25-05-2012, 14.46.43 | #21 |
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La Gemma di Maremma: Pia De' Tolomei
Deh, quando tu sarai tornato al mondo, e riposato de la lunga via", seguitò 'l terzo spirito al secondo, "Ricorditi di me, che son la Pia; Siena mi fé, disfecemi Maremma: salsi colui che 'nnanellata pria disposando m'avea con la sua gemma". (Purgatorio V, 130-136) E’ una storia d’amore tragica quella di Pia de’Tolomei, sospesa tra fantasia e realtà, della quale oltre alla celebre citazione nel canto del purgatorio della Divina Commedia Dantesca, si trovano molteplici tracce nella secolare tradizione popolare di quelle terre incastonate tra Siena e Maremma che ne vissero le ipotetiche gesta per terminare ai giorni nostri con una appassionata canzone recentemente dedicatale da una sua moderna e roccheggiante concittadina, Gianna Nannini. Nobildonna Senese, Pia intreccia ben presto il suo destino con quello del bello quanto rude, ma a tratti gentile, signore del Castello di Pietra roccaforte Senese nel cuore della Maremma, Nello di Inghiramo Pannocchieschi, capace condottiero e abile politico spesso impegnato in quelle campagne militari che contraddistinguono l’irrequieto periodo storico che vede contrapposte la Signoria Senese con quella Fiorentina e assiste alle sanguinose lotte tra Guelfi e Ghibellini delle quali anche un giovane Dante fu protagonista. Il contesto storico all’interno del quale la leggenda nasce e si esaurisce merita un breve approfondimento che risulterà sicuramente superficiale data la complessità politica che contraddistingue questo periodo medievale ma che può contribuire a far comprendere meglio il periodo storico ma anche le zone geografiche direttamente interessate. La nascita delle fazioni di Guelfi e Ghibellini si ha in Germania nella prima metà del XII secolo quando alla morte di Enrico V e in assenza di eredi diretti si contrapposero la Casa di Baviera e quella dei Duchi di Svevia aventi indirizzi politici assolutamente opposti, la casa di Baviera si schiera a favore dell’ingerenza Papale nella speranza di un sostegno diretto alla propria politica mentre quella di Svevia non accetta tali interferenze nella politica dell’impero. Il ramo cadetto dei Duchi di Baviera denominato Welfen si scontra quindi con quello dei Waiblingen (nome derivato dal Castello omonimo origine del casato Svevo), ma a prescindere dalla connotazioni politiche le lotte risultarono quasi esclusivamente causate dalla incerta successione dinastica che da una effettiva volontà di legittimare l’interferenza Papale, quello che però a noi interessa è la nascita dei termini noti come Guelfi e Ghibellini che dalle due fazioni sopraelencate trova precisa origine grazie alla trasposizione linguistica dei termini. Il conflitto tra Chiesa ed impero coinvolge Feudatari e Comuni tesi ad ottenere favori dall’una o dall’altra fazione in caso di supremazia, Firenze in questa situazione si dichiarò Guelfa perché già sostenitrice di Matilde di Canossa e del Papa della scomunica sia per il contrasto con Pisa dichiaratamente Ghibellina, ma la valenza politica degli scontri servì ben presto a giustificare lotte intestine di potere anche all’interno della stessa città tra famiglie e fazioni assetate di potere e di sangue, Siena invece sposa la causa Ghibellina accogliendo tra le sue mura gli esuli Fiorentini di tale fazione e godendo del sostegno dell’impero. Lo scontro tra le due città si risolse infine a favore della Guelfa Firenze dopo che primato militare Senese trovò la sua massima espressione con la vittoria la battaglia di Monteaperti del 1260, ad iniziare dalla quale prese in via anche il suo declino causato anche dalle conseguenze economiche derivate dalla immediata scomunica Papale inferta ai Senesi, declino che terminerà con la sconfitta di Colle 1269 che sancì la definitiva supremazia Fiorentina sulla Toscana Le lotte inziate nel 1100 si trascineranno con alterne motivazioni fino ad oltre il 1350 coinvolgendo le città Toscane in battaglie famose quanto sanguinarie come quella di, appunto, Monteaperti, Campaldino in Casentino o Montecatini. Ma torniamo alla Pia e alla sua leggenda, se sulle sue ipotetiche origini e la sua giovanile esistenza le varie versioni trovano un comune accordo è sulla sua fine che le versioni invece ampiamente discordano e la fantasia si sovrappone alla leggenda in un inestricabile intreccio, sarà comunque il Castello di Pietra a vedere la sua prematura fine. Non è chiaro infatti se la Nobildonna perita per volere del marito Nello si sia resa colpevole di adulterio tradendolo con un suo amico durante una delle tante campagne guerriere, e se effettivamente il tradimento si sia consumato oppure la cieca gelosia del Pannocchieschi sia rimasta sorda alla voce della verità influenzata dalla volontà di vendetta dell’amante sdegnosamente respinto, o la sua scomparsa si sia stata richiesta dalla fredda e cinica logica delle alleanze che voleva sposo il Nello ad una esponente di una potente famiglia: Margherita Aldobrandeschi. La stessa modalità della sua morte risulta controversa, gettata dalla rupe del castello detta “della Contessa” dallo stesso Nello anelante la mano di Margherita, oppure morta di stenti e di malaria rinchiusa nel castello eretto in una terra aspra ed ostile dove la bonifica da paludi e malaria non sarebbe arrivata che tra molti secoli. Oltre ai luoghi già citati nel complicato intreccio, probabilmente più per errata attribuzione che per effettiva storicità, si inserisce anche un ponte romanico ricostruito in epoca medievale noto appunto con il nome di “Ponte della Pia” e dal quale si narra abbia avuto inizio, con il suo attraversamento, il viaggio di Pia verso la sua ultima e malsana dimora. Quello che però a questo punto più interessa in questo contesto descrittivo è il suo inserimento in un percorso turistico assolutamente entusiasmante dal punto di vista storico e paesaggistico ma anche da quello meno nobile della guida motociclistica sulle orme della nobile e sfortunata Madonna Senese che prende il suo avvio proprio dalla città dal Palio per raggiungere rapidamente nei pressi di Rosia sulla SS73 i resti del Ponte della Pia per poi incunearsi sinuosa in terra di Maremma fino a Roccastrada da dove si raggiunge la zona di Gavorrano e i ruderi del Castel di Pietra, Maniero di antica datazione prima possesso dei Pannocchieschi e successivamente degli Aldobrandeschi e che ha progressivamente perso importanza ed infine esser abbandonato venuta meno la sua funzione militare. Abbandonato da tutti meno che dalla eterna leggenda di una triste fanciulla che inseguendo i romantici sogni d’amore giovanile si vide imprigionata dal destino ad una serie di drammatici eventi che ne vedranno la triste e prematura fine ma non la consegna della sua memoria all’oblio e alla dimenticanza. Taliesin, il bardo p.s. di Gabriele "Frevax". Grazie a Gabrilele, Ladro di Ombre, amico di perduta memoria campestre |
25-05-2012, 16.57.42 | #22 |
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Taliesin, mio buon bardo, vi sono debitore per averci parlato di una delle donne più straordinarie di ogni tempo.
