20-06-2012, 11.06.45 | #31 |
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LA SIGNORA DI TURINGIA: ELISABETTA D'UNGHERIA
A quattro anni di età è già fidanzata. Suo padre, il re Andrea II d’Ungheria e la regina Gertrude sua madre l’hanno promessa in sposa a Ludovico, figlio ed erede del sovrano di Turingia (all’epoca, questa regione tedesca è una signoria indipendente, il cui sovrano ha il titolo di Landgraf, langravio). E subito viene condotta nel regno del futuro marito, per vivere e crescere lì, tra la città di Marburgo e Wartburg il castello presso Eisenach. Nel 1217 muore il langravio``di Turingia, Ermanno I. Muore scomunicato per i contrasti politici con l’arcivescovo di Magonza, che è anche signore laico, principe dell’Impero. Gli succede il figlio Ludovico, che nel 1221 sposa solennemente la quattordicenne Elisabetta. Ora i sovrani sono loro due. Lei viene chiamata “Elisabetta di Turingia”. Nel 1222 nasce il loro primo figlio, Ermanno. Seguono due bambine: nel 1224 Sofia e nel 1227 Gertrude. Ma quest’ultima viene al mondo già orfana di padre. Ludovico di Turingia si è adoperato per organizzare la sesta crociata in Terrasanta , perché papa Onorio III gli ha promesso di liberarlo dalle intromissioni dell’arcivescovo di Magonza. Parte al comando dell’imperatore Federico II.``Ma non vedrà la Palestina: lo uccide un male contagioso a Otranto. Vedova a vent’anni con tre figli, Elisabetta riceve indietro la dote, e c’è chi fa progetti per lei: può risposarsi, a quell’età , oppure entrare in un monastero come altre regine , per viverci da regina, o anche da penitente in preghiera , a scelta. Questo le suggerisce il confessore. Ma lei dà retta a voci francescane che si fanno sentire in Turingia , per dire da che parte si può trovare la “perfetta letizia”. E per i poveri offre il denaro della sua dote (si costruirà un ospedale). Ma soprattutto ai poveri offre l’intera sua vita. Questo per lei è realizzarsi: facendosi come loro. Visita gli ammalati due volte al giorno, e poi raccoglie aiuti facendosi mendicante. E tutto questo rimanendo nella sua condizione di vedova, di laica. Dopo la sua morte, il confessore rivelerà che, ancora vivente il marito, lei si dedicava ai malati, anche a quelli ripugnanti: "Nutrì alcuni, ad altri procurò un letto, altri portò sulle proprie spalle, prodigandosi sempre, senza mettersi tuttavia in contrasto con suo marito". Collocava la sua dedizione in una cornice di normalità, che includeva anche piccoli gesti “esteriori”, ispirati non a semplice benevolenza, ma a rispetto vero per gli “inferiori”: come il farsi dare del tu dalle donne di servizio. Ed era poi attenta a non eccedere con le penitenze personali ,che potessero indebolirla e renderla meno pronta all’aiuto. Vive da povera e da povera si ammala, rinunciando pure al ritorno in Ungheria, come vorrebbero i suoi genitori, re e regina. Muore in Marburgo a 24 anni, subito “gridata santa” da molte voci, che inducono papa Gregorio IX a ordinare l’inchiesta``sui prodigi che le si attribuiscono. Un lavoro reso difficile da complicazioni anche tragiche: muore assassinato il confessore di lei; l’arcivescovo di Magonza cerca di sabotare le indagini. Ma Roma le fa riprendere. E si arriva alla canonizzazione nel 1235 sempre a opera di papa Gregorio. I suoi resti, trafugati da Marburgo durante i conflitti al tempo della Riforma protestante, sono ora custoditi in parte a Vienna. E’ compatrona dell’Ordine Francescano secolare assieme a S. Ludovico. Taliesin, il bardo tratto da: www.santiebeati.it di Domenico Agasso |
20-06-2012, 13.20.31 | #32 |
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MARIA, MATER GRATIAE: ELISABETTA DEL PORTOGALLO
Elisabetta nacque a Saragozza (Spagna) nel 1271 da Pietro III d'Aragona, e da Costanza, figlia di Manfredi, successo al padre, l'imperatore Federico II, nel regno di Sicilia. Al fonte battesimale le fu imposto il nome della santa prozia, regina d'Ungheria. Dopo la sua nascita si riconciliarono tra loro il padre e il nonno, Giacomo I il Conquistatore che, fino alla morte (1276), volle prendersi cura della educazione di lei. A otto anni, Elisabetta aveva già imparato a recitare ogni giorno l'ufficio divino, a soccorrere i poveri e a praticare rigorosi digiuni. La sua infanzia fu di corta durata perché, a dodici anni fu data in sposa a Dionisio il Liberale, re di Portogallo, fondatore dell'università di Coimbra e dell'ordine del Cristo. Alla corte della casa reale di Portogallo, Elisabetta non tralasciò le buone abitudini prese pur non trascurando i nuovi doveri di regina e di sposa. Continuò a levarsi di buon mattino per andare in cappella ad ascoltare la Messa in ginocchio, fare sovente la comunione, e dire l'ufficio della SS. Vergine e dei morti. Dopo pranzo ritornava in cappella per terminare l'ufficio divino, fare letture spirituali e abbandonarsi a svariate orazioni tra un profluvio di lacrime. Il tempo libero lo impegnava a confezionare suppellettili per le chiese povere, con l'aiuto delle dame di corte. A queste buone opere altre ne aggiunse di mano in mano che veniva a conoscenza delle pubbliche necessità. Non ci furono difatti chiese, ospedali o monasteri alla cui costruzione ella non contribuisse con regale generosità. Alcuni ne fece costruire, ella stessa, a Santarém e a Coimbra. La sua ultima fondazione fu una cappella in onore della SS. Vergine nel convento della Trinità, a Lisbona. Essa fu il primo santuario