05-07-2012, 18.56.52 | #71 |
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grazie per questa carezza...certamente la piccola ha occhi per vedere molto lontano, una bambina di grande personalità direi
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"Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte". E.A.Poe "Ci sono andata apposta nel bosco. Volevo incontrare il lupo per dirgli di stare attento agli esseri umani"...cit. "I am mine" - Eddie Vedder (Pearl Jam) "La mia Anima selvaggia, buia e raminga vola tra Antico e Moderno..tra Buio e Luce...pregando sulla Sacra Tomba immolo la mia vita a questo Angelo freddo aspettando la tua Redenzione come Immortale Cavaliere." Altea |
12-07-2012, 17.20.45 | #72 |
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LA LEGGENDA DI MONTEBELLO: GUENDALINA MALATESTA
Guendalina (? 1370 - 21 giugno 1375), meglio conosciuta col soprannome di Azzurrina, fu la figlia di un certo Ugolinuccio, signore di Montebello (RN). Solitamente padre e figlia sono indicati col cognome Malatesta, famiglia signorile di Rimini che allora controllava anche Montebello, ma non si hanno fonti storiche che sanciscano tale parentela. Scomparsa prematuramente, alimenta una leggenda popolare molto conosciuta in Romagna La leggenda di Azzurrina sarebbe stata tramandata oralmente per tre secoli, presumibilmente venendo di volta in volta distorta, ampliata, abbellita. Solo nel '600 un parroco della zona la mise per iscritto assieme ad altre leggende e storie popolari della bassa Val Marecchia. Guendalina era albina. La superstizione popolare del tempo collegava l'albinismo con eventi di natura magica se non diabolica. Per questo il padre aveva deciso di farla sempre scortare da un paio di guardie e non la faceva mai uscire di casa per proteggerla dalle dicerie e dal pregiudizio popolare. La madre le tingeva ripetutamente i capelli con pigmenti di natura vegetale estremamente volatili. Questi, complice la scarsa capacità dei capelli albini di trattenere il pigmento, avevano dato alla bimba riflessi azzurri che ne originarono il soprannome di Azzurrina. La leggenda narra che il 21 giugno del 1375, nel giorno del solstizio d'estate, Azzurrina giocava nel castello di Montebello con una palla di stracci mentre fuori infuriava un temporale. Era vigilata da due armigeri di nome Domenico e Ruggero. Secondo il resoconto delle guardie la bambina inseguì la palla caduta all'interno della ghiacciaia sotterranea. Avendo sentito un urlo le guardie accorsero nel locale entrando dall'unico ingresso ma non trovarono traccia della bambina. Il suo corpo non venne più ritrovato. La leggenda vuole che il fantasma della bambina sia rimasto intrappolato nel castello e che torni a farsi sentire nel solstizio d'estate di ogni anno lustro (cioè che finisce per 0 e 5). p.s. dedicato a quella legione di meravigliose creature così uguali eppure così diverse che hanno sfiorato il respiro della vita, stroncate da un tempo ostile e superstizioso che, dichiarandole streghe e maledette, cancellò loro il sorriso... Taliesin, il bardo |
12-07-2012, 17.30.46 | #73 |
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Sir Taliesin,
la storia di Azzurrina mi fa sempre rabbrividire, la conoscevo già, perchè nel mio piccolo spazio virtuale o regno virtuale addirittura qualcuno vi ha messo le foto di quella quasi grotta sotterranea, che io ho subito preferito non guardare tanto il volto di bambina sembra perfetto. Che sia vero o mistero? Come sempre..è tutta una altra storia.
