27-01-2015, 02.20.59 | #1 |
Cavaliere della Tavola Rotonda
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Il Re di Cuori ed il Fiore meraviglioso
A Te, mio Signore Dio,
che Hai forgiato il mio cuore e ne conosci ogni sogno e bisogno, dedico ed offro questa storia, affinchè in essa sia narrata la Tua Grazia e la Tua Gloria. Prologo “Ho con me questo antico testo...” disse Asevolio, aprendo la grande borsa di pelle che aveva con sé e tirando fuori un grosso libro dalla copertina di pelle consumata “... credo che troverete molto interessante la sua lettura...” mettendolo poi sul tavolo, davanti al priore Tommaso. “Si direbbe discretamente antico...” mormorò il religioso, portando la schiena contro la spalliera della sedia sulla quale era seduto ed unendo i polpastrelli delle mani, per poi assumere un'aria indagatrice “... ma non eccessivamente... forse un secolo e mezzo fa, o poco più... questo direi il periodo al quale risale...” “I miei complimenti...” piacevolmente stupito il medico “... questo libro risale esattamente a cento sessantanni fa.” Annuendo Asevolio. “Non è poi un esercizio troppo difficoltoso...” fissandolo il priore “... basta osservare... c'è da dire comunque che noi religiosi siamo avvantaggiati, visto che per dovere, missione e diletto trattiamo con i libri quasi allo stesso modo che con le persone. Sebbene classificare un testo sia infinitamente più semplice.” Asevolio lo ascoltava animato da una vivo interesse. “Datarlo, come dicevo, non è affatto difficile...” continuò il priore Tommaso “... la pelle è essiccata con il vapore e cucita in modo ortogonale, lungo le bisettrici di ripiegatura che corrono ad incrociarsi al centro della copertina frontale. E poi i caratteri impressi per il titolo, con quell'inchiostro nero e dorato... una tecnica tipica dei maestri Capuani, che circa due secoli fa vedevano la loro arte molto ambita da ricchi signori e mecenati. No, davvero lavoro di poco conto stimare l'età di questo testo.” “Io non ci sarei riuscito.” Sorridendo il medico. “Naturale, siete un medico.” Disse il religioso. “Voi dovete scriverli i libri, non studiarli.” “I religiosi invece si?” Chiese Asevolio. “Anche quelli non Sacri?” “Soprattutto, amico mio.” Annuì il priore. “Vedete, molti demonizzano i Padri Domenicani perchè usano, talvolta, bruciare grandi quantità di libri.” “Io sono un uomo di scienza” fece Asevolio “e biasimo questo genere di cose. Se mi perdonate la franchezza.” “Oh, io non devo certo perdonarvi, né intendo curarmi riguardo alla vostra franchezza.” Chiudendo per un istante gli occhi il religioso. “Come detto, voi siete un medico, dunque vi intendete di corpi, mentre io, essendo un religioso, mi occupo di anime. Quanto ai Padri Domenicani, immaginate soltanto che un libro di magia nera, tanto per fare un esempio, non sia diverso da un morbo, come la peste, il vaiolo o la lebbra e che dunque come tale vada debellato. Voi lascereste esposto in una piazza o in un'affollata stanza un cadavere infetto di un morbo mortale? Con il rischio di diffondere un'epidemia?” “Naturalmente no.” “Ecco, vedete?” Riaprendo gli occhi il religioso. “Non siete poi così diverso da un Domenicano. Con la differenza che voi difendete il corpo dei vostri simili, mentre lui fa la medesima cosa ma con le loro anime. Ma non divaghiamo. Perchè mi avete mostrato questo testo?” “E' un elenco.” Spiegò Asevolio. “Un elenco?” “Si.” “Di che genere?” “Nato per raccogliere le notizie custodite nel Libro Ducale.” “Il Libro Ducale... la lista dei duchi di Capomazda, dagli albori ad oggi.” Ripetendo quasi ad alta voce il religioso. “Esattamente.” “Ebbene?” Domandò il priore. “Alla scuola cattedrale di San Felice, a Pomilia, abbiamo sottoposto la lista dei duchi ad uno studio che forse qualcuno riterrà... ambiguo?” “Perchè mai?” Incuriosito il religioso. “Perchè abbiamo studiato la morte di molti Arciduchi.” Rivelò il medico. “Immagino vi sia uno scopo dietro ciò.” “In verità” Asevolio al priore “questo studio ci è stato commissionato.” “Da chi?” “Da Sua Grazia il vescovo.” Il priore Tommaso restò in silenzio. “Ed abbiamo scoperto qualcosa di...” continuò Asevolio “... di ambiguo appunto.” “Ossia?” “Che molti duchi sono morti per cause ritenute naturali” disse Asevolio “ma mai del tutto spiegate.” “Anche la scienza medica ha dei limiti.” “Certo.” “Dunque?” “Ma quelle morti non possono essere definite, da un punto di vista medico, come naturali.” “La Natura ha molti segreti.” “E questo elenco sembra custodirne diversi.” Osservò Asevolio. “Ma in tutta onestà non li definirei naturali.” “Perchè?” “Perchè uno spavento non è considerato morte naturale.” Rispose il medico. “Uno spavento induce ad una possibile morte. Ma per compiere ciò deve essere straordinariamente intenso. E comunque, una dinamica che porta ad un grosso spavento non può esternarsi nella medesima espressione, anche perchè l'effetto di uno spavento può variare da individuo ad individuo, combinandosi poi con una varietà di fattori praticamente infinita.” “Cosa intendete?” “Forse dovrei leggervi questo...” aprendo il libro il medico “... una nota aggiunta al margine di una delle pagine del Libro Ducale e qui riportata interamente... riguarda indirettamente la morte dell'Arciduca Taddeo l'Austero e quella di alcuni dei suoi predecessori e successori, essendo tutte praticamente uguali...” “Vi ascolto.” Asevolio cominciò a leggere... “Sull'origine della maledizione dei Taddei sono state tramandate e scritte molte cose. Ma discendendo io stessa da tale nobile stirpe ed avendo udito più volte questa storia da mio padre, che a sua volta l'aveva appresa da suo padre, come quello dal suo e così via, ho deciso di trascriverla a margine di questa pagina, nella piena certezza che tutti i fatti narrati si svolsero come qui descritti. L'Arciduca Ardeliano il Grande, dopo aver conquistato i territori di Sygma, annettendoli a quelli ducali di Capomazda, per sancire l'alleanza