in cui si sia venerata l'Immacolata Concezione. Prima di morire volle pure istituire una confraternita intitolata alla SS. Trinità. Perché il suo spirito fosse sempre pronto alla contemplazione, Elisabetta digiunava abitualmente tre volte alla settimana, tutta la quaresima, tutto l'avvento e dalla festa di S. Giovanni Battista all'Assunta. I venerdì e i sabati che precedevano le feste della SS. Vergine si cibava soltanto di pane e acqua. Nella sua sete di penitenza, ella si sarebbe data ad altre austerità, se il marito glielo avesse permesso. I medici le ordinarono, per un certo tempo almeno, di abbandonare le mortificazione di gola, ma ella continuò a bere dell'acqua. Un giorno però Iddio intervenne a favore dei discepoli di Esculapio, mutando in vino una brocca d'acqua che le era stata portata. Anche la carità di Elisabetta per i poveri e i nobili decaduti fu incomparabile. Al suo elemosiniere aveva dato ordine di non mandare mai via nessun bisognoso a mani vuote. Ella fece inviare dei viveri a monasteri poveri e a regioni colpite dalle avversità; protesse gli orfani; soccorse le giovani pericolanti; tutti i venerdì di quaresima, dopo aver lavato e baciato i piedi a tredici poveri, li faceva vestire di abiti nuovi; il giovedì santo compiva la medesima opera buona a favore di tredici donne. A contatto delle sue mani e delle sue labbra, una malata guarì da una piaga al piede e uno storpio lebbroso, da entrambe le infermità. Nel 1290 Elisabetta diede alla luce una figlia, Costanza, che in seguito fu maritata a Ferdinando IV di Castiglia. L'anno dopo partorì l'erede al trono, Alfonso IV il Valoroso. Per la sua famiglia Elisabetta fu un vero angelo tutelare. Ella non si accontentò di dare dei buoni consigli ai figli, ma esortò anche il marito a governare i sudditi con giustizia e mitezza senza dare ascolto ai vani discorsi degli adulatori o ai falsi rapporti degli invidiosi. Tuttavia, dopo qualche anno passato nella concordia e nella più dolce intimità con lui, Dio permise che cominciasse, per Elisabetta, un vero calvario a causa degli illeciti amori ai quali il re, a poco a poco, si abbandonò. Elisabetta se ne afflisse più per l'offesa fatta a Dio che per l'affronto fatto a lei. Con dolcezza cercò di ricondurlo sul retto cammino e, senza uscire in amari lamenti, spinse il suo eroismo fino a curare l'educazione dei figli naturali di lui come se fossero propri. La nobiltà, temendo che i bastardi del re acquistassero troppo ascendente nel paese, eccitarono alla rivolta il figlio ereditario. Alfonso prese difatti le armi contro il padre, con immenso dolore di Elisabetta, la quale si schierò dalla parte del sovrano e cercò ripetutamente di rappacificare i due avversari. Siccome erano sordi alle sue esortazioni, ella moltiplicò le preghiere, i digiuni e anche le lettere di rimprovero al figlio. Ciononostante cortigiani mal intenzionati giunsero a far credere al re che la sua consorte aiutava segretamente il figlio ribelle. La calunnia fu creduta dal sovrano, il quale privò Elisabetta della signoria di Leiria, che le apparteneva e la confinò nella fortezza di Alemquer. Parecchi grandi del regno andarono ad offrirle i loro servigi, ma la Santa preferì affidarsi alle mani della divina Provvidenza anziché permettere di venire reintegrata nei suoi diritti con le armi. Il re riconobbe al fine il suo torto, richiamò Elisabetta e le diede in appannaggio la città di Torres-Vedras. La regina continuò ad adoperarsi affinchè nella sua famiglia ritornasse la pace. Al tempo dell'assedio di Coimbra (1319), da parte di suo figlio, la madre si portò a cavallo in mezzo ai soldati delle opposte fazioni, con un crocifisso in mano, e riuscì a riconciliare padre e figlio. La guerra ricominciò più violenta poco tempo dopo a Lisbona. Elisabetta, che preferiva la pace a tutto l'oro del mondo, montò sopra una mula e si slanciò tra i due eserciti per scongiurarli, con le parole e con le lacrime, a scendere a patti. In quelle circostanze la Santa riuscì a pacificare per sempre i due contendenti. Elisabetta aveva iniziato il suo compito di pacificatrice in occasione delle contese sorte tra suo marito e suo cognato, il turbolento Alfonso di Portalegre, a motivo di qualche possedimento. La santa aveva evitato che venissero alle mani cedendo a Dionisio parte delle sue rendite, per risarcirlo delle terre che era stato costretto a cedere al fratello. Anche presso il rè di Spagna l'intrepida regina svolse opera di pace affinchè potessero fare blocco nella lotta contro i mori. Impedì difatti una guerra tra suo marito e il genero, Ferdinando IV di Castiglia. Dionisio, alla preghiera della sposa, si convertì e passò accanto a lei gli ultimi anni di vita. Al tempo dei suoi disordini, la regina si serviva di un paggio di fiducia per far giungere le elemosine ai bisognosi. Un paggio del re, geloso di quella preferenza, decise di perderlo, accusandolo al sovrano di illecite relazioni con la regina . Dionisio gli prestò fede, se ne adombrò e decise segretamente di far morire il favorito. Un giorno, uscito a cavallo, s'imbatté in una fornace di calce. Si avvicinò agli operai e diede ad essi l'ordine di gettare subito nel fuoco il paggio che si sarebbe presentato a chiedere loro se fosse già stato eseguito il comando del sovrano. L'indomani vi mandò il paggio della regina, ma costui, passando davanti ad una chiesa, sentì suonare la campanella e vi entrò per ascoltare la Messa. Dopo un