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13-07-2012, 10.37.34 | #74 |
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Milady che oggi gli Uomini chiamano Dea,
nell'estate dell'anno del signore duemilatre, un anno molto particolare nel linguaggio degli uomini cacciatori di fantasmi, volli giungere tra le braccia del magnifico maniero del Montefeltro incastonato nella pietra viva... Riuscii con destrezza a divincolarmi dalle moderne guardie sui torrioni e sui banconi del commercio di portineria e soprattutto dall'improbabile ed immancabile guida turisca, specchietto di una storicità virtuale. Raggiunsi così il corridoio angusto, ombroso e la famosissima porticina dove la piccola Guendalina sarebbe scomparsa inseguendo la sua palla... C'erano degli uomini neri dall'aspetto malvagio che con bizzarre tecnologie voleva ricostruire non solo la sua voce ma anche il suo volto, immortalandola nelle loro oscene creature elettroniche, imprigionandola in un universo parallelo, uccidendola per la seconda volta... Quando mi videro arrivare, forse per il mio vestire bizzarro, forse per lo strumento da cui raramente mi separo, si presero spavento ed indietreggiarono poichè non si aspettavano certo quella visita solitaria e fuori schema convenzionale... Li tranquillizzai, ma allo stesso tempo ammonii aspramente le loro squallide azioni di disturbo verso la violazione stessa della Morte.... E quando mi chiesero chi credevo di essere per rivolgermi in maniera tanto irriverente a cotanti dottori e tecnici futuristici, io risposi dando loro le spalle "...il suo cantore..." Nell'uscire dal maniero nello sconforto e nella depressione cosmica che mi aveva invaso, mi parve di vedere sul muro del corridoio due occhi azzurri che mi sorridevano ed io capii che quello che avevo fatto, anche se poco cosa al cospetto della stupidità umana, era cosa buona... Ma questa, come dite giustamente voi Milady, è davvero un'altra storia... Taliesin, il bardo |
13-07-2012, 11.50.07 | #75 |
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Sebbene raramente io mi permetta di interrompere, devo dirvi, Taliesin, che questa trattazione si fa di giorno in giorno più interessante.
Ringraziandovi, dunque, per tante e tali straordinarie donne di cui ci mostrate con tanta dovizia i volti e gli animi... colgo anche l'occasione per rimandarvi ad una precedente discussione in cui si era parlato dell'affascinante e terribile storia di Azzurrina, qualora vi interessi: http://www.camelot-irc.org/forum/showthread.php?t=261
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** Talia ** "Essere profondamente amati ci rende forti. Amare profondamente ci rende coraggiosi." |
13-07-2012, 12.21.36 | #76 |
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Signora che Danzate tra le Sudate Carte,
come potrebbe non interessarmi il vostro puntuale consiglio, visto che proviene da quell'anima colma di pietas cristiana che solo lo sconfinato universo femminile può trasmettere? Iniziai a scrivere Donne nel Medioevo tanti anni fa quando il collegamento virtuale che trasmette le emozioni nel tempo e nello spazio non esisteva, attorno ai fuochi d'autunno o presso gli umili bivacchi estivi, all'ombra di una primavera serena e senza acciacchi... Non è un caso che le mie canzoni spesso parlano di quelle Donne e non è certamente un caso, e lo confesso oggi dopo tanto tempo e senza modestia alcuna, che sapere scrivere qualcosa di Loro l'ho potuto fare solo grazie a quella parte femminile che il Signore del cielo e degli acquitrini ha voluto donarmi... Grazie per il vostro prezioso aiuto, con rispetto... Taliesin, il bardo |
13-07-2012, 19.32.08 | #77 |
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Sir Taliesin grazie per aver ampliato la storia di Azzurrina con il vostro vissuto..sono certa che ella, vi stia ringraziando con quegli occhi azzurri per il rispetto portato.
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19-07-2012, 14.15.09 | #78 |
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Continua il nostro viaggio nella memoria di Donne nel Medioevo, e dopo l'emozione scaturita dal sapiente calamaio di Lady Altea, voglio narrarvi la breve storia apocrifa di una fanciulla, la prima colpevole del reato di sapere leggere e scrivere le scienze per far nascere i bambini...