tra il suo casato e quello regnante in terra Sygmese decise di prendere come moglie la principessa Gaya e farne la sua Granduchessa. Ella amava teneramente il duca ed il loro, nei primi mesi, fu un Amore ed un matrimonio felice. La principessa conquistò subito il cuore del popolo Capomazdese e il ducato accolse la ragazza con gioia ed entusiasmo. Ma Ardeliano, uomo di grandi slanci e passioni, non aveva dimenticato un'altra donna, incontrata in precedenza e che amò come amante durante le campagne Flegeesi finite poi con una sconfitta. Quell'amore impossibile, lei infatti, principessa Flegeese era già ammogliata, restò albergato nel cuore del duca, togliendogli la capacità di godere invece non solo della sua grande vittoria su Sygma, ma anche del grande sentimento che Gaya aveva per lui. E così, in una miserevole notte di Primavera, accortasi che il duca non ricambiava appieno il suo Amore, la principessa lasciò il palazzo reale di Sygma e fuggì da sola tra le colline. Vedendo ciò, Ardeliano comprese la sua follia, condannò se stesso per non aver compreso quel dono e preso il suo miglior cavallo corse a cercare sua moglie. Ma davanti a questa scena nessuno dei servitori scelse di accompagnarlo ed una vecchia, si narra, lo maledì, profetizzando una misteriosa e diabolica furia pronta a colpire il duca ed i suoi discendenti, reo di non aver goduto dei tesori, spirituali e terreni, di Sygma. La notte allora si fece cupa, sinistra, ululante e gemente come se le forze oscure si fossero destate per abbattersi sulla Terra. Arrivarono allora nel palazzo alcuni cavalieri Capomazdesi e divenuti sospettosi riuscirono infine a sapere dai servi l'accaduto. Presero i palafreni ed uscirono per cercare Ardeliano e Gaya. Percorsero la valle fino ad incontrare un contadino, chiedendogli del duca e di sua moglie. Il villano appariva come sconvolto ed alla fine balbettò qualcosa di incredibile. Egli infatti aveva effettivamente visto qualcuno correre nella valle. Si trattava di una bellissima ragazza e dietro di lei di un nobile signore in sella ad un robusto cavallo. Ma la cosa sconvolgente era che proprio alle spalle di quei due, che altri non erano che Gaya ed Ardeliano, una muta di spaventosi cani si era gettata al loro inseguimento ed a capeggiare quelle bestie vi era un altro cane, più feroce ed agghiacciante di tutti gli altri. I cavalieri non credettero a quell'uomo e ripresero il loro galoppo, dopo averlo mandato al diavolo. Ma poche miglia però dopo udirono qualcosa. Dei terrificanti latrati ed infine intravidero una sagoma nella valle. Era il cavallo di Ardeliano, con la bocca schiumante di bava e la sella vuota. Vedendo ciò, spaventati, di nuovo ripresero a correre in cerca del loro duca e di sua moglie. E quando la Luna spuntò dalle nubi illuminando la campagna di Sygma, i cavalieri si ritrovarono davanti ad una scena terribile. Un corpo giaceva a terra, sfigurato a tal punto da un'espressione di vivo terrore da non essere subito riconoscibile da quei cavalieri. Solo dai suoi abiti, infine, essi riconobbero che quel corpo senza vita era del loro signore, il duca Ardeliano. Ma ciò che portò alcuni di loro alla follia fu l'ululato che udirono echeggiare tra le colline e la figura lontano di un'indefinita bestia che li fissava con malvagità nel sinistro pallore lunare. Due di quei cavalieri morirono all'istante di crepacuore, tre persero buona parte del senno e gli altri quattro, ritornati a Capomazda, finirono i loro giorni in convento. Gaya invece svanì nel nulla, come inghiottita da quella terribile notte. Ecco, questa è la storia di quella furia che da allora si dice affligga così crudelmente la nostra stirpe e che viene chiamata la Gioia dei Taddei. E non si può nascondere che molti dei nostri siano morti in circostanze tanto simili, quanto spaventose. Ma trascriverla qui non è solo la volontà, da parte mia, di descrivere i fatti come monito per tutti voi, ma anche la speranza di infondere in voi la Fede verso la Misericordia Divina, affinchè perdoni le nostre colpe, cancelli la nostre miserie e ci liberi da questo affanno. Portate alla mente le mie parole, le mie preghiere ed i miei consigli. Pregate dunque, figli miei. Pregate e tenetevi lontani dalla notte e dalla campagna, quando le forze del male maggiormente si scatenano. Conselia de'Taddei, Granduchessa di Capomazda.” Finito di leggere, Asevolio richiuse il libro, per poi alzare lo sguardo sul Priore Tommaso con aria interrogativa. “Affascinante leggenda.” Con noncuranza il religioso. “Molti giurano non sia una leggenda.” A lui Asevolio. “Anche i miti pagani avevano, pare, diversi testimoni” replicò il religioso “ma oggi abbiamo poi scoperto che si discostavano dalle favole solo per i preziosismi stilistici con i quali erano narrati.” “I duchi morti tutti in circostanze simili e misteriose sono forse personaggi di favole? I Vangeli, tra i miracoli di Nostro Signore, riportano anche di come Egli scacciasse i demoni. Le forze infernali, dunque, esistono per la Chiesa.” “Naturalmente.” Senza scomporsi il Priore. “Ma la Chiesa accetta la presenza di tali fenomeni solo dopo aver escluso tutte le possibili cause naturali del caso. Prima di conoscere animali come gli elefanti, ad esempio, gli antichi, ritrovando i resti di tali creature, come il cranio e gli arti spropositati, attribuivano tali scheletri ad esseri fantastici, come ciclopi ed animali mostruosi. Molti fenomeni che oggi ci appaiono senza spiegazione, un giorno forse saranno chiariti dalla scienza senza dover scomodare il folclore e leggende varie.” “Capisco...” pensieroso Asevolio “... fatto sta che oggi, però, Capomazda è senza un duca Taddeide ed i due pretendenti al seggio ducale non hanno sangue di Ardea nelle loro vene.” “Ma perchè siete qui?” Alzandosi dalla sedia il Priore Tommaso. “In cosa credete io possa aiutarvi? Sono un uomo di Chiesa, non un politico e neanche un soldato.” “Infatti” alzando il capo Asevolio “per sconfiggere le forze occulte non occorrono né politici, né soldati...” “Volete dunque dichiarare guerra agli inferi?” Con leggero sarcasmo il Priore. “No...” scuotendo il capo Asevolio “... solo proteggere Capomazda dai suoi nemici... di qualunque natura essi siano...” Ed il Priore Tommaso restò a fissarlo senza rispondere nulla. Il Re di Cuori ed il Fiore meraviglioso Capitolo I: La gioia dei Taddei “Che Dio maledica questa Gioia, che tanti valent'uomini ne sono rimasti uccisi! Invero, essa oggi commetterà un danno ancor maggiore!” (Chretien de Troyes, Erec ed Enide) Nell'antico ed ameno distretto detto delle Cinque Vie, nella nobile e felice Capomazda, non troppo distante dal corso del Lagno, la vasta e ridente campagna ricopriva gran parte di quelle terre, interrotta solo da una strada di poco più ampia di un sentiero che la tagliava in due. Il Sole calava stancamente sull'erboso campo, racchiuso e descritto, come un quadro di pastorale candore, da decine di tozze e robuste querce che estendevano in ogni dove i loro lunghi e aggrovigliati rami sopra un lussureggiante e screziato tappeto d'erba e di fiori. In alcuni tratti esse si mischiavano a salici, pini ed altre piante del sottobosco, generando una fitta rete capace di imprigionare gli ultimi bagliori del giorno morente, per poi liberare ombre lunghe ed imponenti che in quel purpureo e idilliaco scenario parevano generare spazi indefiniti ed infiniti, dove spesso lo sguardo dei sognatori, degli artisti e degli innamorati ama perdersi, immaginando un mondo che la fantasia trasforma in sentieri ed orizzonti di selvaggia e romantica avventura. E proprio in un ampio spazio aperto che faceva da fondale a quella strada, una lenta carovana di mercanti percorreva quel bucolico e feudale ambiente. La carovana, attraversando quel passo immerso nella natura incontaminata e primordiale di quel luogo, accorgendosi di una sagoma poco più avanti, tradì la sua presenza facendo suonare un campanaccio. Stava infatti d'avanti ad essa un mulo che stancamente, con un incedere quasi incanutito, portava in groppa una figura dimessa e dall'aria malinconica. Quella figura, per così dire quasi indifferente, se non addirittura apatica, a ciò che accadeva lungo la strada, sembrava come assorta da pensieri vaghi e lontani che conduceva al suo cospetto al suono basso della sua cetra. I mercanti la raggiunsero e la fiancheggiarono. “Salute a voi...” disse uno di quelli al bardo “... siamo stranieri giunti qui per i nostri affari. Dista molto Capomazda?” “Salute a voi, perduti viandanti...” rispose il bardo “... procedendo in questa direzione, tra i sicomori ridenti, i melanconici salici e le fronde cremisi di querce addormentatesi al crepuscolo, giungerete in quella matta e variegata realtà che gli uomini chiamano Capomazda.” “Quanto occorre per raggiungerla?” Domandò un altro di quei mercanti. “La temporalità” mormorò il bardo “è un'invenzione degli uomini nel tentativo di dar un nome comprensibile agli accadimenti della vita. Ma proseguendo a passo svelto, così che comprendiate, vi giungerete prima che faccia buio.” “Grazie, buon musico.” Annuendo il mercante. “Anche voi siete diretto là?” “Io vago tra il crepuscolo ed il silenzio, dove gli uomini non giungano e non trovano sollievo.” Fece il bardo. I mercanti si scambiarono varie occhiate fra loro. “Oh, non tentate di comprendere la mia natura ed il mio spirito...” sorridendo per un attimo il bardo “... ma se volete vi dirò che sono il primo bardo di Elphin, che provengo dal paese delle stelle d'Estate, che ho conosciuto Merlino e Santa Maria Maddalena, mi sono bagnato nell'Arno e nel Giordano e che ho attraversato il Calvario insieme all'Ebreo Errante ed ai suoi maledetti trenta denari.” I mercanti lo fissavano stupiti. “La mia natura non è né carne e né pesce” continuò il bardo “ed il mio incedere è tradito solo dalla mia musica. E solo la mia musica riconoscerete e da essa me. Sono Taliesin il bardo.” E detto ciò riprese a suonare il suo strumento, mentre la carovana dei mercanti passò oltre e riprese il suo cammino. Alla fine quegli stranieri giunsero, come indicato loro dal bardo, alle porte della capitale Capomazdese. E la città, di un rosato ed antico profilo, come persa, o meglio sospesa, in quello sfondo crepuscolare, accolse i mercanti con le ultime cerimonie del giorno ormai calante. Soldati marciavano a passo ordinato, davanti a cavalieri bardati di tuniche variopinte ed elmi dal raro piumaggio, a loro volta con un seguito di valletti attenti alle redini dei destrieri scalpitanti che mordevano schiumando i freni dorati. “Vi è una parata, buonuomo?” Uno dei mercanti ad un passante. “E' il cambio della guardia, messere.” Rispose questi. “Lord Gvineth tiene molto che le armate sfilino superbamente, per mostrare il potere del nostro esercito.” “Egli è il signore di queste terre?” Ancora il mercante. “Si, insieme a lord Cimmiero.” Annuì il passante. “Entrambi reggono il ducato, dopo che l'ultimo duca, lord Guisgard de' Taddei è morto. Lord Gvineth si occupa del potere militare, mentre lord Cimmiero controlla l'amministrazione.” “Lord Gvineth è quell'uomo alla testa dei soldati marcianti?” Un altro di quei mercanti al passante. “No, quello è il capitano De Gur, suo braccio destro. Vive in un castello poco fuori la città, insieme a sua moglie.” “Dove possiamo trovare un alloggio?” Domandò il mercante. “Vi sono molte locande in città.” Fece il passante. “Sicuramente troverete un alloggio accogliente.” Poco dopo la sera prese il posto del crepuscolo ed enigmatiche luci illuminarono Capomazda, facendola cadere in un innaturale sonno. +++
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AMICO TI SARO' E SOLO QUELLO... E' UN SACRO PATTO DA FRATELLO A FRATELLO Ultima modifica di Guisgard : 27-01-2015 alle ore 03.15.28. |
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C’è una strana atmosfera a Miral nelle fredde sere d’inverno.