po' di tempo il re, che smaniava di sapere che fine avesse fatto il paggio, chiamò il calunniatore e lo mandò a chiedere ai fochisti della fornace se il comando del re era stato eseguito. Gli operai, credendo che quello fosse il paggio di cui il re aveva parlato loro, lo presero e lo buttarono vivo nel fuoco. Poco dopo si presentò pure il paggio votato alla morte. Appena seppe che l'ordine del re era stato eseguito, ritornò a darne notizia a chi lo aveva mandato. Il re, constatato con stupore che la sua macchinazione, per disposizione divina, aveva avuto un esito diverso da quello che si era proposto, cominciò da allora a rinsavire. Dopo la morte del marito (1325), Elisabetta rinunciò al mondo, si tagliò i capelli, vestì l'abito del terz'ordine Francescano e andò pellegrina a San Giacomo de Compostela. In suffragio del re defunto, offrì al santuario la corona d'oro che aveva portato il giorno del matrimonio, con altri ricchissimi doni. Il vescovo della città le diede in cambio un bastone di pellegrino e una borsa che la santa volle portare con sé nella tomba. Appena rientrò a corte fece fondere le sue argenterie a favore delle chiese, divise i diademi e le altre insegne regali tra la sovrana Beatrice e le sue nipoti e, a Coimbra, fece terminare la costruzione del monastero di Santa Chiara. In esso intendeva terminare la vita, ma ne fu distolta da savi sacerdoti, per ragioni di stato e per non privare tanti poveretti dei suoi aiuti. Elisabetta si accontentò di portare sempre l'abito della penitenza e di fare costruire presso il monastero un appartamento che le consentisse, con il permesso della Santa Sede, di ritirarvisi sovente a pregare, a conversare e a pranzare con le religiose. Abitualmente ne teneva cinque con sé per la recita corale dell'ufficio e la vita in comune. Nel pomeriggio Elisabetta dava udienza con una pazienza e una bontà illimitata, ai poveri, ai malati, ai peccatori che ricorrevano a lei. Per tutti aveva una parola di consolazione, un'abbondante elemosina. Nel 1333 gli abitanti di Coimbra furono ridotti, dalla carestia, a cibarsi di sorci. Elisabetta, senza prestare ascolto agli amministratori dei suoi beni che le raccomandavano la parsimonia, fece comperare per loro grandi quantità di cibarie e provvide persino che fossero seppelliti i morti, abbandonati nelle case per la grande desolazione. Quando era libera dalle opere di carità e nella notte, ella si ritirava in una stanzetta segreta. Lontana dagli sguardi indiscreti dava libero sfogo alle sue preghiere e alle sue contemplazioni. Altre volte andava a visitare i degenti nell'ospedale che aveva fatto costruire in onore di S. Elisabetta d'Ungheria e a curarli con le sue stesse mani. L'ultimo anno di vita Elisabetta pellegrinò, una seconda volta, a San Giacomo de Compostela, con due donne. Volle fare a piedi il lungo viaggio nonostante i suoi 64 anni e mendicare di porta in porta il vitto quotidiano. Al ritorno le fu annunziato che suo figlio, Alfonso re del Portogallo, e suo nipote Alfonso, re di Castiglia, si erano dichiarati guerra. Elisabetta si portò a Estremoz nella speranza di strappare parole di pace dalla bocca del figlio da portare al nipote in Castiglia, ma una violenta febbre non le lasciò nessuna speranza di vita. Si mise a letto, fece testamento alla presenza del figlio e della nuora, e ricevette il Viatico tra sospiri e lacrime, rivestita del suo abito di penitenza, inginocchiata, nonostante l'estrema debolezza, davanti all'altare eretto nel suo appartamento. Alla regina Bianca, che l'assisteva e che era stata la compagna delle sue visite ai poveri e ai malati, ella chiese che avvicinasse al suo letto una sedia per Maria SS. la quale le era apparsa radiosa, vestita di bianco, in compagnia di S. Chiara e di altre sante. Morì il 4-7-1336 dopo aver recitato il Credo e mormorato: Maria, mater gratiae. Il corpo di Elisabetta fu trasportato a Coimbra e seppellito nella chiesa delle Clarisse dove si è conservato incorrotto. Urbano VIII la canonizzò il 24 giugno 1626 Taliesin, il bardo tratto da: www.santiebeati.it di Guido Pettinati |
20-06-2012, 13.30.19 | #33 |
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AI CONFINI DEL MEDIOEVO: BEATRICE DEL PORTOGALLO
E' una santa del Portogallo, vissuta in quel periodo di grande movimento politico, storico, culturale e religioso che precedette e fu contemporaneo dell’impresa di Cristoforo Colombo e della scoperta dell’America, avvenuta nel 1492. Beatrice nacque a Campo Mayor nel 1424 in una famiglia nobile, sorella del beato Amedeo de Silva e imparentata con la famiglia reale portoghese. Accompagnò l’Infante Isabella del Portogallo come dama di onore, quando questa nel 1447 sposò Giovanni II di Castiglia; la sua bellezza e la sua virtù, attirò i nobili castigliani, che si contesero la sua amicizia e il suo amore; ciò suscitò la gelosia della regina Isabella che la maltrattò, fino a chiuderla per tre giorni in una cassapanca, mettendola a rischio di perdere la vita. Una volta liberata, fece voto di castità e di nascosto, partì diretta a Toledo; la tradizione dice che l’accompagnarono nel viaggio le apparizioni di s. Francesco d’Assisi e di s. Antonio di Padova; giunta a Toledo entrò nel monastero domenicano di S. Domenico "El Real", dove visse per circa 30 anni. Ma in lei già da tempo vi era il desiderio di fondare un nuovo Ordine religioso in onore dell’Immacolata Concezione, per questo scopo ottenne l’appoggio