Taliesin, il bardo IL PRIMO SANTO ROGO: FINNICELLA DA ROMA Rifugio dei peccatori. Vessillo dei combattenti. Medicina degli infermi. Sollievo dei sofferenti. Onore dei credenti. Splendore degli evangelizzanti. Mercede degli operanti. Soccorso dei deboli. Sospiro dei meditabondi. Aiuto dei supplicanti. Debolezza dei contemplanti. Gloria dei trionfanti. In totale fa dodici. Esattamente come i raggi del sole che splende d’oro nel campo azzurro ormai quasi sbiadito della tavoletta con la croce. JHS, sta scritto sul legno. E’ l’emblema della devozione a Nostro Signore. Sua è la croce riprodotta sulla tavoletta. A Lui vanno le labbra dei fedeli, che uno dopo l’altro si inginocchiano supplici a baciare la santa effigie, il Cristogramma che il buon frate porge alle masse adoranti durante e dopo la predicazione. Chi adora la croce si disfa del demonio, salmodia il prete. Chi bacia il legno santo abbandona i mali della terra. Ed a Roma, nell’estate del 1426 c’è un disperato bisogno di purificazione. Ora che la peste ha steso le sue ali nere sulla città, ora che i morti si accatastano ai bordi delle strade lerce, ora l’Urbe ha più bisogno dei suoi eroi, e massimamente dei santi che la riavvicinino alla perduta grazia di Dio. E quel toscano, partorito nel secolo precedente nella casa dei senesi Albizzeschi in quel di Massa Marittima, fa proprio al caso del popolo. Bernardo, si chiamerebbe. Ma un po’ per la statura - che non è certo quella di un gigante, un po’ per quel saio immenso e lacero - indossato quando era ancora poco più che un ragazzino ventiduenne, tutti lo indicano con il diminutivo. Bernardino. E’ diventato adulto in fretta, Bernardino. Rimasto presto orfano, ha fatto ritorno alle sue origini, riparando da Massa a Siena per abitare nel palazzo delle zie, agiate vecchine che lo hanno sostenuto negli studi e rifocillato a dovere. Nel 1402, con l’abito monacale ancora fresco indosso, ha iniziato a girare in lungo ed in largo per l’Italia del nord. E’ solo un fraticello, dicono di lui quando lo incontrano. Poi apre bocca e chi se lo trova davanti allibisce. E’ il fervore di Dio in persona, dicono alla fine, mentre la sua modesta figura si allontana verso una nuova mèta. Cavalca il rinnovamento, quel Frate Minore che fa della religione del Cristo il suo scudo e sostegno contro i tempi avversi, la perdizione, le tentazioni della carne, la miseria. Devoto fino al midollo, non gli riesce di trascurare una virgola della vita del gregge. A partire dai suoi aspetti più pratici. E’ il primo teologo che, dopo Pietro di Giovanni Olivi, si fa carico di firmare di suo pugno un tomo intero dedicato all’economia. Materia sottile, in cui gli alfieri di Cristo al tempo non brillano certo. Ma lui no. Scrive di contratti, di proprietà privata, di etica commerciale, di valore e di prezzo. Abbozza il ritratto del giusto negozio, dell’onestà potenziale dell’imprenditore che non necessariamente è dannato per sua natura. Onestà significa utilità, dice, per l’intera società. Il commercio equo transita attraverso l’efficienza e la responsabilità, afferma, e procede grazie alla laboriosità ed all’assunzione del rischio. La proprietà esiste è ed un bene, almeno finché non appartiene all’uomo ma sussiste per esso, quale strumento per ingenerare miglioramento nel mondo. Non tollera la contesa, Bernardino. Lavora al telaio della diplomazia, piuttosto. Media. Riconcilia. Appiana. E parla contro i nuovi ricchi senza legge. E l’usura, soprattutto. Non sarebbero novità assolute, le sue. Ma quel che gli manca in termini di pensiero inedito lo recupera e surclassa quanto ad acume del ragionamento, con quella lingua tagliente e diretta che è il suo marchio migliore e più autentico. Nel 1425 è ancora a Siena, e si dà al virtuosismo della predicazione. Legge e rilegge decine di volte i suoi discorsi. Almeno