato che si conveniva portarne il membro al diavolo per sacrifizio. E più ancora confessò che ella aveva morto il suo proprio figliolo facendone polvere, che dava a mangiare per tali faccende. Disse pure del modo come ella andava innanzi dì, nel rione di Acquate, con certi bossoli di unguento fatti d'erbe, che erano colte il giorno di Santo Giovanni e de la Ascensione: fattone odorare al nobile Airoldi, questi subito morì». Carlo Borromeo intervenne spesso in modo rigoroso e intransigente non solo a Lecco ma anche in Valsassina, territorio tradizionalmente popolato da streghe e stregoni. Al di là di coloro che, pur non avendo commesso alcun delitto, ammisero le loro colpe e giurarono un profondo pentimento, le altre vennero condotte a Milano e lì giustiziate. La storia più famosa a livello locale è quella di una certa Bissaga, ovvero donna di biss (serpenti), originaria di Tartavalle in Valsassina: servendosi delle sue arti magiche, la donna aveva sedotto il signore del castello di Marmoro, una rocca difensiva situata nella piana di Parlasco. Frutto del loro amore furono un ragazzo, che venne riconosciuto dal padre e andò ad abitare con lui, e una ragazza, anch'essa strega, che invece restò nella casa della madre. I due fratelli si innamorarono l'uno dell'altra ma il matrimonio venne loro impedito; così, desiderosa di vendetta, la ragazza trasformò la strada in una bissera (si noti il gioco di parole) piena di tornanti, dalla quale il vecchio padre precipitò, finendo in uno strapiombo insieme al cavallo. Il Borromeo fece trascinare la Bissaga a Milano e la condannò a morire bruciata nella piazza XX settembre: il rogo fu accompagnato dall'ovazione popolare. Le persecuzioni contro le streghe, almeno parzialmente originate dalla necessità di tutelare la cultura dogmatica ufficiale della Chiesa, la quale non poteva ammettere la coesistenza di dottrine alternative basate su rituali magici, non furono tuttavia in grado di estirparle del tutto dall'immaginario popolare. Seppur in modalità differenti, questo culto sopravvive ancora sottoforma di folclore locale, soprattutto nelle zone di campagna. I territori che lo conservano più fedelmente in Italia sono il biellese, il canavese, il Trentino, il comasco, alcuni paesi della Liguria e delle Marche e, infine, la provincia di Benevento. La miglior rappresentazione nostrana delle streghe, quelle che popolavano le leggende e i racconti dialettali scambiati nelle serate d'inverno al tepore delle stalle, si trova nell'articolo pubblicato da Andrea Orlandi nel 1929 sulla rivista “All'ombra del Resegone”: «Per lo più erano donne vecchie, brutte, mal in arnese, dagli sguardi e dalle mosse sospette. La maga poteva nuocere in più modi: se avesse lanciata una sentenza contro qualcuno, a quel tale incoglierebbe sventura; perché la strega si rivelasse, bastava gettare un quattrino della croce nella pila dell'acqua santa: la mala femmina si sarebbe aggirata perplessa e inquieta pel tempio, non trovando più il verso d'uscire; ma chi avesse tentata quella sorte, incorreva in molti pericoli e nelle stesse pene canoniche: ond'era preferibile astenersene. Volete conoscere chi ha malefiziato il vostro bambino? Mettete i panni dell'infelice in un paiolo, e questo a bollire: vi comparirà la colpevole; vi sarà facile punirla e imporre a lei che sperda il sortilegio; senonché l'evocazione può causare inconvenienti gravi; e la si è sempre sconsigliata». Strettamente legata alle terre brianzole e canturine è la figura leggendaria della Giubiana (o Gibiana), rappresentata, in tutti i racconti popolari trasmessi oralmente di generazione in generazione, come «una donna vecchia, molto grande, vestita di bianco, che faceva passi lunghissimi». Amante