Il culto di Santa Rita è fortissimo nelle mie terre, dove ella da sempre è stata amica devota, benigna protettrice e pietosa dispensatrice di doni. Il suo appellativo, ossia Santa degli Impossibili, è dovuto alla grandezza dei suoi interventi, soprattutto in casi disperati, a dimostrazione dell'infinita Carità Cristiana che benedisse il suo cuore.
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AMICO TI SARO' E SOLO QUELLO... E' UN SACRO PATTO DA FRATELLO A FRATELLO |
29-05-2012, 10.35.42 | #23 |
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Audite Poverelle: Chiara d'Assisi
Chiara nasce nel 1194 da una nobile famiglia d'Assisi, figlia di Favarone di Offreduccio di Bernardino e di Ortolana. La madre, recatasi a pregare alla vigilia del parto nella Cattedrale di San Rufino, sentì una voce che le predisse la nascita della bambina con quest eparole :"Donna non temere, perchè felicemente partorirai una chiara luce che illuminerà il mondo". Per questo motivo la bambina fu chiamata Chiara e battezzata in quella stessa chiesa. Si può senza dubbio affermare che una parte predominante della educazione di questa fanciulla è dovuta alla grande spiritualità che pervadeva l'ambiente familiare di Chiara ed in particolare la figura della madre che fu tra quelle dame che ebbero la grande fortuna di raggiungere la Terra Santa al seguito dei crociati. L'esperienza della completa rinuncia e delle predicazioni di San Francesco , la fama delle doti che aveva Chiara per i suoi concittadini, fecero sì che queste due grandi personalità s'intendessero perfettamente sul modo di fuggire dal mondo comune e donarsi completamente alla vita contemplativa. La notte dopo la Domenica delle Palme, il 18 marzo 1212, Chiara, accompagnata da Pacifica di Guelfuccio, si recherà di nascosto alla Porziuncola, dove era attesa da Francesco e dai suoi frati. Qui Francesco la vestì del saio francescano, le tagliò i capelli consacrandola alla penitenza e la condusse presso le suore benedettine di San Paolo a Bastia Umbra, dove il padre inutilmente tentò di persuaderla a far ritorno a casa. Chiara si rifugiò in seguito, su consiglio di Francesco, nella Chiesetta di San Damiano che divenne la Casa Madre di tutte le sue consorelle chiamate dapprima "Povere Dame recluse di San Damiano" e, dopo la morte di Chiara, Clarisse. Qui visse per quarantadue anni, quasi sempre malata, iniziando alla vita religiosa molte sue amiche e parenti compresa la madre Ortolana e le sorelle Agnese e Beatrice. Nel 1215 Francesco la nominò badessa e formò una prima regola dell'Ordine che doveva espandersi per tutta Europa. La grande personalità di Chiara non passò inosservata agli alti prelati, tanto che il legato pontificio, Cardinale Ugolino, formulò la prima regola per i successivi monasteri e più tardi le venne concesso il privilegio della povertà con il quale Chiara rinunciava ad ogni tipo di possedimento. La fermezza di carattere, la dolcezza del suo animo, il modo di governare la sua comunità con la massima carità e avvedutezza, le procurarono la stima dei Papi che vollero persino recarsi a visitarla. La morte di Francesco e le notizie che alcuni monasteri accettavano possessi e rendite amareggiarono e allarmarono Chiara che sempre più malata volle salvare fino all'ultimo la povertà per il suo convento componendo una Regola simile a quella dei Frati Minori, approvata dal Cardinale Rainaldo (poi papa Alessandro IV) nel 1252 e alla vigilia della sua morte da Innocenzo IV, recatosi a San Damiano per portarle la benedizione e consegnarle la bolla papale che confermava la sua regola; il giorno dopo, 11 agosto 1253, Chiara muore, officiata dal Papa che volle cantare per lei non l'ufficio dei morti, ma quello festivo delle vergini. Il suo corpo venne sepolto a San Giorgio ed in seguito trasferito nella chiesa che porta il suo nome. Nonostante l'intenzione di Innocenzo IV fosse quella di canonizzarla subito dopo la morte, si giunse alla bolla di canonizzazione nell'autunno del 1255, dopo averne seguito tutte le formalità, per mezzo di Alessandro IV Taliesin, il bardo tratto da: Famiglia Cristiana, 1981. Ultima modifica di Taliesin : 29-05-2012 alle ore 13.10.47. |
29-05-2012, 13.09.53 | #24 |
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E diceva parole tanto dolci... : Caterina da Siena
Nasce a Siena nel rione di Fontebranda (oggi Nobile Contrada dell'Oca) il 25 marzo 1347: è la ventiquattresima figlia delle venticinque creature che Jacopo Benincasa, tintore, e Lapa di Puccio de’ Piacenti hanno messo al mondo. Giovanna è la sorella gemella, ma morirà neonata. La famiglia Benincasa, un patronimico, non ancora un cognome, appartiene alla piccola borghesia. Ha solo sei anni quando le appare Gesù vestito maestosamente, da Sommo Pontefice, con tre corone sul capo ed un manto rosso, accanto al quale stanno san Pietro, san Giovanni e san Paolo. Il Papa si trovava, a quel tempo, ad Avignone e la cristianità era minacciata dai movimenti ereticali. Già a sette anni fece voto di verginità. Preghiere, penitenze e digiuni costellano ormai le sue giornate, dove non c’è più spazio per il gioco. Della precocissima vocazione parla il suo primo biografo, il beato Raimondo da Capua (1330-1399), nella Legeda Maior, confessore di santa Caterina e che divenne superiore generale dell’ordine domenicano; in queste pagine troviamo come la mistica senese abbia intrapreso, fin da bambina, la via della perfezione cristiana: riduce cibo e sonno; abolisce la carne; si nutre di erbe crude, di qualche frutto; utilizza il cilicio... Proprio ai Domenicani la giovanissima Caterina, che aspirava a conquistare anime a Cristo, si rivolse per rispondere alla impellente chiamata. Ma prima di realizzare la sua aspirazione fu necessario combattere contro le forti reticenze dei genitori che la volevano coniugare. Aveva solo 12 anni, eppure reagì con forza: si tagliò i capelli, si coprì il capo con un velo e si serrò in casa. Risolutivo fu poi ciò che un giorno il padre vide: sorprese una colomba aleggiare sulla figlia in preghiera. Nel 1363 vestì l’abito delle «mantellate» (dal mantello nero sull'abito bianco dei Domenicani); una scelta anomala quella del terz’ordine laicale, al quale aderivano soprattutto donne mature o vedove, che