di Isabella la Cattolica (1451-1504), figlia di Giovanni II e dal 1474 regina di Castiglia e poi regina di Spagna nel 1479, dopo l’unione dei due regni di Castiglia e d’Aragona; la regina le donò il suo palazzo di Galiana in Toledo, con l’annessa chiesa di Santa Fè. Beatrice nel 1484 si trasferì nella nuova residenza con dodici compagne, dando così inizio ad una nuova Famiglia monastica, l'Ordine della Immacolata Concezione, la cui Regola venne scritta da lei stessa. L'Ordine fu approvato da papa Innocenzo VIII il 30 aprile 1489. Dopo aver ricevuto l’abito ed emesso i voti religiosi, morì a Toledo il 1° settembre 1490, alla vigilia della professione religiosa del primo gruppo del nuovo Ordine; precursore del culto e della teologia del dogma dell’Immacolata Concezione, che sarà proclamato circa 400 anni dopo da Pio IX. Il suo culto instauratosi spontaneamente nel mondo francescano e iberico, fu confermato con il titolo di beata il 28 luglio 1926; papa Paolo VI l’ha canonizzata il 3 ottobre 1976. Proclamandola santa nel 1976, PaoloVI ricordava ancora: «Nessuna parola di questa santa è pervenuta a noi nelle sue sillabe testuali, nessuna eco della sua voce»; ma la sua opera è viva nella«nuova e tuttora fiorentissima famiglia religiosa da lei fondata». Taliesin, il bardo tratto da www.santiebeati.it di Antonio Borrelli |
20-06-2012, 13.37.43 | #34 |
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AGLI ALBORI DEL MEDIOEVO: GENOVEFFA DALLE BIANCHE GUANCE
La vita della vergine parigina Genèvieve è narrata nella Vita Genovefae, scritta circa venti anni dopo la sua morte. Il documento, seppur non scritto da uno storico e contenente aspetti leggendari, è considerato attendibile. Genèvieve o Genoveffa è nata a Nanterre, nei dintorni di Parigi, intorno al 422. A sei anni fu consacrata a Dio da san Germano di Auxerre, in transito per recarsi in Inghilterra, dove dilagava l'eresia pelagiana. A 15 anni Genoveffa si consacrò definitivamente a Dio, entrando a far parte di un gruppo di vergini votate a Dio che, pur vestendo un abito che le distingueva dalle altre donne, non vivevano in convento, ma nelle loro case, dedicandosi ad opere di carità e penitenze. Genoveffa faceva molto sul serio: prendeva cibo solo il giovedì e la domenica e dalla sera dell'Epifania al giovedì santo non usciva mai dalla sua cameretta. Nel 451 Parigi era sotto la minaccia degli Unni di Attila ed i parigini si apprestavano alla fuga. Genoveffa li convinse a restare in città, confidando nella protezione del cielo. Non tutti erano però daccordo con Genoveffa, al punto che la vergine rischiò di essere linciata, ma la minaccia degli Unni passò, lasciando però un altro problema serio, quello della carestia. Genoveffa, salì allora su un battello, risalì la Senna e procurò le granaglie presso i contadini, distribuendole poi generosamente. Entrata in amicizia con i re Childerico e Clodoveo, sfruttò la sua posizione per ottenere la grazia per numerosi prigionieri politici. Morì intorno al 502. Sulla sua tomba venne eretto un modesto oratorio di legno, che fu il primo nucleo di una celebre abbazia, trasformata in basilica da re Luigi XV. Genoveffa era particolarmente invocata in occasione di gravi calamità, come la peste, per implorare la pioggia e contro le inondazioni della Senna. Durante la rivoluzione francese i giacobini trasformarono la basilica di S. Genoveffa nel mausoleo dei francesi illustri, con il classico nome di Pantheon, distruggendone parzialmente le reliquie. Il culto a santa Genoveffa continuò nella vicina chiesa di Saint-Etienne-du-Mont e rimase molto popolari in tutta la Francia e in particolarmente a Parigi, città di cui la santa è patrona. Taliesin, il bardo tratto da www.santiebeati.it di Maurizio Masinato |
20-06-2012, 13.56.33 | #35 |
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ORGOGLIO DI FAMIGLIA: CESARIA DI ARLES
Nata nei dintorni di Chalon-sur-Saone intorno al 465, C. visse per un certo tempo in un chiostro di Marsiglia; il fratello s. Cesario, creato vescovo di Arles nel 502, pensò a lei come alla futura superiora della comunità monastica femminile che intendeva introdurre nella sua città. Il primo monastero di religiose, però, costruito nei pressi di Arles, non era ancora ultimato che fu distrutto nella guerra tra Franchi e Burgundi (508) Cesario non si perse di coraggio e, terminate le lotte, fece costruire un secondo edificio nella stessa località del primo: dedicato a s. Giovanni, il monastero fu inaugurato il 26 agosto 512 e la sua direzione venne affidata a Cesaria, chiamata da Marsiglia. Per questa comunità Cesario redasse un'eccellente regola, i cui cardini sono la rinunzia a ogni proprietà personale, la perpetua clausura, I'esenzione dalla giurisdizione episcopale, I'ubbidienza alla superiora, detta matèr. Cesaria ebbe: molte discepole e molte discepole e governò la comunità per oltre dieci anni: morì, infatti, poco ternpo dopo la dedicazione: della basilica di S. Maria (524), forse nel 525, e fu sepolta presso il sarcofago che il fratello si era riservato. Onorata come santa già ai tempi di Venanzio Fortunato, che ne associa il nome a quello di Agnese, Cesaria è ricordata nel Martirologio Romano al 12 gennaio. Taliesin, il bardo tratto da: www.santiebeati.it di Gilbert Bataille |
20-06-2012, 14.08.03 | #36 |
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LE CAMPANE DI CASTELFIORENTINO: VERIDIANA ATTAVANTI