delle passeggiate nei boschi, questa befana sui generis «metteva un piede su un sasso ed un altro molto più lontano, oltre le stalle»; essa appariva nella nebbia fitta e spaventava a morte i bambini del posto. In realtà, tradizionalmente non si trattava di una strega. Ottorina Perna Bozzi precisa in «Brianza in cucina» che il termine Giubiana deriva dall'espressione brianzola Giubbiana, che significa allo stesso tempo “fantasma” e “giovedì”. Vi è dunque ragione di ritenere veritiere le ipotesi di quegli studiosi del folclore locale che videro nella festa della Giubiana la celebrazione delle donne non più giovani, che si teneva l'ultimo giovedì del mese di gennaio, in concomitanza con i giorni della merla. In quell'occasione le donne si radunavano tutte insieme, rallegrandosi per la conclusione della stagione della semina e la Giubiana, il fantasma femminile sottoforma di fantoccio, veniva bruciato sul rogo. Naturalmente, ben chiara è l'allusione ai roghi in cui persero la vita tantissime donne in carne e ossa, nel Medioevo così come in pieno Rinascimento; tuttavia è diffcile ricostruire un nesso causale e soprattutto capire in quale periodo storico la Giubiana si trasformò in strega. E' ben noto che nel mondo della Brianza pre-industrializzata il calendario veniva plasmato sui ritmi della vita contadina, che di anno in anno scorreva ciclicamente, alternando a periodi di massimo impegno della famiglia patriarcale qualche momento di riposo, necessario per rinfrancare gli animi. Bruciare il fantoccio della Giubiana aveva dunque un significato propiziatorio e permetteva di esorcizzare le sventure dell'anno appena trascorso. Il calore del fuoco si portava via la strega vecchia e brutta, simbolo dell'inverno che volgeva al termine; in base a come la Giubiana bruciava, le comunità ne traevano buoni o cattivi auspici. Attualmente, la festa della Giubiana viene celebrata in parecchi Comuni dell'Alta Brianza e del comasco, ma una delle ricostruzioni più fedeli alla tradizione è quella di Canzo, dove l'ultimo giovedì di gennaio di ogni anno la strega viene trascinata in corteo per le vie del centro storico, accompagnata da una scia di fiaccole e da una serie di personaggi allegorici: il pastore che suona il corno; il boscaiolo con gli attrezzi del mestiere; il carretto con l'asino, sul quale il boia custodisce la Giubiana prigioniera; Barbanera con i biglietti della lotteria; l’Uomo selvatico, antichissimo simbolo della cultura alpina che vive in armonia con il bosco e che conosce i segreti della natura;l'avvocato delle cause perse e i testimoni del processo; i bambini dal viso colorato di bianco e nero, a simboleggiare il bene e il male; l’Anguana, misteriosa fata benefica, simbolo dell'acqua come elemento vitale femminile; l'orso che esce dalla tana, simbolo della forza istintiva dei cicli della natura che non può essere domata. Al termine della fiaccolata, la Giubiana viene portata nella piazza del mercato dove subisce il processo, rigorosamente in dialetto canzese. Salvo colpi di scena, la sentenza è sempre la stessa: una riconosciuta colpevolezza che viene espiata sul rogo, sotto gli occhi di tutto il paese. Taliesin, il Bardo tratto da: www.leccoprovincia.it
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28-05-2014, 12.25.50 | #188 |
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CATERINA SFORZA: LA DAMA DEI GELSOMINI.