Come una quiete insolita e sospetta che attraversa le sue vie, mentre cominciano a velarsi di foschia, una pace inaspettata, un silenzio irreale. Sono pochi però, i momenti in cui appare tanto magica, una volta il mio preferito era il tramonto, quando cominciavano ad accendere le luci delle case, e in strada si poteva sentire il profumo delle prelibatezze preparate dalle donne della città. Ora però preferivo la notte, e quel silenzio malinconico e assordante. Canticchiavo, camminando sulla riva del pittoresco canale, su cui si affacciavano case, le botteghe, tutte rigorosamente buie. Mi incuriosivano quelle poche luci accese, sintomo che qualcuno, esattamente come me, non stava dormendo. E paradossalmente mi sentivo meno sola. Eppure ero stata io stessa a ricercare quella solitudine inquieta. Casa non era lontana, e mancavo da troppo tempo. La campagna doveva durare un paio di settimane, invece si era protratta per quasi tre mesi. Non che mi dispiacesse, per carità, anzi. Odiavo i periodi tra una campagna e l’altra. C’era troppo tempo libero, troppo tempo per pensare, troppo tempo per ricordare. In battaglia non c’è tempo, se ci si riposa si è talmente stanchi che si sprofonda in un pesante sonno senza sogni che non siano presagi di morte. E poi in quella guerra di cui non mi importava un accidente c’erano loro a distrarmi. Era la terza volta che combattevo al fianco dei Montanari, eppure mi consideravano una di loro. E’ incredibile il legame che si crea tra sconosciuti combattendo fianco a fianco. Così, mi scappò un sorriso, pensando ai ragazzi che avevo appena lasciato nell’Ostaria del Topo Rosso. La piccola osteria alle porte della città, sembrava aver subito un’improvvisa invasione di beceri soldatacci di ventura. Ma considerando che quei soldatacci erano appena tornati da una campagna vittoriosa, con le tasche piene di Vipere d’Oro sonanti, e avevano una gran voglia di festeggiare con donne e vino, era un’invasione più che ben accolta dal simpatico oste. E non si trattava di soldati qualunque, ma dei famigerati Montanari, che erano riusciti a riconiare il termine tanto usuale, (nato da un vecchio insulto rivolto ai primi esponenti del gruppo) rendendolo qualcosa di spaventoso. Un nome che faceva scostare le persone al loro passaggio, inventare storie per spaventare i bambini, sprangare le porte, e pregare di non mettersi mai sul loro cammino. Eccoli lì, i terribili Montanari. Uomini semplici forse, rozzi per lo più, crudeli in battaglia, certo, eppure capaci di difenderti in ogni situazione, di avere per te le gentilezze più inaspettate. Come spesso accade, il mostro visto con occhi diversi non sembrava così pericoloso. E io lo sapevo bene, per i pirati era la stessa cosa. Solo che i Montanari difficilmente rubavano, con la paga esorbitante che chiedevano per i loro servigi. Stavo ridendo, per non so più quale ricordo imbarazzante di Kostor, quando il capitano Elos, propose un brindisi alla compagnia. Ci voltammo subito verso di lui. Era diverso dai capitani che avevo incontrato, non incuteva terrore nei suoi. Sapevano solo tutti che era il migliore, oltre che una delle persone paradossalmente più serie, e nessuno aveva mai messo in discussione il suo comando. Alzai il boccale insieme agli altri, per poi portarlo alle labbra. Una smorfia disgustata mi si dipinse sul volto. Da quando servivano quell’orrore? Ma poi mi guardai in giro, effettivamente cominciavano ad essere tutti ubriachi. Beati loro. Era ora di andare. Mi alzai, avvicinandomi ad Elos, lui si voltò verso di me e sorrise. “Clio..” con un leggero inchino “Stai andando?”. Annuii “Direi di sì..” sorridendo “Grazie di tutto… è sempre un piacere lavorare con voi..”. “Ah, non dirlo neanche…” scosse la testa “Sei una di noi ormai..”. Sorrisi, grata di quelle parole. “Domattina ripartirete per Berig?” voltandomi, distratta da uno schiamazzo troppo alto, per poi tornare a guardare Elos. “Nah..” rispose lui “Penso che resteremo un paio di giorni chiusi qui dentro..” rise, e io con lui. “Finchè non avrete speso tutta la paga?” risi. “Perchè no?” rise, tornando poi serio in un attimo “Potresti venire con noi, lo sai..”. Scossi la testa “No, ti ringrazio.. manco da casa da troppo tempo.. senza contare che ho dannatamente bisogno di un bagno..” risi “Comunque grazie..” sorridendo con gratitudine. “Allora alla prossima, ti terrò presente per il prossimo incarico?”