S. Verdiana (o Veridiana e Viridiana) è personaggio ben diverso da quello immortalato da Luis Bunuel in uno dei suoi film più caratteristici. La santa nacque a Castelfiorentino nel 1182, ed è perciò coetanea di S. Francesco d'Assisi, che secondo la tradizione le fece visita nel 1221, ammettendola al Terz'ordine Francescano. Benchè decaduta, la nobile famiglia degli Attavanti da cui ella nacque a Castelfiorentino godeva ancora di un certo prestigio. Un ricco parente la volle perciò accanto come amministratrice. Dedita però fin dall'infanzia all'orazione e all'astinenza, ella non poteva concepire questo suo incarico che come un'accresciuta possibilità di esercitare la carità. Qualche volta la Provvidenza dovette intervenire con dei prodigi. Si racconta che un giorno suo zio aveva accumulato e rivenduto una certa quantità di derrate, il cui prezzo era salito alle stelle a causa di una grave carestia. Ma quando il compratore si presentò a ritirare il materiale acquistato, il magazzino risultò vuoto, perché nel frattempo Verdiana aveva donato tutto ai poveri. L'irritata reazione dello zio ebbe come unica risposta l'invito ad attendere ventiquattr'ore: effettivamente il giorno dopo Dio premiava la carità e la confidenza della fanciulla facendo ritrovare intatto il raccolto così generosamente donato. Verdiana si recò poi in pellegrinaggio a Compostella, presso la tomba di S. Giacomo, che insieme a Roma era la grande meta dei pellegrini, specie dopo la perdita definitiva della Terrasanta. Ritornata a Castelfiorentino e sentendo vivo desiderio di solitudine e di penitenza, i suoi paesani, per trattenerla vicino, le edificarono in riva all'Elsa, attigua all'oratorio di S. Antonio, una celletta nella quale S. Verdiana rimase reclusa per 34 anni. Da una finestrella assisteva alla Messa, parlava con i visitatori e riceveva lo scarso cibo di cui si nutriva. Attraverso questo spiraglio, secondo una tradizione raccolta pure dai pittori, penetrarono negli ultimi anni della sua vita due serpenti, che tormentarono la santa, la quale, ad accrescimento delle sue mortificazioni, mai ne rivelò la presenza. Si racconta che la sua pia morte, avvenuta il 1° febbraio 1242, venne annunciata dal suono improvviso e simultaneo delle campane di Castelfiorentino non mosse da mano umana. Il culto di S. Verdiana, rappresentata con gli abiti della congregazione Vallombrosana, venne approvato da Clemente VII nel 1533 ed è tuttora popolare in Toscana. Taliesin, il bardo tratto da www.santiebeati.it di Piero Bargellini |
20-06-2012, 14.12.39 | #37 |
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I DIALOGHI DI UNA COLOMBA: SCOLASTICA DA NORCIA
Il nome di Scolastica, sorella di Benedetto da Norcia, richiama al femminile gli inizi del monachesimo occidentale, fondato sulla stabilità della vita in comune. Benedetto invita a servire Dio non già "fuggendo dal mondo" verso la solitudine o la penitenza itinerante, ma vivendo in comunità durature e organizzate, e dividendo rigorosamente il proprio tempo fra preghiera, lavoro o studio e riposo. Da giovanissima, Scolastica si è consacrata al Signore col voto di castità. Più tardi, quando già Benedetto vive a Montecassino con i suoi monaci, in un altro monastero della zona lei fa vita comune con un gruppetto di donne consacrate. La Chiesa ricorda Scolastica come santa, ma di lei sappiamo ben poco. L’unico testo quasi contemporaneo che ne parla è il secondo libro dei Dialoghi di papa Gregorio Magno (590-604). Ma i Dialoghi sono soprattutto composizioni esortative, edificanti, che propongono esempi di santità all’imitazione dei fedeli mirando ad appassionare e a commuovere, senza ricercare il dato esatto e la sicura referenza storica. Inoltre, Gregorio parla di lei solo in riferimento a Benedetto, solo all’ombra del grande fratello, padre del monachesimo occidentale. Ecco la pagina in cui li troviamo insieme. Tra loro è stato convenuto di incontrarsi solo una volta all’anno. E Gregorio ce li mostra appunto nella Quaresima (forse) del 542, fuori dai rispettivi monasteri, in una casetta sotto Montecassino. Un colloquio che non finirebbe più, su tante cose del cielo e anche della terra. L’Italia del tempo è una preda contesa tra i Bizantini del generale Belisario e i Goti del re Totila, devastata dagli uni e dagli altri. Roma s’è arresa ai Goti per fame dopo due anni di assedio, in Italia centrale gli affamati masticano erbe e radici. A Montecassino passano vincitori e vinti; passa Totila attratto dalla fama di Benedetto, e passano le vittime della violenza, i portatori di tutte le disperazioni, gli assetati di speranza... Viene l’ora di separarsi. Scolastica vorrebbe prolungare il colloquio, ma Benedetto rifiuta: la Regola non s’infrange, ciascuno torni a casa sua. Allora Scolastica si raccoglie intensamente in preghiera, ed ecco scoppiare un temporale violentissimo che blocca tutti nella casetta. Così il colloquio può continuare per un po’ ancora. Infine, fratello e sorella con i loro accompagnatori e accompagnatrici si separano; e questo sarà il loro ultimo incontro. Tre giorni dopo, leggiamo nei Dialoghi, Benedetto apprende la morte della sorella vedendo la sua anima salire verso l’alto in forma di colomba. I monaci scendono allora a prendere il suo corpo, dandogli sepoltura nella tomba che Benedetto ha fatto preparare per sé a Montecassino; e dove sarà deposto anche lui, morto in piedi sorretto dai suoi monaci, intorno all’anno 547. Taliesin, il bardo tratto da www.santiebeati.it di Domenico Agasso |