Anche se la Romagna non le diede i natali (nacque infatti a Milano nel 1463), Caterina Sforzaè storicamente considerata una delle figure femminili più importanti di quella tella erra, tanto da essere stata definita “la grande signora della Romagna”. Di forza d’animo non comune, astuta e scaltra, seppe condurre le sue battaglie con determinazione e spirito vendicativo. Bella, intelligente, energica, fu una delle donne più note e ammirate del suo tempo. Figlia illegittima di Galeazzo Maria Sforza e di Lucrezia Mandriani, nel 1472 il padre la diede in moglie a Girolamo Riario, nipote (o forse figlio) del Papa Sisto IV e signore di Imola, successivamente anche signore di Forlì. Alla morte di Sisto IV, Caterina si impadronì in Roma di Castel Sant'Angelo. Il 14 aprile del 1488 Girolamo Riario venne ucciso a Forlì da un complotto popolare; Caterina, con astuzia, forza e spregiudicatezza sconfisse i cospiratori ed il 30 aprile di quell’anno iniziò il suo governo in quanto reggente per il figlio Ottaviano, ancora piccolo. Sposò clandestinamente Iacopo Feo, castellano di Ravaldino, ed acquisì un ruolo di grande rilievo nella politica italiana al momento della caduta di Carlo VIII, appoggiando gli aragonesi in un primo momento, e successivamente i francesi. Nel 1495 Iacopo Feo venne ucciso crudelmente e Caterina, dopo averlo vendicato, sposò in segreto Giovanni de’ Medici. Dal matrimonio con il De' Medici nacque Giovanni, noto in seguito come Giovanni dalle Bande Nere. Intanto Cesare Borgia, detto il Valentino, figlio di Papa Alessandro VI, portava avanti il suo intento di costruire un proprio ducato in Romagna e, nel novembre del 1499, assediò Imola. L’11 dicembre cadde la rocca, inutilmente difesa da Dionigi di Naldi. Alcuni giorni dopo il Valentino entrò in Forlì con un esercito di 15 mila uomini. Caterina, invece di fuggire, si richiuse nella rocca di Ravaldino e oppose una dura resistenza dirigendo personalmente i difensori. Di fronte alle forze prevalenti, il 12 gennaio del 1500 cadde anche la rocca di Forlì, Caterina fu fatta prigioniera da Cesare Borgia e rinchiusa in Castel Sant’Angelo, dove subì torture e umiliazioni. Il 30 giugno del 1501 Caterina fu liberata e visse gli ultimi anni della sua vita a Firenze con il figlio Giovanni. Provò, senza risultato, a recuperare la signoria e morì il 28 maggio 1509. Caterina Sforza fu una figura di grande rilievo nella società del suo tempo, valorosa combattente, dalla personalità eclettica e sanguigna, virago e demonio femminile, esperta in alchimie erboristiche, (scrisse anche un trattato su questo argomento contenente oltre 500 procedimenti vari, dai cosmetici ai veleni mortali), violenta e risoluta con i nemici. Memorabile è rimasta la distruzione di Palazzo Orsi a seguito dell'uccisione del suo amato, o l'aneddoto che la ricorda sulla cortina di Schiavonia, assediata dai faentini che minacciavano di ucciderne il figlio, proseguire incurante il suo tentativo di riconquista del potere, alzando la gonna e indicando la sua vulva quale "strumento per fare altri figli”. A lei è dedicata una ballata del XVI secolo, attribuita a Marsilio Compagnon, che così comincia: Ascolta questa sconsolata Catherina da Forlivo Ch'io ho gran guerra nel confino Senza aiuto abbandonata Io non veggo alcun signore Che a cavallo monti armato E poi mostri il suo vigore Per difendere il mio stato Tutto il mondo è spaventato Quando senton criar Franza E d'Italia la possanza Par che sia profundata 'Scolta questa sconsolata Catherina da Forlivo... Taliesin, il Bardo tratto da:www.mitidiromagna.it
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"Io mi dico è stato meglio lasciarci, che non esserci mai incontrati." (Giugno '73 - Faber) Ultima modifica di Taliesin : 28-05-2014 alle ore 13.23.56. |
28-05-2014, 22.42.28 | #189 |
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La ballata..degna di una donna come la dama dei gelsomini.
Grazie a voi, sir Taliesin, posso sempre imparare qualcosa da queste grandi donne..non smettete mai di narrarcene.