. Annuii “Naturalmente, è sempre un piacere.. a meno che qualcuno non mi abbia offerto più…”. Strizzando l’occhio. Lui fischiò. “Se esiste, me lo devi presentare..” e ridemmo insieme. Ci salutammo con un lieve abbraccio, e mi avviai alla porta, sapendo che mi aspettava il giro dei saluti. Salutai Vortex, il gigante buono, armato di ascia, ma dalla risata inconfondibile, Geris, il ragazzino dalla faccia pulita, che mi suscitava ammirazione e tenerezza. Quasi sulla porta, mi fermò Kostor. “Ehi, stupenda.. dove vai?” parandosi davanti alla porta, col suo forte accento di Berig. Lo guardai torva, le mani sui fianchi “A casa, se ti levi..” seria, per poi scoppiare a ridere. Adoravo Kostor, era genuino e semplice, ma capace di spaccare un uomo a mani nude come nulla fosse. “Diamine, vengo anch’io…” esclamò, divertito. “Eh, ti piacerebbe…” ribattei. Lui mi squadrò e sorrise “Non lo so mica se ti vorrei per casa…” ridemmo insieme, e poi lo abbracciai “Fatti vedere, eh..” mi disse, con una sonora pacca sulla spalla. Annuii “Certo, non ti libererai di me così facilmente…”. Mi guardai intorno “Dov’è Dort?” Ma nessuno rispose “Beh, salutatemelo..”. Uscii nella foschia, e mi avvicinai alla balaustra che dava sul canale cittadino, su cui aleggiava una nebbia magica e inquieta. Restai per un attimo ad osservarla, per poi sospirare. “Stai andando?” una voce malinconica mi fece voltare di scatto. “Eccoti, canaglia..” sorrisi a Dort, ma subito mi accorsi di quella luce nei suoi occhi, una luce fredda e tagliente, la stessa che trovavi nei miei se non stavo attenta. “Ehi..” mi avvicinai, parlando dolcemente “Tutto bene?”. Lui si limitò a sospirare, spostando lo sguardo verso il placido canale in cui si specchiavano le poche luci rimaste accese. “Passerà mai?” chiese, con voce dolorosa, senza guardarmi. Non c’era alcun bisogno che mi spiegasse, una sera, ubriaco, mi aveva raccontato di Lara. “Certo che passerà..” risi appena, amaramente “Ci sarà una campagna da cui non torneremo..”. Lui rise “Beh, tu ce l’hai messa tutta per non tornare..” guardandomi, severo “Quell’incursione era un suicidio!”. Alzai le spalle “Sono viva, no? E ha pure funzionato..” con una smorfia divertita. “Cosa ti tiene in vita?” chiese, spiazzandomi, con gli occhi nei miei. Scossi la testa “Non lo so..” ammisi “È come se non riuscissi a rassegnarmi..” mormorai “Come se continuassi a sperare, non so nemmeno in che cosa..”. Lui non sapeva tutta la verità, non era la morte che cercavo, ma l’oblio. L’oblio che solo la battaglia poteva darmi, quando il desiderio di vivere, nonostante la mia immancabile incoscienza, si impossessava totalmente di me, non lasciando spazio ad altro. Nemmeno a Lui. Persino ora, nel silenzio della notte, sentivo la sua mancanza: eppure non c’era nulla che potesse scatenare i miei ricordi, era proprio per quello che ero tornata a Miral, perché nulla mi parlasse di lui. Allora perché lo vedevo dappertutto? Perché mi chiedevo in continuazione che cosa avrebbe detto nel vedere un palazzo, nell’assistere a una scena pittoresca, o nel passare di fronte alla grande Cattedrale incompiuta? Ero arrivata proprio davanti a lei, e alzai lo sguardo. Già, pensai, gli sarebbe piaciuta quell’opera grandiosa, a cui tutta la città contribuiva da decenni. Avrebbe sicuramente tirato fuori un discorso su quanto gli uomini riescono a compiere opere meravigliose per onorare Dio. O qualcosa del genere. Sorrisi, voltando a sinistra, in una viuzza che mi avrebbe portato a casa. Un mendicante stava canticchiando una canzone malinconica, gli lanciai distrattamente una moneta, senza voltarmi, e raggiunsi finalmente la porta di casa.. Alzai gli occhi sul tetro cancello e sorrisi appena, sfilando la collana con le chiavi. Il giardino era spoglio, come sempre, ma non vi badai, e mi avvicinai all’imponente portone. Una chiave, l’altra, l’altra ancora. Avevo fatto costruire quella porta dal miglior fabbro della città, almeno a casa mia volevo dormire sonni tranquilli. Con un cigolio sinistro, la porta si aprì, e un’ombra rapida e veloce la attraversò prima di me. Impugnai immediatamente il pugnale, prima di accendere la grande lampada ad olio. Scossi la testa, e richiusi la porta dietro di me, serratura dopo serratura. “Oh, ma guarda un po’ chi c’è..” riponendo l’arma nel fodero, avvicinandomi al grande tavolo, su cui stava impettito e curioso un gatto nero come la notte, con i tipici occhi gialli, gli accarezzai la testa, e iniziò a fare le fusa. “Ma ciao, peste…” sorridendo “Hai fatto il bravo mentre ero via, Nero?”