continuavano a vivere nel mondo, ma con l’emissione dei voti di obbedienza, povertà e castità. Caterina si avvicinò alle letture sacre pur essendo analfabeta: ricevette dal Signore il dono di saper leggere e imparò anche a scrivere, ma usò comunque e spesso il metodo della dettatura. Al termine del Carnevale del 1367 si compiono le mistiche nozze: da Gesù riceve un anello adorno di rubini. Fra Cristo, il bene amato sopra ogni altro bene, e Caterina viene a stabilirsi un rapporto di intimità particolarissimo e di intensa comunione, tanto da arrivare ad uno scambio fisico di cuore. Cristo, ormai e in tutti i sensi, vive in lei (Gal 2,20). Ha inizio l’intensa attività caritatevole a vantaggio dei poveri, degli ammalati, dei carcerati e intanto soffre indicibilmente per il mondo, che è in balia della disgregazione e del peccato; l’Europa è pervasa dalle pestilenze, dalle carestie, dalle guerre: «la Francia preda della guerra civile; l’Italia corsa dalle compagnie di ventura e dilaniata dalle lotte intestine; il regno di Napoli travolto dall’incostanza e dalla lussuria della regina Giovanna; Gerusalemme in mano agli infedeli, e i turchi che avanzano in Anatolia mentre i cristiani si facevano guerra tra loro» (F. Cardini, I santi nella storia, San Paolo, Cinisello Balsamo -MI-, 2006, Vol. IV, p. 120). Fame, malattia, corruzione, sofferenze, sopraffazioni, ingiustizie… Le lettere Le lettere, che la mistica osa scrivere al Papa in nome di Dio, sono vere e proprie colate di lava, documenti di una realtà che impegna cielo e terra. Lo stile, tutto cateriniano, sgorga da sé, per necessità interiore: sospinge nel divino la realtà contingente, immergendo, con una iridescente e irresistibile forza d’amore, uomini e circostanze nello spazio soprannaturale. Ecco allora che le sue epistole sono un impasto di prosa e poesia, dove gli appelli alle autorità, sia religiose che civili, sono fermi e intransigenti, ma intrisi di materno sentire: «Delicatissima donna, questo gigante della volontà; dolcissima figlia e sorella, questo rude ammonitore di Pontefici e di re; i rimproveri e le minacce che ella osa fulminare sono compenetrati di affetto inesausto» (G. Papàsogli, Caterina da Siena, Fabbri Editori RCS, Milano 2001, p. 201). Usa espressioni tonanti, invitando alla virilità delle scelte e delle azioni, ma sa essere ugualmente tenerissima, come solo uno spirito muliebre è in grado di palesare. La poesia di colei che scrive al Papa «Oimé, padre, io muoio di dolore, e non posso morire» è costituita da sublimi altezze e folgoranti illuminazioni divine, ma nel contempo, conoscendo che cosa sia il peccato e dove esso conduca, tocca abissi di indicibile nausea, perché Caterina intinge il pensiero nell’inchiostro della realtà tutta intera, quella fatta di bene e male, di angeli e demoni, di natura e sovranatura, dove il contingente si incontra e si scontra nell’Eterno. Per la causa di Cristo Una brulicante «famiglia spirituale», formata da sociae e socii, confessori e segretari, vive intorno a questa madre che pungola, sostiene, invita, con forza e senza posa, alla Causa di Cristo, facendo anche pressioni, come pacificatrice, su casate importanti come i Tolomei, i Malavolti, i Salimbeni, i Bernabò Visconti… Lotte con il demonio, levitazioni, estasi, bilocazioni, colloqui con Cristo, il desiderio di fusione in Lui e la prima morte di puro amore, quando l’amore ebbe la forza della morte e la sua anima fu liberata dalla carne… per un breve spazio di tempo. I temi sui quali Caterina pone attenzione sono: la pacificazione dell’Italia, la necessità della crociata, il ritorno della sede pontificia a Roma e la riforma della Chiesa. Passato il periodo della peste a Siena, nel quale non sottrae la sua attenta assistenza, il 1° aprile del 1375, nella chiesa di Santa Cristina, riceve le stimmate incruente. In quello stesso anno cerca di dissuadere i capi delle città di Pisa e Lucca dall’aderire alla Lega antipapale promossa da Firenze che si trovava in urto con i legati pontifici, che avrebbero dovuto preparare il ritorno del Papa a Roma. L’anno seguente partì per Avignone, dove giunse il 18 giugno per incontrare Gregorio XI (1330–1378), il quale, persuaso dall’intrepida Caterina, rientrò nella città di san Pietro il 17 gennaio 1377. L’anno successivo morì il Pontefice e gli successe Urbano VI (1318–1389), ma una parte del collegio cardinalizio gli preferì Roberto di Ginevra, che assunse il nome di Clemente VII (1342– 1394, antipapa), dando inizio al grande scisma d’Occidente, che durò un quarantennio, risolto al Concilio di Costanza (1414-1418) con le dimissioni di Gregorio XII (1326–1417), che precedentemente aveva legittimato il Concilio stesso, e l’elezione di Martino V (1368–1431), nonché con le scomuniche degli antipapi di Avignone (Benedetto XIII, 1328–1423) e di Pisa (Giovanni XXIII, 1370–1419). All’udienza generale del 24 novembre 2010 Benedetto XVI ha affermato, riferendosi proprio a santa Caterina: «Il secolo in cui visse - il quattordicesimo - fu un’epoca travagliata per la vita della Chiesa e dell’intero tessuto sociale in Italia e in Europa. Tuttavia, anche nei momenti di maggiore difficoltà, il Signore non cessa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversione e rinnovamento». Amando Gesù («O Pazzo d’amore!»), che descrive come un ponte lanciato tra Cielo e terra, Caterina amava i sacerdoti perché dispensatori, attraverso i Sacramenti e la Parola, della forza salvifica. L’anima di colei che iniziava le sue cocenti e vivificanti lettere con «Io Catarina, serva e schiava de' servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo», raggiunge la beatitudine il 29 aprile 1380, a 33 anni, gli stessi di Cristo, nel quale si era persa per ritrovare l’autentica essenza. Taliesin, il bardo
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29-05-2012, 13.35.46 | #25 |
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Scito Vias Domini: Ildegarda di Bingen