20-06-2012, 14.21.25 | #38 |
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L'IMPERATRICE DI FERRO: CUNEGONDA DI BAVIERA
Le Chiese d’Oriente e d’Occidente in due millenni di cristianesimo hanno attribuito l’aureola della santità quale corona eterna a non poche imperatrici, e talvolta anche ai loro mariti, che sedettero sui troni di Roma, di Costantinopoli e del Sacro Romano Impero. Sfogliando le pagine dell’autorevole Bibliotheca Sanctorum e della Bibliotheca Sanctorum Orientalium possiamo trovare i loro nomi: Adelaide, Alessandra e Serena (presunte mogli di Diocleziano), Ariadne, Basilissa (o Augusta), Cunegonda, Elena, Eudossia, Irene d’Ungheria (moglie di Alessio I Comneno), Irene la Giovane (moglie di Leone IV Chazaro), Marciana, Pulcheria, Placilla, Riccarda, Teodora (moglie di Giustiniano), Teodora (moglie di Teofilo l’Iconoclasta), Teofano. Anche nel XX secolo non sono mancate sante imperatrici: Sant’Alessandra Fedorovna, moglie dell’ultimo zar russo canonizzata dal Patriarcato di Mosca, la Serva di Dio Elena di Savoia, imperatrice d’Etiopia, ed in fama di santità è anche Zita di Borbone, moglie del Beato Carlo I d’Asburgo ed ultima imperatrice d’Austria. Santa Cunegonda, oggi festeggiata, è venerata anche insieme al marito, l’imperatore Enrico II, la cui festa è però celebrata separatamente al 13 luglio. Le fonti relative a questa santa sono purtroppo costituite da notizie sparse, tramandate da alcuni cronisti contemporanei quali Tietmaro di Mersburgo e Rodolfo il Glabro, nonché da una vita composta da un canonico di Bamberga oltre un secolo dopo la morte. I genitori diedero alla figlia, sin dai primi anni, una profonda educazione cristiana. All’età di circa vent’anni, Cunegonda sposò il duca di Baviera, Enrico appunto, che nel 1002 venne incoronato re di Germania e nel 1014 sacro romano imperatore. Su questo matrimonio, specialmente al principio del XX secolo, sono sorte parecchie polemiche: in alcuni testi antichi infatti, tra i quali la bolla di papa Innocenzo III, si narra che i due coniugi fecero voto di perpetua verginità e si parlò così di “matrimonio di San Giuseppe” e per tale motivo a Cunegonda è stato talvolta attribuito il titolo di “vergine”, ma secondo altri autori moderni una simile qualifica non corrisponderebbe alle narrazioni di contemporanei come Rodolfo il Glabro. Secondo quest’ultimo, I fatti, Enrico si accorse della sterilità della moglie, ma nonostante il matrimoniale germanico ammettesse il ripudio, non volle usare questo diritto per la grande pietà e santità che riscontrava nella consorte e preferì continuare a vivere insieme a lei pur senza speranza di prole. Fu proprio ciò, unitamente alla fama di santità che circondò i due coniugi, a far nascere in seguito la leggenda del cosiddetto “matrimonio di San Giuseppe”. Nella Vita e nella bolla pontificia di canonizzazione si legge che Cunegonda fu oggetto di una grande calunnia di infedeltà coniugale ed Enrico, per provarne l’innocenza, decise di sottoporla alla prova del fuoco. La moglie accettò e passò miracolosamente indenne a piedi nudi sopra vomeri infuocati. L’imperatore chiese perdono all’augusta consorte per aver dato troppo credito agli accusatori e da quel momento visse in piena stima e fiducia nei suoi confronti. Non ci è dato sapere quale validità storica abbia concretamente questo episodio, resta comunque il suo alto valore simbolico. Il 10 agosto 1002 a Paderborn Cunegonda fu incoronata regina e nel 1014 si recò a Roma con il marito per ricevere la corona imperiale dalle mani di papa Benedetto VIII, il 14 febbraio di quell’anno. La vita dell’imperatrice costituì un mirabile esempio di carità, umiltà e mortificazione, virtù che la caratterizzarono in molteplici manifestazioni. Assecondata dal pio marito, nel 1007 fece erigere il duomo di Bamberga e nel 1021 il monastero di Kaufungen, fondato in seguito ad un voto fatto durante una gravissima malattia da cui uscì pienamente ristabilita. Proprio in questo monastero benedettino volle ritirarsi nel 1025, addolorata per la perdita del marito. Nel giorno anniversario della morte di Enrico II, Cunegonda convocò parecchi vescovi per la dedicazione della chiesa di Kaufungen, cui donò una reliquia della Santa Croce. Dopo la lettura del Vangelo, si spogliò delle insegne e degli abiti imperiali, si fece tagliare i capelli e vestì il rozzo saio benedettino. Continuò, come già aveva fatto in precedenza, a spendere il suo patrimonio nell’edificazione di nuovi monasteri, decorando chiese ed aiutando i poveri. Intrapresa dunque la vita monastica, visse in assoluta umiltà come se mai fosse stata addirittura imperatrice. Prese a trascorrere gran parte delle sue giornate in preghiera e nella lettura delle Sacre Scritture, non disdegnando però i lavori manuali ed i servizi più umili. Un compito assegnatole che gradì particolarmente fu la visita alle consorelle ammalate per portare loro conforto ed assistenza. Si distinse inoltre per la pratica severa della penitenza: asumeva infatti esclusivamente il cibo indispensabile per sopravvivere, rifiutando ciò che poteva solleticare in qualche maniera il palato. Sino al termine dei suoi giorni Cunegonda condusse questo stile di vita. Morì infine il 3 marzo di un anno imprecisato, generalmente viene preferito il 1033 anziché il 1039. Le sue spoglie mortali trovarono degna sepoltura presso quelle del marito nella cattedrale di Bamberga. Nei primi anni non fu oggetto di grande culto, ma dal XII secolo la venerazione nei suoi confronti crebbe grandemente fino a superare quella tributata già in precedenza ad Enrico. La causa di canonizzazione fu introdotta sotto il pontificato di Celestino III, ma solo Innocenzo III con bolla del 29 marzo 1200 ne approvò ufficialmente il culto. Nella diocesi di Bamberga nel XV secolo ben quattro solenni celebrazioni erano dedicate alla memoria della santa imperatrice: il 3 marzo (anniversario della morte), il 29 marzo (anniversario della canonizzazione), il 9 settembre (traslazione delle reliquie) ed il 1° agosto (commemorazione del primo miracolo). Taliesin, il bardo tratto da www.santiebeati.it di Fabio Arduino |