. Nero era un gatto randagio, temuto e trattato in malo modo, che avevo salvato da due ragazzini al mio ritorno a Miral. Da quel momento, mi aveva adottato. Sembrava sapesse in anticipo quando tornavo e quando dovevo partire. Era completamente indipendente, e se avessi raccontato quanto era docile e mansueto nella mia casa, probabilmente nessuno mi avrebbe creduto. “Guarda che non ho niente da mangiare..” gli dissi, aprendo la porta che dava sulla cantina. Scesi, seguita dal micio, e depositai la ricca borsa che mi aveva fruttato la campagna in un luogo sicuro, ma ne approfittai anche per prendere una bottiglia dell’ottimo vino di Solpacus. La solitudine era una pessima compagnia ma nonostante tutto, era bello tornare a casa. Entrai nella sontuosa sala da bagno, dove avevo fatto costruire una vasca con i più moderni sistemi di riscaldamento, moderni per modo di dire visto quanto erano antichi. Mi voltai divertita, osservando il muso di Nero affacciato alla porta, titubante. “Hai paura che immerga nella vasca anche te, eh..” risi. Raramente entrava in quella stanza, di solito mi aspettava sulla soglia, immobile come un soldatino. E così fece anche quella volta, mi chinai su di lui, posandogli una lieve carezza sulla testa, prima di chiudere la porta. Non vedevo l’ora di liberarmi di quei vestiti incrostati di sangue e fango e di liberarmi dell’odore acre di morte che mi portavo dietro, per non parlare di come erano conciati i miei capelli, ora raccolti in una treccia che disfai disgustata. Risi da sola mentre un ricordo lontano mi attraversò. “Adesso non mi diresti che sono profumata, te l’assicuro..” alzando lo sguardo, per poi sorridere, tristemente. Lasciai cadere uno dopo l’altro gli indumenti che indossavo, e poi mi avvicinai allo scaffale su cui tenevo le essenze più diverse da aggiungere all’acqua del bagno. Esitai, per un momento, mentre una fitta mi attraversò. “Vuoi davvero farti del male?” sussurrai, mentre la mia mano raggiungeva una boccetta. “A quanto pare sì..” sospirai, mentre la stringevo tra le mani, per poi versarne il contenuto nell’acqua che ormai si era scaldata. Mi immersi in quel bagno caldo tanto desiderato, con accanto la bottiglia di vino che si impoveriva sempre di più, mentre sentivo bruciare le ferite fresche, i lividi, i tagli. Il profumo inebriante di quelle essenze era insopportabile. Se chiudevo gli occhi lo vedevo lì, seduto sul letto della mia cabina, sorridente, a decantare le marmellate: era una tortura, ma estremamente dolce e irresistibile. Quando l’ultimo nodo dei miei capelli si sciolse, l’acqua si stava ormai raffreddando, e io apparivo un’altra persona. Mi avvolsi in un telo caldo e soffice, che tanto stonava con i rigidi indumenti che avevo indossati per tre lunghi mesi. Uscii dalla stanza da bagno e sorrisi a Nero, che sorvegliava la porta immobile come una statua. “Hai fatto buona guardia, bello?” risi appena. Raggiunsi la mia stanza da letto, e il grande armadio. Indossare una camicia da notte di purissima seta nera, in stile orientale, e una vestaglia coordinata era un vero sollievo. Silenzio. Erano mesi che non sentivo tanto silenzio. La bottiglia di vino era sempre più vuota, ma la mia mente ragionava ancora, non era abbastanza annebbiata per permettermi di dormire. La finii più in fretta di quanto avrei voluto, di quanto avrebbe meritato quel prezioso vino, e mi lasciai cadere pesantemente sul grande letto. Un attimo dopo, con passo leggero, Nero mi si avvicinò, accoccolandosi addosso a me. Sorrisi appena, accarezzando distrattamente il nerissimo pelo del micio. Fissavo insistentemente il soffitto, immersa nei ricordi, dolorosi, dolci, lontani. “Buonanotte..” mormorai, mentre una lacrima ribelle mi attraversava il viso “Non dimenticare di visitare i miei sogni…” sorrisi, tristemente. Mi svegliai che il sole era già alto, per quanto ne sapevo, potevo aver dormito un paio di giorni. Nero era già sveglio e pimpante. Così mi alzai e mi vestii in fretta, aprendo le imposte di quella casa rimasta chiusa tanto a lungo. Era una classica costruzione miralese, articolata su un cortile interno, totalmente privato, sul quale si affacciava il locale adibito a palestra. Ma non avevo alcuna intenzione di allenarmi, un paio di giorni di pausa me li ero meritati, sempre che riuscissi a tenere la mente occupata in qualche modo. Le mie stanze private erano al piano di sopra, mentre a pianterreno c’era un’ampia sala da pranzo, un salotto di rappresentanza oltre, naturalmente, alla biblioteca. Dovevo fare alcune commissioni quel giorno, le solite noiose incombenze che ricorrevano tra una campagna e l'altra, come trovare qualcosa da mangiare, e fare una visitina alla bottega dei Marzi, i migliori armaioli della città, per vedere come spendere buona parte della mia sontuosa paga. Così mi preparai per andare incontro a quel nuovo giorno. |
27-01-2015, 03.26.55 | #3 |
Cavaliere della Tavola Rotonda
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Il Sole era sorto ormai da un paio d'ore e l'aria di quel mattino appariva ora vagamente più limpida, dopo che i primi raggi di luce erano riusciti a dissipare in parte la nebbia che avvolgeva Miral, mentre le strade già pullulavano di gente, facendo così subito onore alla fama dei Miralesi, conosciuti da sempre come un popolo estremamente laborioso.