Ildegarda di Bingen (1098-1176) è una delle poche donne che occupino a buon diritto un posto nella filosofia occidentale prima dell’età contemporanea. Fin da bambina subì fenomeni visionari, legati ad uno stato di salute molto fragile; l’accettazione e l’elaborazione in senso cognitivo di queste esperienze le permisero di produrre un pensiero originale e molto incisivo nella realtà del suo tempo. Trascorse tutta la sua lunga vita nel contesto monastico: oblata all’età di sette anni presso l’abbazia benedettina di Disibodenberg nella regione del Reno, dove ricevette un’educazione accurata, divenne in seguito maestra delle monache e poi badessa. Distaccandosi dal monastero in cui era cresciuta, creò una fondazione femminile nuova nelle vicinanze, a Rupertsberg e, successivamente, una seconda fondazione ad Eibingen. A partire dalla fine degli anni ’40 legò la sua opera di scrittura e, nei decenni successivi, di predicazione pubblica all’opera di riforma della chiesa promossa da Bernardo da Chiaravalle; a questo scopo compì numerosi viaggi, allargando il suo raggio d’azione nella Germania centrale e nelle Fiandre. Esercitò la medicina e fu consigliera spirituale non solo di monaci e monache, ma anche di sovrani (fra cui Federico Barbarossa) e potenti laici ed ecclesiastici. Le sue opere principali sono i tre scritti profetici: Liber Scivias (da una contrazione di "Scito vias Domini", "conosci le vie del Signore", 1141-51); il Liber vitae meritorum (Libro dei meriti della vita, 1158-63); e il Liber divinorum operum (Libro delle opere divine 1164-74). L’opera naturalistica invece (Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum, Libro che indaga gli aspetti sottili delle nature diverse delle creature, ca. 1158-70) fu scritta in forma diretta; nei secoli successive venne smembrata in due tronconi: la Physica (Fisica, enciclopedia naturalistica) e Causae et curae (Le cause e le cure, dove le conoscenze fisiologiche e mediche relative al corpo umano sono connesse ai principi cosmologici). Ildegarda compose anche musica su propri testi: una raccolta di liriche ispirate a figure sacre (fra cui spicca Maria, “fiammeggiante aurora”), la Symphonia harmoniae caelestium revelationum (Armonioso concerto delle rivelazioni celesti, ca. 1151-58); e una sacra rappresentazione di contenuto morale, Ordo virtutum (L’ordine delle virtù, la cui prima stesura è contenuta nell’ultima parte del Liber Scivias). La conoscenza delle opere divine. Nei suoi libri profetici e naturalistici Ildegarda espone idee cosmologiche di grande rilievo e di notevole originalità ed elabora una visione profetica della storia. Il suo approccio alla conoscenza della realtà non segue la modalità scolastica di lettura e commento dei testi, ma si basa sull' esperienza intuitiva di cui essa riferisce il carattere visionario in più luoghi della sua opera. Le visioni sono considerate di origine divina e portatrici di conoscenza nell’ambito della natura, della storia e della vita spirituale umana: i diversi livelli di significato delle visioni (letterale, allegorico, tropologico) sono esposti da Ildegarda in ampie spiegazioni, da lei ricondotte ad una costante ispirazione divina che si serve come tramite del suo “fragile corpo di donna”. La sua esperienza è dunque propriamente profetica, non una mistica unione dell' anima con Dio, ma l' assunzione di un ruolo di intermediaria fra Dio e l’umanità del suo tempo. Il fatto che essa non avesse avuto una formazione scolastica non significa che fosse incolta, ma che era stata educata secondo le linee della cultura monastica, fondata sulla lettura dei libri scritturali e patristici; questo fatto permette di comprendere perché Bernardo da Chiaravalle, venuto a conoscenza delle sue visioni, ne riconobbe subito l’importanza per la propria opera di riforma, in cui si opponeva frontalmente alla nuova cultura delle scuole. Tuttavia i contenuti della nuova filosofia non erano ignoti ad Ildegarda, che li elaborò in termini originali, sottolineando il carattere creaturale della natura: il valore del mondo e dell’esperienza umana in esso, asserito in termini analoghi a quelli dei filosofi naturalisti del tempo, non si accompagna all’idea dell’autonomia della natura e della ragione umana, ma si radica nella dipendenza del mondo e dell’uomo dal Dio creatore. Nella terza visione dello Scivias Ildegarda presenta un' immagine del cosmo che, se ha alcune affinità con quelle dei filosofi coevi, presenta però anche importanti differenze; fra queste in primo luogo la “forma di uovo” del cosmo ildegardiano, che conferisce realtà fisica al simbolo tradizionale della vita del mondo, presente anche in una fonte importante della cultura delle scuole basata sulle artiliberali, il De nuptiis Mercurii et Philologiae. Procedendo verso l' interno della struttura incontriamo i vari strati cosmici degli elementi, analoghi a quelli della cosmologia tradizionale ma con due importanti differenze: l’elemento superiore, il fuoco, si sdoppia in un fuoco luminoso e un fuoco nero, per rendere ragione della duplicità delle forze, positive e negative, che s’intersecano nel macrocosmo. Fra queste hanno un ruolo rilevante, oltre naturalmente al sole e ai pianeti della tradizione astronomica, i venti che, convergendo verso il centro, la terra, esercitano la loro funzione primaria nel conferire vita e movimento a questa complessa struttura . Nel Liber divinorom operum (1174) la forma del cosmo, generato nel petto di una figura divina a carattere antropomorfo, è rotonda e, per quanto gli strati successivi siano gli stessi che nell' opera precedente, ciò che ora tiene insieme la struttura sono raggi che s’intersecano unendo la circonferenza con il centro; questo è costituito da una figura umana, che rappresenta il microcosmo. L’uomo e il suo mondo. Il tema centrale della riflessione cosmologica del XII secolo, la centralità dell'uomo e il suo rapporto con la vita del cosmo, si affermano anche nell' opera di Ildegarda, mostrando che, nonostante questa sia l' epoca in cui la razionalità scientifica comincia a divaricarsi nettamente rispetto alle fonti sapienziali di conoscenza, gli stessi temi di riflessione s' impongono, per quanto diversi siano gli strumenti e i metodi conoscitivi impiegati. Sviluppando un tema presente già nell’antropologia eriugeninana e centrale nelle nuove fonti ermetiche acquisite nel XII secolo, in particolare nell’Asclepius, Ildegarda afferma la superiorità dell’uomo sulle creature spirituali angeliche, perché nella duplice composizione – anima e corpo - che rispecchia