finché non li ha imparati a perfezione. Fino a che non ne è assolutamente convinto. In sette settimane non salta una predicazione giornaliera. Per ogni alba ha un discorso nuovo, rutilante, perfettamente logico e convincente. Pericoloso. Tanto che usurai e gestori delle case da gioco attive in città stringono un pactum sceleris e, a forza di denari, assoldano testimoni per convincere le autorità che egli sia un eretico. I signori di Siena mangiano la foglia e lo incriminano. Bernardino intanto ha già abbandonato la città, i suoi passi instancabili già consumano l’antica via consolare che conduce a Roma. In Vaticano frattanto siede un Gran Maestro dell’Ordine di Cristo nato genazzanese presso i potentissimi Colonna. Il Papa numero 206 nei registri di Pietro. Ottone, ovvero Martino V, assurto alla gloria del regno di Dio in terra a furor di concilio di Costanza, mentre la Chiesa cattolica si dibatte nell’ardua impresa di governare le bizze del trasferimento della curia da Avignone di Francia a Roma. Successore di Giovanni XXIII, Martino è l’uomo che ha scritto di suo pugno la parola fine sull’annosa questione dello Scisma d’Occidente. Un uomo che ama la moderazione e non tollera i tumulti. Che difende la pace ed a fatica tollera le turbative. Per questo quel frate ormai famoso non gli va proprio a genio. Eppure, in molti sono disposti a difenderlo a spada tratta. Uno di essi si chiama Paolo da Venezia, ed è un sommo dottore di teologia che si prende la briga di tirare giù un intero trattato in difesa di Bernardino, che nel frattempo è finito nel mirino della Santa Inquisizione complici le voci infami che dilagano sul suo conto in quel di Siena. Il processo formale al toscano si tiene proprio a Roma, e ne segna infine l’assoluzione con formula piena. Se possibile, l’incidente con la legge non fa che aumentarne la già considerevole fama. Anche perché Bernardino si avvale del diritto di difendersi da sé, e lo fa proprio al cospetto di Martino V. Le sue parole sono ambrosia e fuoco. Riescono a smuovere perfino la pax granitica di quel Pontefice che non vuole scocciatori. Adesso è il Papa in persona ad insistere affinché agli rimanga nell’Urbe. Che diffonda le sacre vampe della fede in ogni dove, se gli riesce. Roma ha la peste. Ed un disperato bisogno di conforto. Il misero frate predica per 80 giorni consecutivi, ed affine se possibile le sue già acutissime arti. A molti dei suoi discorsi Martino presenzia, segretamente per tentare di trovare una falla in quel baluardo di fede. Ma è inutile. Bernardino è un leone di Cristo. Al Papa non resta che convincersi ed abbandonarsi egli stesso alla malia. Gli si proponga la nomina ufficiale a Predicatore della Casa Pontificia. Un lustro assoluto. Che, come tale, l’umile monaco rifiuta con discrezione, opponendo ai fasti ecclesiastici un’umiltà che gli fa ancora più onore. A Roma diventa in fretta una celebrità, mentre stuoli di fedeli ignorano i già alti rischi di contagio per assieparsi alle sue prediche infinite. Tutti ascoltano, tutti acclamano, tutti si inginocchiano. E tutti posano le labbra sulle tavolette col Cristogramma, che Bernardino reca con sé durante i bagni di folla e che ormai anche la Chiesa più ufficiale ed altolocata ha finito per adottare ed inserire nel novero delle sue simbologie predilette. Dall’estate 1427 Bernardino è di nuovo a Siena, tornato su richiesta dei Signori della Cinta. Il sant’uomo è sfinito, sta sfidando i suoi limiti e con ciò pervertendo la sua stessa natura terrena, ma ha una nuova sfida da raccogliere e non può tirarsi indietro. Il santo va sempre e soltanto avanti. Porterà il verbo di Cristo nel clamore del Comune per 45 giorni a partire dalla metà di agosto. Il popolo lo avrebbe voluto Vescovo della città, ma per tre volte consecutive i nobili gli recano la proposta formale