Così voci e rumori vari salivano fin verso le finestre di Clio, echeggiando, inseguendosi e confondendosi l'una nell'altra. Poi, ad un tratto, Nero si voltò di scatto, balzando agilmente su una sedia accanto alla finestra. Qualcosa lo aveva innervosito. Un attimo dopo, infatti, qualcuno bussò alla porta. Due figure, avvolte in un lunghi e scuri mantelli, stavano infatti immobili sulla soglia, aspettando che qualcuno aprisse loro.
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27-01-2015, 15.34.23 | #4 |
Cittadino di Camelot
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Camminavo mesta nel giardino di Corte, ormai il giorno stava dando posto alla notte e mi avvolsi nella mantellina calda ma non era certo il freddo inverno a procurarmi quel disagio, guardavo il giardino spoglio ma pure la primavera sarebbe rimasta immutata come quella atmosfera, nemmeno il profumo e i colori dei fiori avrebbero riempito Capomazda o forse era solo una mia impressione, per tutti sarebbe stato allegria ma in me il buio sarebbe rimasto nel cuore e quel senso di vuoto.
Mi fermai per un attimo ad osservare il cambio di guardia, lord Gvineth comandava l' esercito, probabilmente Lord Cimmiero si preparava per organizzare quella festa da molto desiderata dalla Corte..ma io avevo deciso di portare ancora questa veste nera e semplice, non l' avevo voluto con fronzoli ma freddo e buio come il mio cuore. Mi voltai di scatto e iniziai ad accelerare il passo ansimando, me lo avevano imposto, dovevo togliere il lutto..dovevo riprendere il mio ruolo a Corte e per tutti la vita doveva continuare ma mi opposi con la mia famiglia, mio nonno e Madama Sibille ma era obbligo, una lacrima scese dal viso...avevo allietato le feste e la corte nei miei gioiosi venti anni per Dominus, avevo lottato perchè lui si riprendesse il suo posto, era imbattibile e non potevo immaginare tutti credessero a quella stupida leggenda. "Altea, apri, sono tua sorella Azzurra, è successo qualcosa di tremendo". Mi pettinavo i capelli, dovevamo avere una festa tra pochi giorni ma Azzurra aveva la voce alterata ed entrò nella camera e mi abbracciò.."Il Duca è morto in circostanze strane". Barcollai appena e mi sentii quasi svenire.."Guisgard..lui..ma sei diventata pazza? Vi ho parlato almeno due ore fa e stava benissimo..un duello per la bella di turno..dai mi prendi in giro..gli avevo confidato di una lettera di uno spasimante e lui ci scherzava come sempre..non ho notato nulla di strano in lui". Azzurra scosse il capo.."Vai allora fuori e guarda...è là morto". Ammutolii e uscii dalla camera, vi era confusione ma mi bloccai..tutti dicevano era morto..no, non volevo vederlo e tornai in camera. Guardai Azzurra e le urlai.."Esci..voglio stare sola..sola..non è lui..si sbagliano". Ritornai dentro al Palazzo ed entrai nella mia stanza, mi aggiravo nervosamente e pensavo non sarebbe stato più come prima..dovevo essere allegra per loro..per tutti e fingere..il mio ruolo era sempre stato questo, ma quando vi era Dominus non sapevo nulla di lui, quando vi era Lui era gioia e allegria nonostante il suo carattere mutevole..ma ora sarebbe stato solo un dovere ma dovevo continuare, anche perchè questa faccenda mi convinceva ben poco. Come chiestomi tolsi il lutto e misi un abito sontuoso e sgargiante, dovevo essere perfetta, mi misi davanti allo specchio e pettinandomi guardai un piccolo scrigno con delle pietre di pasta di vetro colorate...non mi ero accorta della sua presenza, scossi il capo e aprendolo trovai un piccolo sacchetto nero. Lo aprii e svuotai il contenuto sul tavolino cercando se vi fosse un biglietto.
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"Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte". E.A.Poe "Ci sono andata apposta nel bosco. Volevo incontrare il lupo per dirgli di stare attento agli esseri umani"...cit. "I am mine" - Eddie Vedder (Pearl Jam) "La mia Anima selvaggia, buia e raminga vola tra Antico e Moderno..tra Buio e Luce...pregando sulla Sacra Tomba immolo la mia vita a questo Angelo freddo aspettando la tua Redenzione come Immortale Cavaliere." Altea |
27-01-2015, 16.07.30 | #5 |
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Mi voltai di scatto verso Nero, e un istante dopo qualcuno bussò.
Sorrisi appena, invidiosa di quel sesto senso felino. Raggiunsi la finestra, scostando di poco la pesante tenda, oltre la quale si perdeva lo sguardo di Nero. Vidi così due uomini, avvolti in lunghi mantelli scuri. "Tu che dici?" mormorai, rivolta al gatto "Lavoro o guai?" risi appena, sommessamente "Forse entrambe le cose, come al solito.." facendo l'occhiolino al micio. Ormai mi ero preparata per uscire, e di solito in città preferivo essere vestita alla raffinata moda di Miral, nascondendo le armi, per evitare di dare nell'occhio. Quel giorno, infatti, avevo optato per un semplice abito verde, ma presi comunque la cintura con la spada, e la avvolsi introno alla vita. Con degli sconosciuti, la prudenza non era mai troppa. Così, scesi nel salotto di rappresentanza, su cui si affacciava la porta principale. Aprii il pesante portone e squadrai le due figure. "Salute a voi.." cordialmente. |
27-01-2015, 21.10.42 | #6 |
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Il tempo era l'intercedere di un passo di danza tra la vita degli uomini..era passato qualche tempo ormai da quando vivevo nel castello di De Gur.......avevo perso di vista la mia isola e il mio passato....anche se dentro di me c'era tanta voglia di riconciliarmi con un passato a cui avevo dato un taglio netto,mentre De Gur aveva ripreso con la sua attività militare...io mi ero dedicata alle erbe medicali.....al Castello c'era tanta terra da poter produrne erbe a sufficienza......il bosco ..che non era molto distante dalla dimora, mi regalava primizie a me sconosciute e il mio tempo diventava esperimento....trascrivevo ogni cosa....su fogli che riempivano......il laboratorio......collaboravo col vicino convento....i Frati curavano i malati che non avevano possibilità alcuna di avere un ricovero e cure adeguate....molto spesso, si dava loro almeno una degna sepoltura....