la divinità e l’umanità di Cristo, risiede la possibilità che l’umanità ha di collaborare con Dio: con l’opera della creazione, mediante la generazione, che porterà il numero degli uomini a colmare il posto lasciato vuoto dagli angeli ribelli, ricostituendo la pienezza del creato; e con l’opera della salvezza, mediante il perfezionamento morale e spirituale dell’umanità al seguito di Cristo nella storia, che porterà alla piena vittoria sul demonio alla fine dei tempi. La storia, infatti, è lo svolgimento delle vicende dell’intero creato, dalla caduta dell’angelo ribelle alla vittoria finale sull’Anticristo. In queste vicende (per la cui descrizione Ildegarda utilizza uno schema di ‘età del mondo’ affine a quello di Gioachino da Fiore) la razionalità umana, che ha lo stesso carattere igneo dello Spirito Creatore, ha il compito di riunificare il mondo corporeo e quello spirituale nella vita morale e nella realizzazione della salute, attraverso la conoscenza e l’utilizzazione del mondo naturale: in questo contesto è centrale la nozione di viriditas (che sostantifica il carattere simbolico del colore verde), in cui si esprime la vitalità e fecondità non solo del mondo vegetale, ma anche di quello sensibile e spirituale. All’essere umano è possibile inoltre sperimentare, nell’armonia della voce, l’esperienza immediata dell’unità di anima e corpo, che tende a riprodurre la perfezione dell’umanità prima del peccato originale: nella musica e nel canto la ricomposizione della dualità infatti è già in atto e il fine della vita umana è realizzato: “il corpo attraverso la voce canta con l'anima lodi a Dio”. Taliesin, il bardo Bibliografia Edizioni Hildegardis abbatisse Opera, Patrologia Latina ac. J.P. Migne, vol. CXVII, Parigi 1895 Hildegardis Scivias, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, vol. 43-43A, Brepols, Turnhout 1991 Hildegardis Liber Vitae Meritorum, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, vol. 90 (1995) Hildegardis Liber divinorum operum, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, vol. 92 (1996) Hildegardis Epistolae, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, voll. 91-91A 1\991.93 Vita Sanctae Hildegardis, Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis, vol. 126 (1993) Hildegard von Bingen, Causae et curae, ed. P. Kaiser, Leipzig 1903 Traduzioni italiane Ildegarda di Bingen, Cause e cure delle infermità, a cura di P. Calef, Palermo, 1997 Ildegarda di Bingen, Il centro della ruota. Spiegazione della regola di S. Benedetto, a cura di A. Carlevaris, Milano, 1997 Ildegarda di Bingen, Come per lucido specchio. Libro dei meriti di vita, a c. di L. Ghiringhelli, Milano 1998 Ildegarda di Bingen, Ordo virtutum. Il cammino di Anima verso la salvezza, a c. di M. Tabaglio, Verona 1999 Ildegarda di Bingen, Il libro delle opere divine, a c. di M. Cristiani e M. Pereira, Mondadori, Milano 2003 Ildegarda di Bingen, Cantici spirituali, Demetra edizioni, Milano 1995 |
30-05-2012, 14.01.26 | #26 |
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La Vergine del Monte Tauro: Innocenza da Rimini
Il culto della martire Innocenza, è autorevolmente documentato in un periodo antecedente, alla successiva leggendaria letteratura agiografica. Infatti una Cappella di S. Innocenza o “monasterium”, esistente nel centro religioso di Rimini, vicino al vescovado, viene ricordata già in un documento del 6 maggio 996 (Privilegio di Ottone III al vescovo Uberto) e in una ‘Bolla’ di papa Lucio II del 21 maggio 1144. Inoltre nel secolo XIV si riteneva che vi fosse sepolta la santa martire e gli “Statuti” locali, prescrivevano che nel giorno della sua festa il 16 settembre, si facesse l’offerta di un pallio; ma nei secoli successivi si ebbe qualche dubbio sull’esistenza della tomba o arca di s. Innocenza; a volte indicata nella cattedrale o nella chiesa di S. Gaudenzio, ma soprattutto nella sua chiesa, ricostruita nel 1477, divenuta parrocchia fino al 1797 e poi cappella del Seminario vescovile. Altri documenti del 1059 e del 1144, ricordano un altro insigne monumento al culto di Rimini per santa Innocenza, che è la Pieve di S. Innocenza sul Monte Tauro a ca. otto miglia dalla città, senz’altro anteriore all’XI secolo. Seconda una tradizione tramandata dagli storici locali del Cinquecento, la chiesa urbana di S. Innocenza, sarebbe stata costruita sulla sua casa natale, dallo stesso vescovo s. Gaudenzio nel IV secolo; mentre la Pieve sul Monte Tauro, sarebbe stata costruita sulle terre del contado del castello dove abitava. La ‘Vita’ racconta che l’imperatore Diocleziano (243-313), durante una sua spedizione contro gli Ungari o altro popolo del Nord, passando da Rimini, sentì parlare di questa nobile, bella e ricca fanciulla di diciassette anni, come una fiera e fervente cristiana e quindi mandò i suoi soldati a prelevarla dal castello di Monte Tauro, insieme ad un’ancella. Portata alla sua presenza, l’imperatore tentò senza successo, di farla apostatare e alla fine la fece uccidere a Rimini un 16 settembre forse del 303, anno in cui emanò l’editto di persecuzione contro i cristiani. Quello che è certo, è che il culto per s. Innocenza è anteriore al 1000 e che a Rimini si sono sempre venerate le reliquie di una santa martire con questo nome. L’esistenza nelle città di Ravenna e Vicenza di un culto per s. Innocenza, ha fatto creare un po’ di confusione; si tratta di una sola s. Innocenza, cioè quella di Rimini, oppure come sembra plausibile di altre due sante omonime?. Bisogna aggiungere che s. Innocenza potrebbe anche non essere una martire ma solo una vergine riminese, magari fondatrice o donatrice di qualche complesso monumentale, adatto alla vita monastica femminile, volendo ricordare che la sua chiesetta è chiamata nei testi più antichi “monasterium”. Per a tutti quegli Umini e quelle Donne che nella disperazione di questi giorni, lottano contro ogni elemento e contro gni avversità... Taliesin, il bardo tratto da: “Della storia civile e sacra riminese” di L. Tonini, Rimini, 1856. |
19-06-2012, 19.43.19 | #27 |
Cavaliere della Tavola Rotonda
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Taliesin, il poco tempo a disposizione mi aveva impedito di leggere i nuovi sviluppi di questo vostro notevole lavoro.