e per tre volte lui rifiuta recisamente. La sua è una virtù che rifugge i titoli. A Siena non esiste luogo di culto che possa aiutare nell’opera immane di contenere tutto il volgo. Dunque i Signori gli ordinano di prendere Piazza del Campo. Parlerà a partire dall’alba, in modo da coinvolgere tutta la popolazione disponibile, stazionando su di un altare improvvisato che viene tirato su in fretta tra due finestroni del Palazzo Comunale, o al massimo sporgendosi dal pulpito in legno che dopo qualche giorno le autorità gli concedono. Alla sua sinistra presenzieranno i Priori della Signoria, raccolti in una tribuna apposita suddivisa in due ali, la destra riservata alle donne e la sinistra agli uomini. Bernardino inizia l’opera, e celebra la Santa Messa per due ore filate, fino alle sette del mattino. A quell’ore, mentre le botteghe iniziano ad aprire i battenti ed i mercato termina il suo acconciarsi per il popolo, inizia instancabile a predicare. Conosce a menadito il latino, come tutti gli uomini di Chiesa del suo tempo. Ma parla al popolo minuto, e quindi preferisce affidarsi alle coloriture del volgare, per raggiungere il cuore e non solo le orecchie del suo uditorio. Finito con Siena, il frate riprende la sua vocazione itinerante di missionario inquieto. Nel 1431 è nella Ferrara degli Estensi, che lo vorrebbero vescovo. Dal 1435 è in Montefeltro e nelle grazie di Federico, futuro Duca d’Urbino che resta scottato dalla sua profonda e vivida spiritualità. Anche qui rifiuta la nomina a vescovo. Cosa che tuttavia non gli riesce quando, due anni più tardi, viene nominato di prepotenza Vicario Generale dell’Ordine degli Osservanti, per poi divenire nel 1438 Vicario Generale di tutti i Francescani d’Italia. Ormai ha quasi sessanta anni. Sul suo capo, oltre al peso di un’invincibile stanchezza, grava la malattia che attanaglia le sue notti. Ma il vescovo aquilano Amico Agnifili ha un incarico che sembra fatto apposta per lui. Dovrà recarsi in terra d’Abruzzo e tentare di riconciliare le fazioni che insanguinano la città con l’ennesima faida interna. E’ il maggio del 1444 quando Bernardino comprende che le sue forze stanno venendo meno. I suoi tentativi di mediazione producono buoni frutti, ma il tempo è tiranno ed il 20 Bernardo si riconcilia con la Grazia Divina che l’ha voluto alfiere della potenza e del perdono celeste. Al suo funerale interviene tutta la città, e mentre il sant’uomo viene deposto nella bara, qualcuno tra i presenti leva alte grida al cielo notando che il legno perde sangue vivo. La bara di Bernardino sanguina. Continuerà finché i litiganti aquilani non deporranno le armi. E’ un ritratto sacrale, quello che emerge dalle cronache dedicate a Bernardino da Siena. Infatti, appena sei anni dopo la sua dipartita, il Papa lo canonizza ufficialmente. Un record per un campione della vera Fede. Non altrettanto, però, per l’immagine che sta accanto e dietro a quella del missionario, predicatore, evangelizzatore delle masse. Un’istantanea dai colori molto meno vividi, più oscuri anzi, che restituisce l’indizio di un uomo di Chiesa non esattamente retto ed anzi a tratti accecato dal suo prepotente integralismo. E’ una strana immagine, quella del Bernardino “collaterale”. Un quadro che fa a pugni con quello retto e magnifico ricordato negli scritti ecclesiastici ed ostentato nella pietra seicentesca della chiesa a lui dedicata nella romanissima via di Panisperna. Un secondo ritratto che prende le mosse proprio dai suoi giorni migliori, quelli delle prediche di piazza senesi e, soprattutto, romane. In uno dei suoi capolavori d’ars oratoria, nel 1427, il frate avrebbe ammutolito Piazza del Campo tornando con la mente e col racconto ad alcuni fatti di cui era stato più che testimone negli anni trascorsi a Roma. Fatti riconducibili ad un nome che fece tremare