Quel giorno però......dovevo prepararmi Capomazda era in festa e De Gur in quel momento stava sfilando con la sua preziosa uniforme....... Aveva ritrovato la memoria, ricordavo ogni cosa di quel momento.......eravamo sulla nave di Burmid....Burmid e la sua ossessione per il battello volante, per quel Guisgard di cui non conoscevo nulla...ma che tutti volevano morto ...e alla fine a quanto sembrava era morto........ma in tutto quel caos...mentre ci rivestivamo nella cabina...Nettuno...mi afferro' per le braccia....e con uno sguardo estraneo.....lontano....quasi da farmi fermare il respiro in gola....mi parlo' di Lui.....di chi era e di cosa aveva fatto....ecco perchè tutti si aspettavano ill suo aiuto per catturare Guisgard.......Rimasi inebetita.....pensai che avevo perso ogni cosa.......e invece mi sbagliavo, i sentimenti non sono ricordi...sono spasmi dell'anima......e De Gur divenne nell'intimità Nettuno....ci ritrovammo complici di un Amore nato dal destino......... Sorrisi al ricordo...del matrimonio che facemmo nella Cappella del convento io e lui e due monaci per testimoni......davanti a Dio ora eravamo marito e moglie........ Scelsi un vestito color crema..........non misi gioielli......ed uscii dalla camera per raggiungere la carrozza...giu' nel piazzale...avrei incontrato De Gur a palazzo...non amavo i mometi mondani......ma sapevo che dovevo stare accanto a mio marito ...quello faceva parte del nostro stare insieme...infondo ogni tanto mi aiutava con le erbe..dovevo dargli atto che sapeva sorprendermi... |
28-01-2015, 17.12.03 | #7 |
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Se, come scrisse qualcuno, la nostra vita è scandita da astratti ed inevitabili capitoli, allora questo giorno, nella vita di Clio, sarebbe stato battezzato con un titolo particolare.
Un titolo tanto evocativo, quanto enigmatico. Poiché, come riteneva il poeta Arato da Soli, la vita degli uomini è simili al moto dei corpi celesti, o perlomeno da essi influenzato fin nei suoi intimi desideri, quando potenze misteriose ci attirano a sé, noi non possiamo fare altro che reagire alla loro orbita. Il titolo dunque avrebbe avuto a che fare con i cavalieri della vecchia Capomazda. Erano due figure austere, dai lunghi mantelli nobiliari di un profondo nero, con ornate spade che pendevano dai lori cinturoni ed una croce aurea ricamata sulle loro verdi tuniche. “Immagino voi siete lady Clio...” disse uno dei due uomini alla ragazza, con il suo inconfondibile accento straniero “... le descrizioni che abbiamo raccolto su di voi non ci hanno dunque ingannato.” “Sperando” fece l'altro cavaliere “che non si limitino al vostro bell'aspetto, milady, ma che riguardino anche la vostra abilità.”
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28-01-2015, 17.22.51 | #8 |
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Altea aprì il misterioso sacchetto e lo svuotò del suo contenuto.
Sul tavolino cadde allora un'antica collanina. La catenina era di umile ferro battuto, che terminava in un piattello circolare, poco più ampio di una moneta, con impresso sul dorso una civetta che teneva un carciofo negli artigli. Sull'altro lato quel monile invece recava una scritta che così recitava: “Gli stolti credono solo in ciò che vedono, siano gioie o dolori. Io dunque ti celerò ai loro sguardi vuoti ed ai lori poveri cuori.”
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28-01-2015, 17.39.14 | #9 |
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Elisabeth, appena pronta, scese al pianoterra del castello, dove trovò ad attenderla una carrozza.
Uno dei servi le si avvicinò per aiutarla a salire a bordo. “Siete bellissima, milady.” Disse con un lieve inchino del capo. La donna fu nella vettura e questa uscì dal castello, diretta al Palazzo dei Taddei. “Ho sentito dire” fece una delle dame di compagnia di Elisaneth “che fuori dai confini del reame dominano venti di guerra. E' vero ciò?” Fissando il Maresciallo Tauro, fedele luogotenente di De Gur e da questi incaricato per accompagnare sua moglie a corte. “Dove avete udito simili discorsi?” Chiese il militare. “Oh, ne parlano molti di ciò.” Rispose la dama. “Come si dice? Voce di popolo...” “Pettegolezzi, direi.” Sorridendo il Maresciallo. “Comunque se anche fosse, nessuno di noi dovrebbe temere nulla. Afragolignone non è in guerra con nessun popolo ed i suoi confini sono ben sorvegliati.” “Cos'è l'Ateismo Occulto?” Domandò quasi a bruciapelo la dama. Tauro la fissò vagamente turbato. “Voi siete la dama di compagnia di milady” disse poi, indicando Elisabeth “e dunque non credo che si debba angustiare ed annoiare la nostra signora con tali discussioni.” Intanto la carrozza procedeva lungo la strada, attraversando la rigogliosa campagna che appariva lievemente assopita dal Sole che già si accingeva a calare in quel pomeriggio di fine Gennaio.
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28-01-2015, 17.47.35 | #10 |
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Li squadrai attentamente, il loro abito, il loro aspetto, il loro accento.
Tuttavia non commentai, non dissi nulla, limitandomi ad annuire. "Sono Clio, non vi ingannate... Ma non sono una lady.." Con un vago sorriso, aprendo ancora di più la porta "Prego, entrate..." Facendoli accomodare in salotto "Che posso fare per voi?". |
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