Davvero intensi i meravigliosi ritratti che ci avete mostrato di queste grandi donne. Vi sono poi debitore e riconoscente perchè tra queste straordinarie figure avete narrato di una Santa e di una donna a me molto cara. Grazie, amico mio
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AMICO TI SARO' E SOLO QUELLO... E' UN SACRO PATTO DA FRATELLO A FRATELLO |
20-06-2012, 09.50.23 | #28 |
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LA MISTICA DELL'OGNIBENE: ANGELA DA FOLIGNO
La data di nascita non si conosce (molti, non si sa perché, indicano il 1248), mentre è certo che è morta il 4 gennaio 1309. Verso il 1291, aderì al "Terzo Ordine Francescano", ora denominato "Ordine Francescano Secolare". La sua "conversione", nel Sacramento della Penitenza, celebrato nella Chiesa Cattedrale di San Feliciano, a Foligno, era avvenuta, come comunemente si afferma, verso il 1285, dopo una vita cristiana mediocre e anche segnata dal peccato. Angela, in quel periodo, era già sposata, aveva dei figli e viveva insieme a sua madre. Successivamente, in breve tempo, perse tutti i famigliari e cominciò il cammino di "penitenza", che la spinse a liberarsi di tutti i beni, a fare vita comune in casa sua con una certa Masazuola e a professare la Regola del Terzo Ordine. Al termine di un pellegrinaggio comunitario ad Assisi, poco dopo l'adesione al movimento francescano, uscì in grida rivolte all'"Amore", sulla soglia della Chiesa Superiore di San Francesco: si concludeva, così, una lunghissima, mirabile esperienza mistica. Questo evento clamoroso assisano, a cui assistettero in molti, fu all'origine del singolare colloquio, che durò quasi sei anni, con un Frate Minore, parente e confessore di Angela, del cui nome si conosce solo la lettera iniziale A. Il "Memoriale", che riporta le confidenze della Folignate e le annotazioni di Frate A., preceduto da un "Prologo", è la prima parte di quell'opera singolare, a cui si è soliti dare il titolo "Il libro della beata Angela da Foligno". Esso contiene anche "Documenti", che testimoniano l'esistenza di una piccola cerchia di discepoli della Poverella di Foligno: lettere, discorsi, pensieri, relazioni su esperienze mistiche successive alla chiusura del "Memoriale", la notizia della morte di Angela e un singolare "Epilogo". Dal "Libro" si possono individuare tutte le tappe fondamentali del cammino ascetico e dell'itinerario mistico della Folignate. Le reliquie della Beata sono conservate nella Chiesa di San Francesco, retta dai Frati Minori Conventuali di Foligno. Taliesin, il bardo tratto da: www.beataangela.it p.s. dedicato alla terra di meraviglie del Cavaliere dell'Intelletto, cullata da una rarissima spiritualità che avvolge i campi di grano, le bianche chiesette di confine, le dirute mura delle orgogliose cittadelle, racchiusa tra il regno degli Etruschi ed il mare dei Tirreni. |
20-06-2012, 10.20.05 | #29 |
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IL CUORE DELLA PASSIONE: CHIARA DA MONTEFALCO
Seconda figlia di Damiano e di Giacoma, Chiara nacque a Montefalco, in provincia di Perugia, nel 1268. Presa d'amor divino, fin dall'età di quattro anni mostrò una così forte inclinazione all'esercizio della preghiera da trascorrere intere ore immersa nell'orazione, ritirata nei luoghi più riposti della casa paterna. Sin da allora ella ebbe anche una profonda devozione per la Passione di Nostro Signore e la sola vista di un Crocifisso era per lei come un monito di continua mortificazione, a cui si abbandonava volentieri infliggendo al corpo innocente le più dure macerazioni con dolorosi cilizi, tanto che sembrava quasi incredibile che una bimba di sei anni potesse avere non già il pensiero, ma la forza di sopportarne il tormento. Consacratasi interamente a Dio, Chiara volle seguire l'esempio della sorella Giovanna, chiedendo di entrare nel locale reclusorio, dove fu accolta nel 1275. La santità della piccola e le elette virtù di Giovanna fecero accorrere nel reclusorio di Montefalco sempre nuove aspiranti, per cui ben presto si dovette intraprendere la costruzione di uno più grande, che, cominciata nel 1282, si protrasse per otto anni tra opposizioni, contrasti e difficoltà di varia natura. A causa delle ristrettezze finanziarie, per qualche tempo durante i lavori Chiara fu incaricata anche di andare alla questua. Nel 1290, allorché il nuovo reclusorio fu terminato, si pensò che sarebbe stato più opportuno fosse eretto in monastero, affinché la comunità potesse entrare a far parte di qualche religione approvata. Giovanna ne interessò il vescovo Gerardo Artesino, che, con decreto del 10 giugno 1290, riconobbe la nuova famiglia religiosa, dando ad essa la regola di s. Agostino e autorizzando in pari tempo l'accettazione di novizie. Il novello monastero fu chiamato "della Croce", su proposta della stessa Giovanna, che ne venne subito eletta badessa. Alla morte della sorella (22 novembre 1291), Chiara fu chiamata immediatamente a succederle nella carica, contro la sua volontà e nonostante la giovane età. Durante il suo governo, che esercitò sempre con illuminata fermezza, seppe tenere sempre vivo nella comunità, con la parola e con l'esempio, un gran desiderio di perfezione. Ebbe da Dio singolari grazie mistiche, come visioni ed estasi, e doni soprannaturali che profuse dentro e fuori il monastero, venendo,- inoltre, favorita dal Signore col dono della scienza infusa, per cui poté offrire dotte soluzioni alle più ardue questioni propostele da teologi, filosofi e letterati. Alla sua pronta azione, si deve poi la scoperta e l'eliminazione, tra la fine del 1306 e gli inizi del 1307, di una setta eretica chiamata dello "Spirito di libertà", che andava diffondendo per tutta l'Umbria errori quietistici. Tanta era la fama di sé e delle sue virtù suscitata in vita da Chiara che subito dopo la morte, avvenuta nel suo monastero della Croce in Montefalco il 17 agosto 1308, fu venerata come santa. Una tradizione leggendaria, fondata su una accesa pietà e su una ingenua nozione dell'anatomia, riferisce che nel cuore di Chiara, di eccezionali dimensioni, si credette di scorgere i simboli della Passione: il Crocifisso, il flagello, la colonna, la corona di spine, i tre chiodi e la lancia, la canna con la spugna. Inoltre nella cistifellea della santa si sarebbero riconosciuti tre globi di uguali dimensioni, peso e colore, disposti in forma di triangolo, come un simbolo della Santissima Trinità. Erano trascorsi solo dieci mesi dalla morte di Chiara, quando il vescovo di Spoleto, Pietro Paolo Trinci, ordinò il 18 giugno 1309 di iniziare il processo informativo sulla sua vita e sulle virtù; poiché, però, avvenivano sempre nuovi miracoli e aumentava la devozione per la pia suora di Montefalco, molti fecero viva istanza presso la Santa Sede per la canonizzazione di Chiara; procuratore della causa fu Berengario di S. Africano, che a tal fine si recò nel 1316 ad