l’Urbe. Quello di Finnicella. Prima fattucchiera finita tra le fiamme del Santo Rogo e vittima inaugurale della caccia alle streghe che, partita proprio dalla culla della cristianità, di lì a poco avrebbe insanguinato l’Europa intera, finendo per raggiungere addirittura il Nuovo Mondo. A Roma Bernardino aveva goduto di un pubblico di devoti in numero davvero impressionante, a motivo della sua vicinanza ai problemi quotidiani della plebe e, soprattutto, agli innumerevoli mali che ne minavano il giornaliero vivere. Plasmati da tanti discorsi e spunti ed esportazioni sulla ricerca della virtù e, più ancora, sull’abiura assoluta del male congenitamente presente in seno alla società, i romani avrebbero devotamente riportato al loro buon difensore le loro perplessità circa la condotta di una donna sul cui capo pendevano accuse a dir poco infamanti. Trenta infanti assassinati per suggerne il sangue ancora caldo, cui andava assommato perfino lo stesso figlio della donna, massacrato per farne polvere da ingerire in occasione di nefandi ed oscuri riti. Ce n’era abbastanza, insomma, per spiccare nei confronti di Finnicella un’accusa formale. Quella riservata ad una figlia del demonio. Quella per stregoneria. Detto fatto, la donna venne portata in ceppi presso Bernardino, la cui eloquenza sembra fosse pari unicamente alla dedizione nella ricerca ad ogni costo della verità più recondita. Denunciata ed interrogata, Finnicella fu condannata alla pubblica morte nel luglio del 1426, in piena epidemia di peste. Forse, mondata l’Urbe della sua nefasta presenza, anche il morbo senza pietà avrebbe preso un’altra via. La sera dell’8 luglio il Campidoglio sprigionò alte vampe. Il prezzo dell’obbedienza cieca del volgo all’ancor più cieca dedizione del suo campione di fede, che assistette fianco a fianco al suo zelante e nutrito pubblico, intervenuto in massa pur di non perdersi lo spettacolo d’eccezione, agli spasmi dell’accusata. A nulla valsero le obiezioni sollevate da alcuni dottori, che testimoniarono come la donna fosse semplicemente un’ostetrica. Le fiamme consumarono in fretta il suo corpo martoriato, mentre Bernardino consegnava alla storia il primo atto dell’atroce cronaca della caccia alle fattucchiere. Verità o semplice leggenda? Diceria o evento fondato? A quasi sei secoli di distanza, il dubbio permane, e finisce per avvolgere il protagonista in negativo dell’ipotetica cronaca. Bernardino, l’alfiere della Grazia Divina. O piuttosto il principe dei cacciatori di megere? Taliesin, il bardo tratto da: www.sguardosulmedioevo.it Grazie a Simone Petrelli. |
20-07-2012, 13.41.34 | #79 |
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TRA IL CANTO DELLE ALLODOLE: JACOPA DE' SETTESOLI Quando morì, alla Porziuncola, San Francesco non ebbe intorno a sé soltanto i suoi frati. Ci fu anche una donna, l'unica donna e unica estranea presente alla morte del Santo, nella capanna che era stata sua ultima cella. Quella donna non fu Santa Chiara, chiusa tra le mura poverissime di San Damiano. A lei, tornando stremato ad Assisi, Francesco aveva mandato a dire che lo avrebbe rivisto dopo morto. Così fu infatti, quando il suo corpo, durante i funerali, passò e sostò davanti a San Damiano. Eppure prima di morire Francesco desiderò di avere vicino una donna, un'altra donna. Volle una presenza quasi materna, una mano affettuosa e forte al tempo stesso. La presenza fu quella di Jacopa de' Settesoli, la seconda delle due donne che, dopo Chiara, il Santo diceva di riconoscere. Non era una donna giovane, Jacopa - o Giacoma, o Giacomina - de' Settesoli, la nobile vedova del nobile romano Graziano Frangipani. Francesco l'aveva incontrata a Roma nel 1219, durante una predicazione. Ella, donna fatta e vedova di illustre casato, aveva guidato con ferma mano il frate di Assisi per le vie dell'Urbe, come