20-06-2012, 15.07.40 | #39 |
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LA FANCIULLA DEGLI ANGELI: COLETTA DI CORBIE
Chiamata Nicoletta (familiarmente Colette) in onore di Nicola di Bari, intraprende la sua particolare esperienza religiosa a 18 anni, dopo la morte dei genitori. E la conclude a 25 su consiglio del francescano Enrico di Baume, tornando fra le clarisse, dopo essere stata tra le beghine e le terziarie francescane e aver tentato anche una esperienza da eremita, perché si sente chiamata alla riforma degli ordini religiosi istituiti da san Francesco e santa Chiara. Questa santa francescana, fu per molti aspetti una bambina prodigiosa e dotata di straordinari carismi: della vita di questa suora, che con eroica fede compì le richieste di Dio, sono note le estasi, levitazioni, profezie, sguardo al cuore e rivelazioni sulla vita dei defunti nell’aldilà nonché sorprendenti miracoli, fra cui anche resurrezioni. Fu anche nota la sua straordinaria volontà nel rispettare le originali leggi severe dell’ordine delle clarisse. Non può quindi stupire il fatto che, in tale esistenza, si siano verificate diverse volte interventi da parte degli angeli. Questa santa fu regalata ai suoi genitori, in quanto sua madre la ebbe quando aveva già 60 anni, nonostante il suo desiderio di un figlio e anni di preghiera per averlo, non era mai stato mai esaudito. Dopo l’intercessione dell’allora tanto venerato S. Nicola di Bari, l’anziana signora il 13 gennaio 1381 concepì la bambina, che chiamò, per ricordare il Santo, Nicoletta, abbreviata con Coletta. Il luogo di nascita della santa Coletta fu Corbie nelle Fiandre, dove suo padre Roberto Boellet lavorava come carpentiere nel monastero benedettino. Già da bambina, Coletta fu particolarmente seria e si impegnava in opere di carità e mortificazione. La ragazza, dopo varie esperienze religiose, entrò, dopo la morte dei genitori, nel terzo ordine di S. Francesco, conducendo, in seguito, una vita di ancora maggiore abnegazione e penitenza. Dalla divina provvidenza le venne assegnato il compito di riformare l’ordine delle clarisse, la cui disciplina lasciava in alcune parti a desiderare. Per questo scopo passò all’ordine delle clarisse e fece nel 1406 a Nizza, davanti a Papa Benedetto XIII (Petrus de Luma), la professione dei voti. Da egli ottenne tutti i permessi per le necessarie riforme dell’ordine. Noncurante di tutti gli ostacoli, riuscì a realizzarle, riportando molti monasteri alla originale severità delle regole dell’ordine. Fondò inoltre 17 nuovi monasteri, le cui religiose si chiamano da allora ‘le colette’. Il francescano Pietro de Vaux, che la conosceva personalmente molto bene e che fu presente al momento della sua morte, il 6 marzo del 1447 a Gent (Belgio) racconta anche, oltre a tanti altri miracolosi eventi della vita di S. Coletta, di diverse apparizioni angeliche: diversi benefattori di S. Coletta, attaccati nel peggior dei modi da persone di animo cattivo, furono, in seguito alle preghiere di S. Coletta, protetti e tutelati dagli angeli. Anche lei stessa ricevette più di una volta l’aiuto e la protezione, tangibili e vistosi, degli angeli durante difficili prove ed afflizioni, soprattutto in momenti un cui fu perseguitata da spiriti maligni. Durante la morte di S. Coletta si sentì nei monasteri riformati e da lei particolarmente amati un canto meraviglioso degli angeli, durante il quale uno di loro diffuse il messaggio: ”la venerabile suora Coletta è tornata dal Signore.” Una suora, avente anch’essa particolari virtù e carismi, vide, al momento della morte della S. Coletta, una grande schiera celeste, nel cui centro l’anima della defunta venne portata con meravigliose melodie alla beatitudine di Dio. Papa Pio VII santificò Coletta, che giustamente viene chiamata la seconda madre delle clarisse, il 24 maggio del 1807. Il suo corpo riposa a Poligny. Taliesin, il bardo tratto da: www.santiebeati.it di Don Marcello Stanzione |
20-06-2012, 15.14.42 | #40 |
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LA PRINCIPESSA POVERA: AGNESE DI BOEMIA