Avignone da Giovanni XXII, il quale deputò il cardinale Napoleone Orsini, legato a Perugia, a informarsi e riferire. Il nuovo processo, cominciato il 6 settembre 1318 e dal quale sarebbe dipesa certamente la canonizzazione di Chiara, per cause del tutto esterne non poté tuttavia aver seguito. Fu solo nel 1624 che Urbano VIII concesse, dapprima all'Ordine (14 agosto), poi alla diocesi di Spoleto (28 settembre), di recitare l'Ufficio e la Messa con preghiera propria in onore di Chiara, il cui nome Clemente X fece inserire, il 19 aprile 1673, nel Martirologio Romano. Nel 1736, Clemente XII ordinò la ripresa della causa e l'anno seguente la S. Congregazione dei Riti approvò il culto ab immemorabili; nel 1738, fu istruito il nuovo processo apostolico sulle virtù e i miracoli, ratificato dalla S. Congregazione dei Riti il 17 settembre 1743. In tal modo si poteva procedere all'approvazione delle virtù eroiche, che si ebbe, tuttavia, solo un secolo più tardi, dopo un ulteriore processo apostolico, incominciato il 22 ottobre 1850, conclusosi il 21 novembre 1851 e approvato dalla S. Congregazione dei Riti il 25 settembre 1852; solo l'8 dicembre 1881, però, la beata Chiara da Montefalco fu solennemente canonizzata da Leone XIII. Il 17 agosto si commemora la santa, mentre il 30 ottobre si celebra la festa "Impressio Crucifixi in corde s. Clarae". Taliesin, il bardo tratto da: www.santiebeati.it autore Nicolò De Re. |
20-06-2012, 10.52.10 | #30 |
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LA SANTUZZA DI SICILIA: ROSALIA DA PALERMO
In Sicilia vi è un intensissimo culto per tre giovani sante vergini, Lucia di Siracusa, Agata patrona di Catania e Rosalia patrona di Palermo. Il loro culto si è diffuso in tutti Paesi in cui sono arrivate le schiere di emigrati siciliani, che hanno portato con loro il ricordo struggente della natia Isola e delle loro tradizioni, unitamente al culto sincero e profondo per le tre sante siciliane. Ma se s. Lucia di Siracusa († 304) e s. Agata di Catania († 250 ca.) furono martirizzate durante le persecuzioni contro i primi cristiani, s. Rosalia è una vergine non martire, vissuta molti secoli dopo e divenuta patrona di Palermo nel 1666 con culto ufficiale esteso a tutta la Sicilia. Ciò nonostante la “Santuzza”, come affettuosamente viene chiamata dai palermitani, si affermò come una delle sante più conosciute e venerate nella cristianità siciliana e in particolare in quella palermitana; ancora oggi in qualsiasi parte del mondo s’incontrino i palermitani, si scambiano il saluto “Viva Palermo e santa Rosalia!”. Purtroppo sulla sua vita vi sono poche notizie in parte leggendarie, ma piace considerare con lo scrittore fiorentino Piero Bargellini che: “È ben vero che le leggende sono come il vilucchio (pianta rampicante) attorno al fusto della pianta; la pianta già c’era prima che il vilucchio l’avvolgesse. Così la santità già esisteva, prima che la leggenda la rivestisse con i suoi fantastici fiori”. E questo vale per tutti i santi che in tanti secoli e luoghi, hanno donato la loro vita, spesso patendo il martirio, sono rimasti ignorati a volte anche per lungo tempo, finché la loro esistenza, il loro sacrificio, le loro virtù eroiche non sono pervenuti a conoscenza del popolo di Dio e della Chiesa. È il caso di s. Rosalia che nacque a Palermo nel XII secolo e, secondo antichi libri liturgici, morì il 4 settembre del 1160 a 35 anni. La leggenda dice che era figlia del Duca Sinibaldo, feudatario, signore di Quisquinia e delle Rose, località ubicate fra Bivona e Frizzi, nel Palermitano, e di Maria Guiscarda, cugina del re normanno Ruggero II; giovanissima fu chiamata nel Palazzo dei Normanni, alla corte della regina Margherita, moglie di Guglielmo I di Sicilia (1154-1166); la sua bellezza attirava l’ammirazione dei nobili cavalieri; il più assiduo pretendente, sempre secondo la tradizione popolare, si vuole che fosse Baldovino, futuro re di Gerusalemme. Rosalia visse in quel felice periodo di rinnovamento cristiano-cattolico, che i re Normanni ristabilirono in Sicilia, dopo aver scacciato gli Arabi che se n’erano impadroniti dall’827 al 1072; favorendo il diffondersi di monasteri Basiliani nella Sicilia Orientale e Benedettini in quella Occidentale; apprezzando inoltre l’opera religiosa e monastica del certosino s. Brunone e del cistercense s. Bernardo di Chiaravalle. In quest’atmosfera di fervore e rinnovamento religioso, s’inserì la vocazione eremitica della giovane nobile Rosalia; bisogna dire che in quel tempo l’eremitismo era fiorente in quei secoli, sia nel campo maschile sia in quello femminile. Seguendo l’esempio degli anacoreti, che lasciati gli agi e la vita attiva si ritiravano in una grotta o in una cella, di solito nei dintorni di una chiesa o di un convento, così da poter partecipare alle funzioni liturgiche e avere nel contempo un’assistenza religiosa dai vicini monaci; così Rosalia si ritirò in una grotta del feudo paterno di Quisquinia a circa 20 km. da Palermo sulle Madonie, vicina a dei Benedettini. Da lì la giovane eremita, dopo un periodo di penitenza non definito, si trasferì in una grotta sul Monte Pellegrino, stupendo promontorio palermitano; accanto ad una preesistente chiesetta bizantina, in una cella costruita sopra il pozzo tuttora esistente. Anche qui nei dintorni, i Benedettini avevano un convento e poterono seguire ed essere testimoni della vita eremitica e contemplativa di Rosalia, che visse in preghiera, solitudine e mortificazioni; molti palermitani, salivano il monte attratti dalla sua fama di santità. Secondo la tradizione morì il 4 settembre, che si presume, dell’anno 1160. In seguito fu oggetto di culto con l’edificazione di chiese a lei dedicate in varie zone siciliane, oltre la cappella già sul Monte Pellegrino e riprodotta in immagine nella cattedrale di Palermo e di Monreale; una chiesa sorse lontano, a Rivello (Potenza) nella diocesi di Policastro. Ma all’inizio del 1600 il suo culto era talmente scaduto al punto che non veniva più invocata nelle litanie dei santi patroni di Palermo; ciò non esclude comunque un culto ininterrotto anche se di tono minore, durato nei quattro secoli e mezzo, che vanno dalla sua morte al 1600. Sul Monte Pellegrino fino al primo Cinquecento erano vissuti i cosiddetti “romiti di s. Rosalia” dimoranti in alcune grotte vicine a quella, dove per tradizione era vissuta e morta la giovane eremita. Verso la metà del sec. XVI, il viceré Giovanni Medina, fece costruire per l’”Ordine Francescano Riformato di Santa Rosalia e del Monte Pellegrino”, un convento accanto alla grotta adattata a chiesa. Ad ogni modo studiosi agiografi hanno trovato documenti che testimoniano, che già nel 1196 e decenni successivi, l’eremita veniva chiamata “Santa Rosalia”. E arriviamo al 26 maggio 1624, quando una donna (Girolama Gatto) ridotta in fin di vita, vide in sogno una fanciulla vestita di bianco, che le