se fosse un figlio, appena maggiore dei suoi. Da allora, Jacopa de' Settesoli era diventata la più valida collaboratrice dell'Ordine francescano nella città dei Papi. Fu lei a ottenere dai Benedettini la cessione dell'ospedale di San Biagio, che divenne il primo luogo romano dei Francescani, con il nome di San Francesco a Ripa. Attiva e risoluta, pur essendo devota e affettuosa, Jacopa si poteva quasi dire un uomo, e infatti mentre Francesco chiamava sempre Chiara con il nome di sorella, chiamò Jacopa con il nome di fratello: Frate Jacopa. Ella fu così la Marta francescana. Un giorno Francesco le regalò un agnellino, figura del Salvatore. Jacopa lo allevò, lo tosò, e con la sua lana tessé una tunica a Francesco. Era questo il carattere di Jacopa, che da ogni cosa sapeva trarre profitto e utilità. Francesco, come abbiamo detto, la volle vicina prima di morire, e la mandò a chiamare a Roma. Da lei aveva accettato panno, cera e cibo, e anche certi dolci chiamati « mostaccioli », fatti con farina e miele. Anche quell'ultima volta le chiese di portare un lenzuolo, la cera per le esequie, e « quelle cose da mangiare » che ella gli preparava quand'era infermo a Roma. Il messo era appena partito e Frate Jacopa, accompagnata da un figlio, era già ad Assisi, spinta da un affettuoso presentimento. Per lei, alla Porziuncola, venne tolta la clausura, che non era mai stata soppressa per Chiara. Oltre al panno color cenere, alla cera e al lenzuolo, la donna forte aveva portato anche un fazzoletto ricamato e colorato, che era appartenuto al suo corredo da sposa. Dopo il transito del Santo, quando il corpo di Francesco restò nudo sulla nuda terra, Frate Jacopa deterse con quel lino il sudore della morte dal suo volto. Né parve strano che per quel gesto ella usasse un ricordo del suo terreno amore. Dopo la morte del Santo, ella non si sarebbe più allontanata da Assisi. Sarebbe restata presso la sua tomba, dedicandosi a opere di pietà e di carità. Dopo tredici anni, nel 1239, lo avrebbe seguito nel sepolcro, presso la chiesa di San Giorgio. E poi nella nuova tomba, nelle fondamenta della grande basilica di San Francesco, dove una lapide ancora la ricorda. Taliesin, il bardo |
20-07-2012, 14.12.53 | #80 |
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IL GENIO AL SERVIZIO DELLA CHIESA: DONNE NEL MEDIOEVO
Un recente ciclo di catechesi che ha impegnato nei mesi scorsi Benedetto XVI, durante i mercoledì dell’udienza generale, ha riguardato la descrizione della vita e dell’opera di alcune grandi Sante del Medioevo. Dal settembre 2010 alla fine del gennaio 2011, il Papa ha offerto una galleria di ritratti di santità femminile che hanno segnato in modo indelebile il percorso del cristianesimo nell’Europa e nel mondo. Alessandro De Carolis ricorda alcune di queste figure presentate da Benedetto XVI: Giovanni Paolo II lo aveva argomentato in termini generali, e con un’ampiezza di gratitudine e di ammirazione quasi mai viste, scrivendo nel 1988 la Mulieris dignitatem. Benedetto XVI ha fatto altrettanto ma in termini specifici, individuali, cercando e scegliendo in quella “enciclopedia” dell’eccellenza umana che sono le vite dei Santi – in questo caso di grandi Sante del tempo antico – per dimostrare, con Papa Wojtyla, che non c'è stata un'epoca in cui il “genio femminile” non sia stato una pietra angolare della Chiesa. Inaugurando all’inizio del settembre 2010 il ciclo di catechesi sulle Sante medievali, Benedetto XVI cita un passaggio della Mulieris dignitatem: “‘La Chiesa - vi si legge - ringrazia per tutte le manifestazioni del genio femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e a tutte le nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità; ringrazia per tutti i frutti di santità femminile’. Anche in quei secoli della storia che noi abitualmente chiamiamo