Giovanni Paolo II, durante il suo lungo pontificato, se da un lato non ha mancato di proporre agli uomini di oggi dei modelli di santità a loro vicini nel tempo, non ha però disdegnato anche di elevare agli onori degli altari alcune significative figure visute nei primi secoli del secondo millenio, tra le quali la principessa Sant’Agense di Boemia. Figlia del sovrano boemo Premysl Otakar I e della regina Costanza, sorella di Andrea II re d'Ungheria, Agnese nacque a Praga nel 1211. Sin dall’infanzia fu oggetto di svariati progetti di fidanzamento indipendentemente dalla sua volontà, cosa comune a quel tempo meramente per speculazioni politiche e convenienze dinastiche. All’età di tre anni fu affidata alle cure della duchessa di Slesia, la celebre Santa Edvige, che l’accolse nel monastero cistercense di Trzebnica e le insegnò i primi elementi della fede cristiana. Tre anni dopo fece ritorno a Praga e venne poi affidata alle monache premonstratensi di Doksany ove ricevette un’adeguata istruzione. Nel 1220, essendo promessa sposa di Enrico VII, figlio dell'imperatore Federico II Barbarossa, Agnese fu condotta a Vienna presso la corte del duca d’Austria: qui visse sino al 1225 rimanendo sempre fedele ai principi e ai doveri della morale cristiana. Rescisso infine il patto di fidanzamento, ritornò a Praga ove poté dedicarsi ad una più intensa vita di preghiere e di opere caritative. Dopo una matura riflessione, decise di consacrare a Dio la sua verginità. Pervennero alla corte di Praga nuove proposte nuziali per la giovane principessa boema: quella del re inglese Enrico III, che svanì, e quella del Barbarossa presentata prima a re Otakar nel 1228 ed una seconda volta a re Venceslao nel 1231. Papa Gregorio IX, cui Agnese aveva chiesto protezione, intervenne riconoscendo il voto di castità della principessa, che in tal modo acquistò la libertà e la felicità di consacrarsi a Dio libera dai sotterfugi del mondo secolare. In quel periodo giungevano a Praga quali predicatori i Frati Minori, grazie ai quali venne a conoscenza della vita spirituale che conduceva in Assisi la vergine Santa Chiara secondo lo spirito francescano. Rimase affascinata da questo modello e decise di imitarne ad ogni costo l’esempio: usufruendo dei propri beni fondò tra il 1232 ed il 1233 a Praga l’ospedale di San Francesco e per dirigerlo l’Ordine dei Crocigeri della Stella Rossa. Allo stesso tempo fondò il monastero di San Francesco per le “Sorelle Povere o Damianite”, ove lei stessa entrò l’11 giugno 1234, giorno di Pentecoste. Agnese professò duqnue solennemente i voti solenni di castità, povertà ed obbedienza, pienamente consapevole del valore eterno di questi consigli evangelici, e si cimentò nel praticarli con esemplare fedeltà per tutti i suoi giorni. La verginità finalizzata al regno dei cieli costituì l’elemento fondamentale della sua spiritualità. Lo spirito di povertà, che già in precedenza l’aveva indotta a distribuire ai poveri i suoi beni, la spinse a rinunciare totalmente ad ogni proprietà per seguire Cristo povero ed ottenne inoltre che nel suo monastero si praticasse addirittura l’esproprio collettivo. Lo spirito di obbedienza la condusse a conformare sempre più la sua volontà a quella divina che scopriva nella lettura del Vangelo e nella Regola di vita che la Chiesa le aveva donato. Insieme a Santa Chiara si adoperò per ottenere l’approvazione di una nuova ed apposita Regola che, dopo fiduciosa attesa, ricevette e professò con estrema fedeltà. Poco dopo la professione Agnese divenne badessa del monastero, ufficio che dovette conservare per tutta la vita, esercitandolo con umiltà e carità, con saggezza e zelo, considerandosi sempre come “sorella maggiore” delle monache sottoposte alla sua autorità. La notizia dell’ingresso di Agnese in monastero suscitò ammirazione in tutta ammirazione Europa e tutti coloro che ebbero modo di entrare in contatto con lei poterono testimoniare le sue virtù, come concordemente attestano anche le memorie biografiche: specialmente ammirato era l’ardore della sua carità verso Dio e verso il prossimo, “la fiamma viva dell’amore divino che ardeva continuamente nell'altare del cuore di Agnese, la spingeva tanto in alto, per mezzo dell'inesauribile fede, da farle ininterrottamente cercare il suo Diletto” e si esprimeva in modo peculiare nel fervore con cui adorava i misteri dell’Eucaristia e della Croce del Signore, nonché nella devozione filiale alla Madonna contemplata nel mistero dell’Annunciazione. L’amore del prossimo, continuò anche dopo la fondazione dell’ospedale a tenere spalancato il suo cuore generoso ad ogni forma di aiuto cristiano. Amò la Chiesa implorando dalla bontà di Dio per i suoi figli i doni della perseveranza nella fede e della solidarietà cristiana. Collaborò con i papi del sue tempo, che per il bene della Chiesa non mancavano di sollecitare le sue preghiere e le sue mediazioni presso i sovrani boemi, suoi familiari. Nutrì sempre un profondo amore per la sua patria, che beneficiò con opere caritative individuali e sociali, nonché con la saggezza dei suoi consigli sempre volti ad evitare conflitti di ogni sorta ed a promuovere la fedeltà alla religione cattolica dei suoi padri. Negli ultimi anni di vita Agnese sopportò con immutata pazienza i molteplici dolori che afflissero lei e l’intera famiglia reale, il monastero e la Boemia, causati da un infausto conflitto e dalla conseguente anarchia, nonché dalle calamità naturali che si abbatterono sulla regione e la conseguente carestia. Morì infine santamente nel suo monastero il 2 marzo 1282. Numerosi miracoli furono attribuiti all’intercessione della principessa defunta, ma il culto tributatole sin dalla morte ebbe il riconoscimento papale solo il 28 novembre 1874 con decreto del Beato Pio IX. Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, il Papa del Secolo, ha infine canonizzato Agnese di Boemia il 12 novembre 1989 nella Basilica Vaticana. Taliesin, il bardo tratto da www.santiebeati.it di Fabio Arduino |
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