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"Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte". E.A.Poe "Ci sono andata apposta nel bosco. Volevo incontrare il lupo per dirgli di stare attento agli esseri umani"...cit. "I am mine" - Eddie Vedder (Pearl Jam) "La mia Anima selvaggia, buia e raminga vola tra Antico e Moderno..tra Buio e Luce...pregando sulla Sacra Tomba immolo la mia vita a questo Angelo freddo aspettando la tua Redenzione come Immortale Cavaliere." Altea |
29-05-2014, 12.55.04 | #190 |
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EXPERIMENTI DELLA EXCELLENTISSIMA SIGNORA CATERINA DA FORLI'
La figura di Caterina Sforza è emblematica per la sua epoca che và inquadrata in un periodo in cui, stava per finire il Medioevo ed iniziava ad affacciarsi il Rinascimento, nascevano immortali capolavori creati dai geni di Raffaello, Michelangelo, Leonardo, Macchiavelli e Cristoforo Colombo tentava la via delle Indie. Questa figura di donna che conduceva in battaglia i suoi soldati venne ammirata in tutta l'Italia e numerose furone le canzoni e le odi che vennero scritte in suo onore che sono andate però tutte perdute tranne quelle di Marsilio Compagnon. Gli scrittori del rinascimento raccontano che Caterina Sforza avesse superato per fama, ogni altra donna del suo tempo: era una donna tenace, determinata, molto versatile, si occupava di erboristeria, di medicina, di cosmetica e d'alchimia. Caterina Sforza era anche una donna di incredibile bellezza che spendeva tempo e denaro per preservarle e nessun consiglio veniva tralasciato indipendente da dove arrivasse: antiche ricette orientali, rimedi popolari, miscele che arrivavano da oscuri monasteri che lei cercava con estrema tenacia non esistendo all'epoca cosmetici già pronti. Le sue ricette sono state tramandate in un libro "Experimenti della excellentissima signora Caterina da Forlì" composto da quattrocentosettantuno rimedi curativi e di bellezza del viso e del corpo con indicazioni per la preparazione di pomate, unguenti, miscele, acqua che Caterina preparava con l'aiuto degli speziali di corte. Questi rimedi sono dei veri e propri esperimenti con i quali Caterina Sforza si dilettava e sperimentava su se stessa. ...per far la faccia bianchissima et bella et colorita All'epoca di Caterina Sforza, una prerogativa della bellezza era avere una carnagione chiarissima pertanto Caterina inventò un impacco adatto allo scopo: mescolare dello zucchero con del bianco d'uovo e acqua di bryonia (Bryonia dioica, n.d.r.). Con questo miscuglio ci si deve bagnare il viso. Con questa ricetta spariscono i rossori, la pelle tesa e la desquamazione che accompagna le scottature solari. ...per far crescere li capelli Questa ricetta di Caterina Sforza è raccomandata per far diventare i capelli lunghi. E' molto semplice: si prepara un semplice decotto con una manciata di malva, del trifoglio, del prezzemolo, con questo decotto si fanno diversi lavaggi. Semplice, da provare per la bellezza e la cura dei capelli di tutte le donne. ...per far li capelli biondi de colore de oro Questa ricetta di bellezza di Caterina Sforza per far diventare i "capelli biondi et belli" consiste nel far bollire delle foglie di edera e cenere ricavata dai gambi della stessa pianta. Dopo che avrà bollito, si dovrà filtrare "et con quella acqua lavati il capo et farai li capelli belli e biondi". Caterina però, per rendere la ricetta ancora più sicura raccomanda a tutte le donne di mettere nel decotto anche tre pezzettini di radice di rabarbaro che si lasciano in infusione per un giorno intero. Dopo di che si inzuppa un panno e con esso si avvolge il capo "et lassato stare sino a che sia quasi asciutto et senza dubbio verranuo rilucenti come oro". ...per fare diventare li denti sani e lucenti Questa ricetta di bellezza Caterina Sforza è un po' insolita ma molto semplice da realizzare: "Prendi dei grossi gambi di rosmarino e falli abbruciare sin che diventino cenere. Metti detta cenere in una piccola pignatta con qualche foglia di rosmarino acciocchè ne prenda l'odore. Con detta cenere sfrega spesso li denti con una pezza di lino". Per completare l'efficacia della cenere di rosmarino "et fermare li denti e le gengive, dopo averli sfregati con la cenere lavali con bono vino". Ogni uomo ed ogni donna sarà sorpreso dall'efficacia di questa semplice ricetta. ...per fare profumare lo fiato cattivo Caterina Sforza, per avere un alito profumato, consigliava questa ricetta Ingredienti - scorza di cedro - noce moscata - chiodi di garofano - cannella Preparazione Polverizzare il tutto ed impastarlo con del vino "et fanne pallottole et pigliane ante ed cibo et de poi el cibo". Le ultime righe della ricetta raccomandano di non mangiare aglio o cipolla per qualche giorno "et vederai et sentirai miracoli". ...per far le mani bianche et belle tanto che pareranno de avorio Caterina Sforza, non poteva dimenticare la cura delle mani. Ecco una ricetta molto semplice da realizzare e di sicura efficacia per il benessere e la bellezza delle mani di ogni donna: "Dai a lungo bollore ad acqua e crusca di grano finchè la mescolanza un poco si addensi. Poscia fai colar l'acqua e ancora calda metti in essa un pomo (una mela n.d.r.) tagliato in tocchi e quando essa acqua sarà fredda lavatene le mani che resteranno bianche e morbide ed belle vedersi". tratto dawww.elicriso.it Taliesin, il Bardo
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