Medioevo, diverse figure femminili spiccano per la santità della vita e la ricchezza dell’insegnamento”. (Udienza generale, 1 settembre 2010) Ciò detto, il Papa si trasforma in un narratore di figure celeberrime, o sconosciute ai più, che accendono di abbaglianti luci di carità e di sapienza gli anni cosiddetti “bui” della storia europea dopo l’anno Mille. Per mesi, attraverso le sue parole, sfilano davanti agli occhi della Chiesa contemporanea le donne che hanno costruito quella di mille anni prima. Dalla poliedrica monaca benedettina Ildegarda di Bingen – che di genio ne aveva da vendere, con le sue doti di letterata, musicista, cosmologa – al cuore di fuoco di Giovanna d’Arco, amica della verità del Vangelo e dunque nemica di ogni suo accomodamento: “Santa Giovanna d’Arco ci invita ad una misura alta della vita cristiana: fare della preghiera il filo conduttore delle nostre giornate; avere piena fiducia nel compiere la volontà di Dio, qualunque essa sia; vivere la carità senza favoritismi, senza limiti e attingendo, come lei, nell'Amore di Gesù un profondo amore per la Chiesa”. (Udienza generale, 26 gennaio 2011) Nel mezzo, ritratti di mistiche e di donne d’azione, dove per entrambi il punto di partenza è l’amore per Gesù e quello d’arrivo l’amore per l’umanità che a Gesù va condotta. Un esempio di cristianesimo che brilla universale dalle ribalte discrete della preghiera e della contemplazione è, dice Benedetto XVI, quello di Chiara d’Assisi: “‘Chiara infatti si nascondeva; ma la sua vita era rivelata a tutti. Chiara taceva, ma la sua fama gridava’. Ed è proprio così, cari amici: sono i santi coloro che cambiano il mondo in meglio, lo trasformano in modo duraturo, immettendo le energie che solo l’amore ispirato dal Vangelo può suscitare. I santi sono i grandi benefattori dell’umanità”. (Udienza generale, 15 settembre 2010) Dalle mura del chiostro a quelle del castello, il Medioevo annovera una Santa regina, Elisabetta d’Ungheria, icona della faccia più nobile del potere: quella che non teme di sporcarsi l’orlo del mantello a contatto con gente di rango inferiore, ma anzi porta di persona il cibo a chi ha fame, risarcimento alle vittime di ingiustizie, dignità nella miseria. Appoggiata in questo dal marito, il re Lodovico; il che – osserva il Papa – dimostra che il segreto della felicità di coppia sta nell’impegno, non nel disimpegno: “Elisabetta aiutava il coniuge ad elevare le sue qualità umane a livello soprannaturale, ed egli, in cambio, proteggeva la moglie nella sua generosità verso i poveri e nelle sue pratiche religiose (…) Una chiara testimonianza di come la fede e l’amore verso Dio e verso il prossimo rafforzino la vita familiare e rendano ancora più profonda l’unione matrimoniale”. (Udienza generale, 20 ottobre 2010) Il Medioevo non è solo un’epoca storica. C’è un Medioevo anche oggi, un buio dello spirito che inquieta. Tutti noi, afferma il Papa durante una di queste catechesi, “siamo a rischio di vivere come se Dio non esistesse”, e questo significa che spesso si hanno per compagni il pessimismo e la sfiducia. Così, Benedetto XVI ricorda che i Santi sono degli ottimisti con delle ottime ragioni per esserlo. E parlando, nel dicembre scorso, della mistica britannica Giuliana di Norwich, ricorda il distillato della sua saggezza: se credi in Dio, tutto non può che finire in bene: “Le promesse di Dio sono sempre più grandi delle nostre attese. Se consegniamo a Dio, al suo immenso amore, i desideri più puri e più profondi del nostro cuore, non saremo mai delusi. 'E tutto sarà bene', 'ogni cosa sarà per il bene': questo il messaggio finale che Giuliana di Norwich ci trasmette e che anch’io vi propongo quest’oggi. (Udienza generale, 1 dicembre 2010) Taliesin, il bardo tratto da www.raiovaticana.org |
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