prometteva la guarigione se avesse fatto voto di salire sul Monte Pellegrino per ringraziarla. La donna salì sul monte con due amiche, era di nuovo in preda alla febbre quartana, ma appena bevve l’acqua che gocciola dalla grotta, si sentì guarita, cadendo in un riposante torpore e qui le riapparve la giovane vestita di bianco, ravvisata come in s. Rosalia, che le indicò il posto dove erano sepolte le sue reliquie. La cosa venne riferita ai frati eremiti francescani del vicino convento, i quali già nel Cinquecento con il loro superiore s. Benedetto il Moro (1526-1589), avevano tentato di trovare le reliquie senza riuscirvi, quindi ripresero le ricerche, aiutati da tre fedeli, finché il 15 luglio 1624 a quattro metri di profondità, trovarono un masso lungo sei palmi e largo tre, a cui aderivano delle ossa. Per ordine del cardinale arcivescovo di Palermo Giannettino Doria, il masso fu trasferito in città nella sua cappella privata, dove fu esaminato con i resti trovati, da teologi e medici; il risultato fu deludente, avendo convenuto che le ossa potevano appartenere a più corpi e poi nessuno dei tre teschi trovati, sembrava appartenere ad una donna. Il cardinale non convinto, nominò una seconda commissione; intanto Palermo fu colpita dalla peste nell’estate del 1624 mietendo migliaia di vittime (la stessa epidemia che colpì Milano e descritta dal Manzoni nei ‘Promessi sposi’). Il cardinale radunò nella cattedrale popolo e autorità e tutti insieme chiesero aiuto alla Madonna, facendo voto di difendere il privilegio dell’Immacolata Concezione di Maria, che era argomento contrastante nella Chiesa di allora e nel contempo di dichiarare s. Rosalia patrona principale di Palermo, venerando le sue reliquie, quando si sarebbero riconosciute. A tutto ciò si aggiunge la scoperta di due muratori palermitani, che lavorando nel convento dei Domenicani di S. Stefano, trovarono in una grotta di Quisquinia, il 25 aprile 1624, un’iscrizione latina a tutti ignota, che si credette incisa dalla stessa s. Rosalia, quando vi aveva abitato e che diceva: “Io Rosalia, figlia di Sinibaldo, signore della Quisquina e (del Monte) delle Rose, per amore del Signore mio Gesù Cristo, stabilii di abitare in questa grotta”; che confermava il precedente eremitaggio, seguito poi da quello sul Monte Pellegrino. L’11 febbraio 1625 la nuova commissione, stabilì che le ossa erano di una sola persona chiaramente femminile, dei tre crani, si scoprì che due erano un orciolo di terracotta e un ciottolone, mentre il terzo che sembrava molto grande, era invece ingrossato da depositi calcarei, che una volta tolti rivelarono un cranio femminile; anche la prima commissione ne riesaminò i resti e concordò con il risultato della seconda commissione. A ciò si aggiunse un prodigio, un uomo Vincenzo Bonelli essendogli morta la moglie di peste e non avendolo denunziato, fuggì sul Monte Pellegrino e qui gli apparve la “Santuzza” predicendogli la morte per peste e ingiungendogli, se voleva la sua protezione per l’anima, di dire al cardinale che non dubitasse più dell’autenticità delle reliquie e le portasse in processione per la città, solo così la peste sarebbe finita. Tornato in città, effettivamente si ammalò di peste e prima di morire confessò ciò che gli era stato rivelato. Il 9 giugno del 1625, l’urna costruita apposta per le reliquie, fu portata in processione con la partecipazione di tutta la popolazione e con grande solennità; la peste cominciò a regredire e il 15 luglio quando si fece il pellegrinaggio sul Monte Pellegrino, nell’anniversario del ritrovamento delle reliquie, non comparve più nessun caso di appestato. Il cardinale fece costruire nella cattedrale un magnifico altare, dove venne sistemata la fastosa urna d’argento massiccio con le reliquie della santa, il cui nome fu per tradizione interpretato come composto da ‘rosa’ e ‘lilia’, rosa e gigli, simboli di purezza e di unione mistica; per questo la ‘Santuzza’ è rappresentata con il capo cinto di rose. Da quel 1625 il culto fu autorizzato e rinverdito dalla Chiesa palermitana per la vergine eremita orante e contemplante sul Monte Pellegrino, quale testimonianza di eccezionale ascesi cristiana, che nei secoli non è stato mai dimenticata dal popolo palermitano. Da 350 anni i pellegrini salgono sul monte, definito da Goethe nel suo ‘Viaggio in Italia’, il promontorio più bello del mondo. Si saliva a piedi faticosamente, finché il Senato palermitano fece costruire nel 1725 un’ardita strada fra pini ed eucalipti. Palermo ha sempre onorato s. Rosalia, secondo le due festività stabilite nel 1630 da papa Urbano VIII, che le inserì nel ‘Martirologio Romano’, cioè il 15 luglio anniversario del ritrovamento delle reliquie e il 4 settembre giorno della morte della ‘Santuzza’; le feste specie quella di luglio durano una settimana, con la partecipazione di tutto il popolo e di tanti emigranti che ritornano per l’occasione. La statua della ‘Santuzza’ circondata da altre statue, troneggia sulla cima della cosiddetta ‘macchina’ che è un carro a forma di nave, sul quale vi è anche una banda musicale, che viene trasportato per la città, il tutto viene chiamato “U Fistinu”. La seconda festa del 4 settembre si svolge come un pellegrinaggio al santuario sul Monte Pellegrino, dove conglobando la grotta, si costruì un Santuario, la cui pittoresca facciata risale al XVII secolo, all’interno si sono accumulate tante opere d’arte dei vari secoli successivi; una parte è ancora a cielo aperto, le pareti sono coperte di ex voto e lapidi lasciate da illustri visitatori. Una cancellata divide questa prima parte del santuario, dalla grotta nella quale sono presenti altari e opere d’arte singolari, che ricordano la presenza della santa; di fronte al luogo dove furono trovate le reliquie della ‘Santuzza’ sorge lo stupendo altare coperto da un baldacchino, con un sontuoso tabernacolo sormontato da una statua d’argento della santa, donati dal Senato di Palermo nel 1667. Sotto l’altare si venera la statua del 1625, che rappresenta s. Rosalia giacente in atto di esalare l’ultimo respiro e che fu rivestita d’oro per disposizione del re Carlo III di Borbone (1716-1788). Alla grotta sul monte, insieme agli anonimi pellegrini, salirono a venerare la santa eremita, anche tanti illustri visitatori; autorità ecclesiastiche, principi, re, imperatori, letterati, poeti, musicisti, artisti. Le reliquie deposte nell’artistica e massiccia urna d’argento, sono conservate nel Duomo di Palermo. Taliesin, il bardo tratto da: www.santiebeati.it di Antonio Borrelli p.s. dedicato alla terra di meraviglie, di Milady Elisabeth, che ha cullato le grandi civiltà del mondo antico e moderno, sospesa tra il profumo di petali di rose e ghirlande di agrumi, di genti genuine che di torri si coronano il capo, di letteratura e poesia scondinata all'ombra di sospirosi cipressi... |
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